Julia Deck (2014)
Viviane Élisabeth Fauville
Adelphi eBook, pp. 129
“…a quest’ora, minuto più minuto meno, saresti dovuta essere là. Seduta a due metri da lui, a tormentarti le dita in cerca di una fede che non porti più e di una libera associazione degna del suo placet. Lui se ne sarebbe stato al suo posto, assorto nella contemplazione della parete alle tue spalle, con le mani in grembo, a meditare su una ricetta di cucina o un cruciverba lasciato a metà, in attesa che tu ti mostrassi all’altezza della disciplina, rinunciando alle tue manovre difensive per diventare… Diventare cosa, esattamente?”.
E’ uno psicoanalista, la figura indifferente, distratta e disprezzata che vediamo tratteggiata in questa seduta nel curioso romanzo d’esordio della francese Julia Deck, appena uscito in Italia per Adelphi. Una seduta che sarebbe dovuta avvenire e non c’è stata, perché in quello spazio l’analista è stato assassinato.
Né giallo in senso stretto (che non meriterebbe il nostro specifico interesse) benché mantenga una certa suspance, né noir, né la storia di una vendetta o di criminali per senso di colpa, il romanzo della Deck è il racconto tutto interiore doloroso, ma anche distaccato come testimonia l’uso prevalente della seconda e terza persona per parlare di sé, del crollo esistenziale di una donna poco più che quarantenne, nella quale non mancano certo elementi d’identificazione o autobiografici dell’Autrice (e forse un’infelice esperienza analitica…).
Al centro, l’omicidio dello psicoanalista parigino (il “dottore”) che viene trovato morto da una giovane dottoranda con la quale si scopre coltivava un rapporto ambiguo e transferalmente abusante, omicidio intorno a cui s’impernia tutta la vicenda di Elizabeth, la protagonista, sia nello svolgimento esterno dei fatti, sia soprattutto nella narrazione interiore. Narrazione secca, da tipico romanzo breve moderno, ma profonda e precisa, da cui comprendiamo benissimo le tipologie psicologiche dei personaggi di contorno a Elizabeth, i loro conflitti e debolezze, le loro miserie e violenze. E altrettanto facilmente intuiamo il tipo di rapporto terapeutico che da tre anni la paziente trascinava.
Arrivata alla consultazione a trentanove anni per un apparentemente banale breve episodio di perdita di coscienza che non sa spiegarsi, Elizabeth aveva una vita apparentemente perfetta, “nessun problema particolare”. Fin dal primo incontro la sua attenzione si pone minuziosamente sui dettagli della stanza e delle prime risposte, alla ricerca di un appiglio per cui fidarsi e che non trova, ma al secondo incontro è già “ormai una specie di routine”(48), la “piccola stregoneria viennese” (43) del dottore diventa un facile, prevedibile copione per lei nel quale scivola passivamente, sempre più frustrata e insoddisfatta per le mancate risposte, per le vuote ritualità, sotto l’insistenza (tutta contemporanea!) di passare da due a tre sedute. La vita perfetta di Elizabeth, improvvisamente crolla quando il marito la lascia per la giovane baby-sitter della loro bimba di appena un anno; nel suo prestigioso posto di lavoro viene sostituita dalla collega che proprio lei ha mandato durante la maternità, il benessere economico d’un colpo perduto. Al suo dolore, alla sua fame di risposte l’analista resta lì, avvertito indifferente, stantio, controtransferalmente in cerca di conferme narcisistiche per cui è portata a dire ciò che lo compiace e lo accontenta. Ma la rabbia cresce e il dolore diventa insopportabile: con un coltello nella borsa, Elizabeth, un giorno anonimo di novembre, si reca al suo studio. Non anticipo il breve svolgersi della vicenda, che non manca di un abile finale a sorpresa benché la Deck non indugi assolutamente in questo registro, ma segnalo questo romanzo insolito, dall’ottimo stile narrativo che alterna passato e presente, realtà e immaginario, conscio e inconscio, perché credo ci riguardi.
