Parole chiave: #fantasmi, #rispecchiamento, #neglect
Una minima infelicità
di Carmen Verde (Neri Pozza, 2022)
Recensione di Barbara Giorgi
“Non si può dare a una figlia un nome che non si ama.
Oppure si?”
Vecchie fotografie si susseguono pagina dopo pagina, come appese ad un filo scandiscono il ritmo di questo romanzo che fa dell’essenzialità la sua ricchezza. Attorno a loro, in un gioco di equilibrio, volteggia la storia della famiglia Baldini, una storia tanto infelice quanto incredibilmente possibile.
Annetta è la protagonista delle fotografie e del libro, esordio per l’autrice Carmen Verde. Lei e la sua mamma, Sofia Vivier, nelle foto sono sempre sedute vicine, mentre Antonio Baldini, rispettivamente padre e marito, non compare mai. Eppure, lui è presente anche se non si vede, è dietro l’obiettivo. Antonio è un padre in disparte, arretra sullo sfondo di questo rapporto madre e figlia, unico e terribile, illuminato dalla luce della nonna Adelina Gentile, donna folle e “vocata all’oscenità”.
“La follia della Nonna Adelina dominava la nostra famiglia. Era nelle infedeltà di mia madre, era nella cupezza di mio padre, era nel mio corpo minimo, contratto, che io stessa guardavo oramai con disgusto”.
Selma Fraiberg scrive che ci sono fantasmi nella stanza di ogni bambino, intrusi provenienti dal passato non pensato dei genitori. Solitamente, questi ostili visitatori rientrano nelle loro dimore sotterranee perchè i legami d’amore proteggono il bambino e i genitori dalla loro malignità.
Nella famiglia Baldini questo non accade. I fantasmi si aggirano liberamente tra le mura della casa, abitano alcune stanze, nulla riesce a respingerli. In questa famiglia l’infelicità è qualche cosa di visibile, è un luogo fisico, una stanza buia dove si sceglie di restare. Nonna Adelina ha avuto un’estrema cura di questa stanza e l’ha affidata, in dote, alla figlia Sofia. Così, seguendo quei silenziosi mandati generazionali che spesso troviamo nelle storie dei nostri pazienti, Annetta si accomoda nella stanza dell’infelicità creandosi il suo posto speciale, e, senza protestare, la rende, via via, sempre più piccola, minima, essenziale. Una minima infelicità, appunto.
Carmen Verde è brava a descrivere questo rapporto madre e figlia così inadatto a proteggere Annetta dalla malignità dei fantasmi, un legame dove le parti dell’una si mescolano con quelle dell’altra e non c’è spazio per la crescita, la separazione, la differenza. Mentre Sofia insegue amori sbagliati, vergognandosi del piccolo corpo della figlia, Annetta diventa sempre più minuta. Si allena con ostinazione alla rinuncia, vive imparando dalla madre “l’arte oculatissima dell’illusione”, abita con tenacia un corpo che non cresce.
“Tutta la mia persona era perfettamente contenuta in quella di mia madre. Il mio piccolo corpo non era, in fondo, che una porzione del suo.”
Sofia è una donna inadeguata nel suo ruolo di madre. Per anni, ogni giorno aspetta Annetta all’uscita da scuola, “se resta, mi vuole bene, mi dicevo”, per poi prendere, immancabilmente e con sicurezza, sempre la strada sbagliata ad ogni incrocio. Poi, improvvisamente, si dimentica della figlia, smette di aspettarla e gli offre il suo primo bicchiere di cognac. Annetta ha solo dieci anni.
Per Sofia, possedere e abbandonare sono due cose indissolubilmente legate tra loro, si stordisce acquistando compulsivamente oggetti che poi adagia nel buio della cassapanca.
“Amava quegli oggetti per lo stesso motivo che la spinse poi ad amare l’alcol. La stordivano. Ma quando l’effetto finiva, si torceva le mani, disperata.”
Possiede per poi abbandonare, ed è questo il destino che riserva ad Annetta, alla quale non resta che adeguare il suo comportamento allo spirito della madre.
L’arrivo della governante Clara Bigi, donna onnipotente che ruba e rompe gli oggetti della casa, rinforza e chiude ancora di più il loro legame. Questa figura femminile sembra uscita appositamente dalla penna dell’autrice per creare un personaggio capace di ricevere l’invidia di Sofia e l’odio di Annetta. Spostando su di lei tutto il suo odio, Annetta riesce così, ancora una volta, a proteggere sua madre.
“Non devo dimenticare che mia madre cercava solo di essere felice.”
Neppure “gli esercizi di avvicinamento” tra Annetta e il padre aprono una breccia tra loro, neanche quando, in spiaggia solo loro due, per qualche istante Annetta coglie nel corpo del padre una tenacia e una forza mai notate prima. Eppure, al ritorno, “quando scendemmo dall’auto eravamo entrambi delusi l’uno dell’altra.”
