Us
di Michele Cocchi (Fandango, 2020)
Recensione di Filippo Barosi
Nel dicembre 2023 decidiamo, col folto gruppo di candidati della sezione, di organizzare un pranzo di Natale a cavallo delle ultime lezioni dell’anno. È un rito collettivo che cerchiamo di portare avanti negli ultimi tempi e al quale tengo particolarmente: il mio anno ha iniziato il training in piena pandemia e abbiamo avuto occasione di incontrarci fisicamente, tra noi e con tutti gli altri candidati e docenti, solo nel settembre del 2021. Questo fatto mi ha lasciato dentro il bisogno di rimediare a quella partenza amputata e incorporea, che in molti di noi ha generato un imprinting di distacco e isolamento, per quanto mettesse al riparo dalle angosce del contagio e favorisse un certo risparmio energetico.
Per arricchire l’esperienza e giocare un po’, abbiamo anche deciso di farci un piccolo regalo. Ciascuno di noi avrebbe scelto un libro per regalarlo, impacchettato e alla cieca, a qualcun altro scelto a caso. Così mi è capitato tra le mani Us, un romanzo del quale non avevo mai sentito parlare e che già dal titolo mi pareva risuonare particolarmente con il momento in cui l’ho ricevuto.
Michele Cocchi è stato un collega pistoiese, andatosene prematuramente il 31 dicembre 2022. Ha scritto alcuni romanzi e questo, uscito nel 2020, è il suo penultimo. A fine 2023 è uscito postumo “Ferrabosco”, sempre per Fandango. Di formazione Tavistock, era compagno di studio della collega che ha deciso di regalare, e far conoscere, il suo libro.
Us parla di adolescenza: il protagonista, Tommaso, è un ragazzo che per qualche motivo, perché c’è sempre un “qualche” motivo, mescolato con altre ragioni misteriose, è chiuso in casa da più di un anno. Non va a scuola, non esce con gli amici e a malapena mette il naso fuori dalla sua stanza, parla poco e male con i suoi genitori. È un hikikomori insomma, un adolescente ritirato che si è circondato di buio per proteggersi dalla paura e dalla vergogna, emozioni in forma pura che non si legano a qualcosa di particolare ma che proprio per questo si espandono fino ad inglobare tutto.
Intorno al protagonista c’è una famiglia sfibrata ma amorevole, imperfetta ma non folle, una famiglia qualsiasi collocata nel nostro tempo e nelle nostre città di oggi.
Tommaso ha due sole passioni che riescono a tenerlo acceso: la pallacanestro NBA e, soprattutto, i videogiochi.
La storia comincia quando Tommaso ha appena iniziato a giocare ad Us. Si tratta di un videogioco multiplayer online, in cui si è parte di squadre di tre composte da giocatori umani connessi da non si sa dove. La caratteristica peculiare di Us è che questi terzetti, generati casualmente al momento dell’iscrizione, rimangono sempre gli stessi così che i giocatori siano legati in modo interdipendente tra loro. Regola fondamentale è infatti che se anche uno solo dei tre dovesse commettere errori fatali o rinunciare a giocare, tutta la squadra sarebbe costretta a perdere la partita o addirittura a ritirarsi dal videogioco.
Il gioco consiste in missioni quotidiane sempre diverse, ambientate in contesti storici violenti e ambigui: la guerra civile in Jugoslavia, il monastero etiope di Debre Libanos, il massacro dei campi di Sabra e Chatila in Libano (quelli raccontati da “Valzer con Bashir”) e altri non meno drammatici dove l’uomo, adulto in questo caso, ha saputo scatenare il peggio della propria distruttività. Il gioco porta i giocatori a scelte difficili attraverso articolati dialoghi coi personaggi non giocanti, scelte morali che mettono in crisi l’idea stessa di gioco e ne fanno piuttosto un’esperienza che pone i giocatori in continuo conflitto intra- e inter-psichico. Se da una parte infatti cercano di capire cosa fare per poter completare lo scenario, che cambia ogni giorno e, se fallito, può essere ritentato solo 100 giorni dopo, dall’altra c’è sempre la possibilità di fare la scelta “giusta”, rischiando di perdere la partita ma empatizzando con la storia della missione e soprattutto i suoi protagonisti che, per quanto virtuali, sono pur sempre inseriti in contesti e drammi storici realmente avvenuti e quindi potrebbero essere davvero esistiti.
Come detto, il terzetto di umani, mascherati dietro ai loro avatar e alle loro skin, è sempre lo stesso ogni sera, ed è così che Tommaso, nickname Logan, fa conoscenza di Rin e Hud, una ragazza e un ragazzo di cui si può intuire solo l’appartenenza alla stessa fascia d’età. Nonostante la regola/divieto di parlare dei se stessi reali, i tre pian piano e a dispetto della distanza tra i loro corpi fisici, diventano reciproci oggetti di investimento e vettori di speranza, aiutandosi reciprocamente a galleggiare nell’universo adolescenziale complicato nel quale vivono ogni giorno.