In che modo? Sia, intanto, per il ben tratteggiato mondo interno di una donna di oggi fra tante, di meritato successo, che si sposa innamorata e dopo poco ritrova un marito interessato al suo denaro, che non sopporta il gatto né, per periodi troppo lunghi, la loro bambina che Elizabeth ama teneramente pur dopo una maternità sofferta e non priva di ambivalenze, e che, facilmente la abbandona in tempi brevi. Sia, e soprattutto, per la centralità del rapporto analista-paziente dal punto di vista esclusivo della paziente, ma anche di altri che, dopo il delitto, lei contatta nella confusa ricerca di alibi e complicità, per i quali l’analista è un “demente assoluto”.
E’ cuore del libro la totale incomunicabilità della coppia analitica, la sordità dell’analista, e l’invisibilità in cui si sente Elizabeth: “. […] non fanno minimante caso a lei – anche per loro è invisibile, come per tutti gli altri, lo psicoanalista, la polizia, e via dicendo”(64). Il delitto, se non attuato concretamente, ma inconsciamente desiderato non solo dalla protagonista, non è che l’espediente narrativo su cui prende vita la vicenda, ma che suggerisce anche il profondo odio – ricordiamo le parole di Winnicott sull’odio nel controtransfert – che circola da ambo le parti, sia che venga evacuato in un’uccisione (per fortuna rara, in senso fisico), in un agito, mascherato da indifferenza o praticato nelle pieghe del transfert.
Ascoltiamo sempre davvero i pazienti? Senza arrivare agli abusi o palesi trascuratezze, cogliamo sempre il pericolo di crollo catastrofico che può piombare sulle loro vite, e per quella persona specifica può risultare ingestibile? Tendiamo a negare l’odio, di cui si parla così poco nella relazione terapeutica e ancor meno dal versante dell’analista, difensivamente, perché ci spaventa, arroccandoci alle pur corrette richieste di aumenti di setting? Quanti vorrebbero simbolicamente farci fuori e via dicendo; molte le domande che, sottilmente e sullo sfondo, il libro pone al lettore psicoanalista.
Elizabeth era a rischio di crollo per la perdita del marito e della fantasia che se ne era costruita. Ricompare qua e là, confusa tra ricordi e l’oggi, tra reale e allucinato, la figura della madre, persa precocemente, forse un punto di riferimento mancato, certo un lutto non elaborato … le perdite saranno complesse per lei. L’aveva colto l’analista parigino? In questo, che è in fondo un romanzo di donne, si aggiunge anche il dato (di nuovo, tutto dell’oggi) della debolezza e inconsistenza del maschio rispetto alla determinazione, pur a volte ‘folle’ e caotica, delle donne. Intorno a Elizabeth, una piccola rosa di donne che è lei stessa a cercare, come la vedova del dottore, la bambinaia, la dottoranda, di cui intravvediamo conflitti e energie vitali, e pochi, svalutati uomini, primo fra tutti l’analista, ma anche l’ex marito e altri che troveremo sul finire, figure sbiadite quando non meschine, violente o sfruttatrici, sempre pronti a tradire. Solo la madre e la bambina, agli antipodi della vita, restano salde dentro di lei, perdute e ritrovate.
Concludo sottolineando un altro merito, per me, di questo breve romanzo che ce lo rende lettura non lontana dal nostro sentire, in cui l’omicidio di una figura potentemente simbolica come lo psicoanalista presta lo spunto: come convivono dentro il soggetto reale e immaginario? Cosa li separa, cosa li distingue? Vi è davvero un confine in questo bioniano e continuo sonno onirico della veglia? E’ lei l’assassina concreta, o la sola forza del desiderio?
Alla fine è forse possibile un pacificato, riposante oblio:
“Alla fine la prendi tra le braccia e la culli, distrattamente da destra a sinistra, verso l’alto, verso il basso, e tutto si fa più sfumato”(129).
Rossella Valdrè
Marzo 2014