Così, tornando a perdere di vista il padre, con errori che si ripetono nel tempo e lo allontanano sempre di più dal suo cuore, Annetta prosegue la sua missione alla ricerca dell’attenzione della madre. Ma il riconoscimento non arriva, al suo posto, resta l’infelicità di non essere vista.
“La felicità di poter dire, come il piccolo contadino d’Ars, «io la guardo e lei mi guarda», a me era negata. Mamma non mi guardava mai. Ma la sua indifferenza non faceva che accrescere il mio amore già smisurato.”
Questo sguardo mancato, tanto ricercato ma disperatamente assente, fa ricordare le belle pagine scritte da Winnicott sull’importanza dello sguardo materno e sul bisogno del bambino di ritrovare se stesso negli occhi della madre. Tra Sofia e Annetta manca quello sguardo, c’è un vuoto nel quale è impossibile ritrovarsi, tra loro regna l’infelicità della concretezza che ruba lo spazio al sogno, alla possibilità di rappresentare.
“Nella mia famiglia, sognare non era una cosa naturale: mia madre, mio padre, io stessa venivamo come rapiti dalla notte, sprofondavamo di colpo in un mondo buio, senza immagini. Eravamo fatti così, diceva mamma. Non avevamo fantasia. Era orribile non avere fantasia. Pure, nella tortuosità del mio amore di figlia, gioivo al pensiero che qualche cosa ci accomunasse.”
Anche quando Sofia muore e Annetta può, finalmente, cominciare a sognare, di nuovo, neppure in questi sogni riesce ad incontrare lo sguardo materno.
“E io sapevo che mai, neppure in sogno si sarebbe voltata a guardarmi.”
E` difficile, per una madre che non è stata vista, offrire alla propria figlia quello sguardo del quale parla Winnicott.
Anche Antonio Baldini, attento osservatore di tessuti quanto marito e padre distrato, sembra incapace di offrire il suo sguardo, troppo preso dalla propria infelicità e dal decifrare il “linguaggio delle stoffe”. Ci si sente davvero infelici nel leggere dell’incontro tra Sofia ed il marito. Sofia decide, ed è una rara occasione, di andare a trovare il marito al suo negozio di stoffe. Tiene Annetta per mano, ma, troppo piccola per superare l’altezza del bancone, la figlia resta invisibile agli occhi del padre. Complice, forse, un gioco di luci soffuse, fatto sta che Antonio Baldini non riconosce la moglie e la saluta dandole la mano, come fosse una cliente. A questo saluto che fa venire i brividi al lettore, Sofia risponde, “incapace di risolvere subito l’impasse”, con una formale stretta di mano.
“Quando ci riaccompagnò alla porta, lessi sul suo volto un’inconsolabile amarezza. Non avere riconosciuto sua moglie, averla confusa con una cliente, equivaleva per lui a una terribile rivelazione. Mi senti solidale con lui, con il suo smarrimento.”
Sguardi cercati e mai trovati, rincorsi e mancati. Un vuoto immenso che ben si offre all’idealizzazione, perché solo così può essere tollerato.
“E’ più facile capire le ragioni dell’odio che quelle dell’amore. Sospetto che se mia madre fosse stata una madre migliore, se non mi avesse continuamente esclusa dal suo mondo, se insomma mi avesse amata di più, forse non le avrei voluto così bene. La mia fantasia da bambina la trasformava, giorno dopo giorno, in una dea.”
Allora ad Annetta non resta che affidarsi alla casa che appartiene ai Baldini da generazioni, al suo vuoto “nobile e grande”, alle stanze buie con le porte chiuse, al silenzio abitato dai fantasmi. Si affida alla casa e si ritira, sempre un po’ di più.
La particolarità di questo libro è anche nel suo essere minimo, ridotto, sottratto. E` un libro breve, come brevi sono le sue pagine, minute come il corpo di Annetta. Ci sono spazi, ampi e silenziosi, dove si sente l’infelicità di questa famiglia, altri, più brevi, dove il pensiero suscitato dalla lettura può sostare, in attesa della pagina successiva.
Tutto è essenziale, ma l’essenzialità non toglie nulla alla grandezza. Come dire, nel piccolo ci sta il grande.
Lascia un segno la lettura di questo primo romanzo di Carmen Verde. Colpisce la sua abilità nel descrivere armadi e cassetti, “le piccole bare in cui una parte di noi si accomoda ancora in vita”, spaventa la distrazione di Sofia per la figlia, fa riflettere il piacere di privarsi di Annetta, la sua dedizione alla rinuncia.
Quando i fantasmi non rientrano nelle loro dimore sotterranee, la storia diventa il destino. Una minima infelicità che, di fatto, è immensa.
Riferimenti bibliografici
Fraiberg S. (1974) “I fantasmi nella stanza dei bambini”, in Il Sostegno allo sviluppo (1999), Raffaello Cortina Editore
Winnicott D.W. (1971) Gioco e realtà, Armando Editori