Cultura e Società

“Vite attese” di S. Rivolta. Recensione di A. Moroni

29/08/24
"Vite attese" di S. Rivolta. Recensione di A. Moroni

Parole chiave: #memoria, #insaturità, #intersoggettività, #Civitarese, #Ferro

“Vite attese”

Di Silvia Rivolta (Transeuropa Edizioni, 2024)

Recensione di Angelo Antonio Moroni

L’insaturità è la cifra stilistica predominante dell’ultimo romanzo di Silvia Rivolta, “Vite attese”, evocazione sottile ma potente di emozioni variegate dell’animo umano, trasmesse mediante una scrittura sensoriale, dal tocco a tratti proustiano. Quella di Rivolta è una prosa poetica a tutti gli effetti, che immerge il lettore in sensazioni psicofisiche multiple, simultanee, mediate da una scrittura associativa, rifrattiva. L’autrice utilizza infatti il linguaggio come una sonda introspettiva per cogliere i vissuti dolorosi dei personaggi che attraversano la storia, in primis quelli della protagonista, Claudia Mariani, una giovane psicoterapeuta che desidera intensamente un figlio. Il marito Ettore appare fin da subito preso da altri pensieri che riguardano principalmente il suo successo come enologo che passa il suo tempo ad organizzare eventi di degustazione di vini, e non sembra cogliere il travaglio emotivo di sua moglie.

Ma il romanzo pone immediatamente in parallelo questa vicenda, in fondo così semplice – quanto dolorosamente vissuta – e comune a molte donne e a molte coppie, con la vicenda di una nuova giovane paziente di Claudia, Roberta, e con quella di Beppe, il custode di una villa antistante alla comunità psichiatrica in cui Claudia presta servizio. Ho usato più sopra il termine “proustiano” non a caso, e soprattutto senza intenzioni enfatiche di sorta: è il tema della memoria, e il suo intreccio con quello dell’affettività, il vero motore di questo romanzo. La protagonista rievoca, attraverso l’incontro di diversi “destini personali” (Bodei, 2002), tracce mnestiche che rimandano alla sua infanzia, al rapporto con la madre, ai sensi di colpa relativi al rapporto col fratello. Un passato che viene alla mente della protagonista proprio nel tessuto quotidiano, nel minimalismo – in senso letterario – dei suoi dialoghi con altri personaggi presenti nel libro.

È Roberta, la nuova paziente che entra in Comunità, a muovere particolarmente le emozioni di Claudia, a diventare la “madeleine” che apre nuove strade al ricordo. Qui il tessuto narrativo si intreccia visibilmente con l’esperienza clinica e psicoanalitica dell’Autrice, che è analista della Società svizzera di psicoanalisi. La dialettica transfert-controtransfert è descritta in modo molto lirico e viene sottolineata in modo magistrale la trama intersoggettiva di tale dialettica. La relazione terapeutica per Rivolta sembra essere infatti un “noi” più che  una relazione  “io-tu”. Rivolta sembra attingere cioè a uno sfondo filosofico non tanto vicino a quello di Martin Buber, cioè al “principio dialogico” tra sé e altro (Buber, 1997), ma piuttosto a quello di una psichiatria fenomenologica, e soprattutto a una psicoanalisi intersoggettivista contemporanea, accostabile al pensiero post-bioniano di Civitarese (2011, 2018) e a Ferro (2007, 2010), che si rifanno alla fenomenologia husserliana e a Merleau-Ponty (1945). Il “toccarsi” di due anime (come il toccarsi delle due mani nella nota metafora di Merleau-Ponty), il desiderio di “vite attese”, diventa infatti per l’autrice appunto un “noi”, un’area emotiva in cui scompare il confine tra sé e altro, un vissuto comune che diventa un campo emotivo co-creato e che vive di vita propria. La “vita attesa” di cui ci parla Silvia Rivolta, è dunque da intendersi come l’attesa fiduciosa di un sentire comune, in primis quello tra madre e bambino, assolutamente necessario perché la vita possa crescere e svilupparsi, così come il pensiero. Questa “attesa” non è tuttavia scevra da pericoli, e a volte può rivelarsi una trappola, come avviene nell’ultimo film di M. Night Shyamalan, “Trap” (2024), titolo paradigmatico di una regia a cui, a sua volta, la mia mente è scivolata associativamente dopo la lettura del libro di Silvia Rivolta. L’attesa può far comparire in controluce una trappola emotiva nel momento in cui, come avviene nel cinema di Shyamalan, la ricerca di una sicurezza impossibile, della realizzazione di una fantasia messianica, si traduce in pensiero persecutorio, in “claustrum” (Meltzer, 1992), in veri e propri “tormenti di anime” (Ferro, 2010). Per accendere l’insopprimibile scintilla della vita occorre farsi carico del vuoto della perdita e della morte, inscritta inestricabilmente nel mistero della vita stessa. Come nel cinema di Shyamalan, particolarmente nel suo “Trap”,  Rivolta ci ricorda che sebbene la realizzazione dei nostri desideri nella loro purezza non sia mai un dato acquisito, esistono sempre strade imprevedibili, determinate probabilisticamente dal caso. E’ proprio questo, in fondo, la vita: il nascere casuale di edere per talea, come avviene nel giardino di Beppe, la cui casa è di fronte alla Comunità di Roberta, altra “gabbia”, di “matti” questa volta, come è anche la vita. Pure il protagonista del film di Shyamalan, Cooper, un serial killer braccato dalla polizia all’interno di uno stadio in cui si sta svolgendo un concerto, dirà la stessa cosa, dolorosamente, attraverso questa frase: “Non esistono persone integre. Siamo tutti rotti”.