Succede allora che questo nuovo videogioco diventi un luogo dove Tommaso può iniziare a “giocare” quella parte che non riesce a uscire nel “mondo della veglia”. Come sempre accade almeno in parte, il virtuale non è un mondo altro dove il soggetto non esiste più, ma piuttosto un mondo dove è possibile vivere qualcosa che non si può o non si riesce a portare nella realtà di tutti i giorni.
Parallelamente, di qua dallo schermo, Tommaso incontra una psicoterapeuta che cautamente lo avvicina a domicilio e con delicatezza gli chiede il permesso di entrare nella sua bolla, aiutandolo senza presunzione a tenere aperto qualche varco di senso e di comunicazione col mondo esterno. Sappiamo ormai bene che, metaforicamente e non, con gli adolescenti è necessario andare là dove sono e farsi raccontare e spiegare il loro mondo, non pensando che prima o poi si arriverà al nocciolo vero o che ci sia qualcosa di nascosto da disvelare, ma che proprio di loro stiano parlando già mentre ricordano le azioni di quel tale giocatore di basket o le caratteristiche di quel fucile. È quindi un po’ come farsi mostrare l’arredamento di quel “rifugio della mente” (Steiner, 1996) che li protegge non senza validissime motivazioni, piuttosto che volerceli tirare fuori a forza.
I due percorsi si muovono affiancati nel racconto, in lieve ma costante avvicinamento integrativo, senza giudizi né presunzioni salvifiche.
Cocchi racconta bene quanto nell’adolescenza il dentro e il fuori siano in continuità e dialogo costante. Tommaso entra ed esce dal mondo virtuale e lì impara pian piano a conoscere la vita e la sua complessità, attraverso gli aspetti educativi di un videogioco che certo propone un’esperienza particolarmente profonda (ma davvero ne esistono tanti in grado di stimolare riflessioni di spessore!). Questa può diventare una esperienza transizionale tra l’onnipotenza e la frustrazione, che se non ingloba in una fissazione maligna, come può accadere in qualsiasi blocco evolutivo, aiuta invece i ragazzi a sviluppare al sicuro, nella propria camera-rifugio, qualcosa che rischierebbe di collassare sotto le pressioni del mondo al di fuori.
Nel racconto si capisce bene il peso dell’Ideale dell’Io supereroistico e delle aspettative asfissianti che porta con sé: il basket non ha senso se non si può giocare in NBA ma, come gli dice la psicologa, i giocatori NBA sono davvero superuomini, come gli Avengers, come il Logan “Wolverine” del suo nickname. “Sono così distanti dalla media delle persone che possiamo dire che sono diversi, quanto gli alieni. Diciamo che hanno avuto la fortuna di ritrovarsi la superaltezza, la superagilità, il supertiro, così è troppo facile…”
Ogni ragazzo ha bisogno di sentirsi eroe almeno per una volta, parafrasando l’autore, e attraversare l’adolescenza è di per sé un’impresa eroica degna dei miti antichi. Per farlo occorre ri-trovare la forza del fare insieme, in quello spazio psichico allargato, per dirla con Jeammet (2007), dove ciascuno mette qualcosa e tutti insieme si compiono imprese extra-ordinarie – e non quelle impossibili, che riescono una volta nella vita se va bene e che sono metro di paragone costante delle esistenze infelici. Insomma, Nessuno si salva da solo, citando il titolo di un romanzo più conosciuto, e l’adolescenza è spesso quel momento nel quale i legami diventano la linfa spesso decisiva per determinare l’andamento dell’intera vita di una persona.
Cocchi lo sa e la sua visione disincantata e insieme speranzosa è quella di chi di ragazzi ne ha visti tanti, ne ha aiutati molti e, probabilmente, ha assaporato quei fallimenti amari e inevitabili che forse aiutano soprattutto chi di quel paziente prenderà il posto.
Come attraverso la pandemia, che ci ha smaterializzati e abituati alla distanza ma, al tempo stesso, ci ha messi ancora di più di fronte alla necessità di vederci da vicino, Us parla del bisogno e del desiderio di essere contattati là dove si è e di trovare il proprio senso nel mondo, anche e soprattutto attraverso gli altri e a patto di imparare poco a poco a tollerare l’angoscia e la violenza del contatto con l’essere umano. Nell’adolescenza, ma, in fondo e come abbiamo tutti ben sperimentato, per tutta la vita.
(È un fatto tangenziale ma non indifferente che io abbia riconosciuto Michele, una volta vista la sua foto online. Lo avevo incontrato qualche volta all’università ormai vent’anni fa, incontri fugaci il cui ricordo mi ha però riportato ad altri tempi e ad altre persone, lontani ma non così diversi da quelli di oggi, risuonando intensamente con il momento di condivisione di gruppo in cui ho ricevuto il libro)
Bibliografia
Jeammet, P. (2007), Psicopatologia dell’adolescenza, Borla, Roma.
Steiner, J. (1996), I rifugi della mente, Bollati Boringhieri, Torino.
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