Aprirsi alla vita implica prendersi cura delle nostre parti rotte, dei nostri Sé dissociati (Bromberg, 2007), delle nostre memorie traumatiche, cioè significa occuparsi sia della vittima che del killer che mutualmente costruiscono in noi le identificazioni alienanti (Faimberg, 1995) più dannose. Tali identificazioni si innestano, come edera infestante sulla asimmetria della relazione primaria, punto cardine di attivazione della patologia narcisistica nell’incontro tra la competenza vitale e autopoietica del neonato e l’influenza delle proiezioni narcisistiche dei caregivers.

L’Autrice ci parla di tutto questo con una prosa ovviamente non tecnica, ma al contrario sognante, aperta, insatura. Silvia Rivolta sembra ribadire in questo libro l’idea heideggeriana secondo cui le parole della poesia sono la vera “dimora dell’Essere” (Heidegger, 1950).

Riferimenti bibliografici

Bodei, R. (2002). Destini personali. L’età della colonizzazione delle coscienze. Milano, Feltrinelli.

Bromberg, P.M. (2007). Clinica del trauma e della dissociazione. Milano, Raffaello Cortina.

Buber, M. (1997). Il principio dialogico e altri saggi. A cura di A. Poma. Roma, Edizioni San Paolo, 2011.

Civitarese, G. (2011), La violenza delle emozioni, Milano, Raffaello Cortina.

Civitarese, G. (2018) Soggetti Sublimi. Esperienza estetica e intersoggettività in psicoanalisi, Milano, Mimesis Edizioni.

Faimberg, H. (1995). All’ascolto del télescopage delle generazioni. In: R. Kaës, H.

Ferro, A. (2007) Vivere le emozioni, evitare le emozioni,Raffaello Cortina, Milano.

Ferro A. (2010), Tormenti di anime. Passioni, sintomi, sogni, Raffaello Cortina, Milano

Heidegger, M. (1950). L’origine dell’opera d’arte, in Sentieri interrotti, presentazione e tr. it. di P. Chiodi, Firenze, La Nuova Italia 1968, pp. 3-69.

Kaës, R.; Faimberg, H., Enriquez, M., Baranes, J.J (1993) Trasmissione della vita psichica tra generazioni. Roma, Borla 1995.

Meltzer, D. (1992). Claustrum. Uno studio dei fenomeni claustrofobici. Milano, Raffaello Cortina.

Merleau-Ponty, M. (1945), Fenomenologia della percezione, Milano, Bompiani, 2003.

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