Parole chiave: Freud, Edipo, Femminile, Psicoanalisi
TRISTE TIGRE
di Neige Sinno (Neri Pozza, 2023)
recensione di Emanuela Pironi
‘Io non sono salva…’
“L’importante non è ciò che hanno fatto di noi, ma quel che facciamo noi stessi di ciò che hanno fatto di noi.” [J.P.Sartre]
…Ho voluto credere a lungo di poter considerare lo stupro della mia infanzia come un elemento fra tanti. E invece ho dovuto arrendermi all’evidenza, e cioè che esiste una differenza abissale all’interno delle possibili categorie di “ciò che hanno fatto di noi.” (Sartre, citato a pg.166)
Neige Sinno ha atteso venti anni prima di scrivere ‘Triste Tigre’, una testimonianza autobiografica, in cui racconta la storia degli abusi sessuali che la scrittrice francese, ora in Messico, ha subito quando era bambina dal suo patrigno, più o meno dai sette ai quattordici anni. Nel 2000 ha deciso di denunciarlo insieme alla madre; lui ha ammesso gli stupri reiterati, è stato nove anni in carcere e ora, fuori, ha un’altra vita, un’altra famiglia e nuovi figli.
“Un abuso sessuale su un bambino non è una dura prova, un incidente della vita, è un’umiliazione profonda e sistematica che distrugge le fondamenta stesse dell’essere. Quando si è vittime una volta, si è vittime sempre. E soprattutto si è vittime per sempre. Anche quando se ne viene fuori, non se ne viene fuori davvero.
…il ricordo traumatico, lui, rimane molto impresso, ha la tendenza a ripetersi come un film, a emergere a volte anche in modo involontario in certi momenti di abbandono, nei sogni…
…lo stupro è più una questione di potere che di sesso… la dominazione sessuale è una forma di sottomissione che intacca le fondamenta stesse dell’essere. … Le conseguenze dello stupro vanno dunque ben al di là dell’ambito circoscritto della sessualità, minano tutto, dalla capacità di respirare fino a quella di rivolgersi alle persone, ma anche di mangiare, lavarsi, guardare, immaginare, disegnare, parlare o tacere, di percepire la propria esistenza come una realtà, di ricordare, di imparare, pensare, abitare il proprio corpo e la propria vita, sentirsi capaci di, semplicemente, essere.”
A parte il momento esatto in cui tutto ha avuto inizio (il trauma altera la cronologia dei fatti), i ricordi sono perfettamente incisi nella mente e nel corpo della donna che Neige è diventata.
Il trauma si ripresenta sempre attuale, il trauma è adesso, le sue ramificazioni sono così potentemente embricate nella persona da rendere quasi impossibile la ri-costruzione, la riparazione di una identità di cui, comunque, sia la psicoanalisi che la filosofia ermeneutica, a prescindere dall’evento traumatico, riconoscono il carattere inafferrabile. Detto questo, l’autrice a un certo punto scrive:
…non sono andata in analisi, mai iniziata una psicoterapia…
Chissà? Certo l’autobiografia degli abusi subiti e dello stupro è sicuramente un lavoro di tessitura, un po’come le camicie di foglie d’ortica della storia che a un certo punto l’autrice racconta per parlare del silenzio e del segreto. “Il mio mondo interiore si è forgiato nella consapevolezza di sapermi estranea al mondo, mondo a cui non potevo rivelare chi ero realmente. Quel segreto e il fatto di sapere che gli sopravvivevo, erano la mia forza.” Così, forse, lo scrivere questa autobiografia è stato per l’autrice come accade alla tessitura di una ri-costruzione narrativa in Analisi o in Psicoterapia, con cui si tenta pazientemente e ostinatamente di riaggregare, riassemblare, ritessere i fili per cercare di riparare il ‘buco nero identitario’ di questi pazienti. Infatti, muovendo dall’idea ricoeuriana di identità narrativa, quella narrata dall’autrice nel suo memoir, il lavoro analitico cerca di giungere, (attraverso la capacità di rêverie, di tollerare il negativo, di essere in contatto col proprio controtransfert e con l’odio nel controtransfert), a quella di identità traduttiva dando evidenza, sulla scia del pensiero psicoanalitico, al concetto bioniano di trasformazione e kleiniano di riparazione nel caso di traumi così profondi come lo stupro e l’abuso di minori.
Inevitabilmente, alla domanda che questi eventi suscitano, se è possibile una riparazione o a quale possibile ‘riparazione’ si può giungere? La mente recupera con A. Ferro l’idea della vocazione dell’analista come ‘adottante’, che prende in cura pazienti per i quali non c’è stata una mente sufficientemente disponibile quando ce ne sarebbe stato bisogno – qualcuno, un adulto, una madre, una nonna, un vicino a cui poter dire, a cui poter rivelare il ‘segreto’.
Non si può semplicemente insegnare a un bambino come dire di no a un aggressore, che il suo corpo appartiene a lui e che nessun altro ha il diritto di toccarlo. […] Un bambino non può dire di no al fratello maggiore o al professore che lo metterà in ogni caso in una situazione per cui il no è impensabile. Non possiamo nemmeno aspettarci che se gli succede qualcosa sia il bambino stesso a parlare, se prima non abbiamo fatto niente per stimolare, preparare e accogliere le sue parole. (pg.177)
L’analista come qualcuno capace di accogliere, trasformare i ‘buchi neri’, di non pensabilità, (elementi proto sensoriali e proto emotivi, condensati di elementi β e ‘balfa’del paziente), per arrivare a consentire una decompressione di quegli ammassi di sensorialità e confusione che erano là in attesa di un narratore e che subito fanno pensare alla confusione di lingue di Ferenczi. Ma quello che mi sta accadendo è un abuso o è amore? Che sia una qualche forma di amore ‘speciale’, cioè perverso. “…Ricordo che avevo voglia che succedesse. […] Perlomeno quella volta ero proprio sicura che era quello che era.” Uno STUPRO.
E ancora, dice sempre A. Ferro, l’analista come un ‘cantastorie’ che attraverso la sua capacità recettivo-sognante, possa dar voce e storia, creando nel campo una logopoiesi e mitopoiesi fatta di immagini-visioni (la cantina), come quelle che l’autrice suscita nel lettore e quelle etnico-collettive di quell’‘allora e altrove’, quell’altro posto/mondo: “…chi ha toccato con mano l’altro mondo, trascinatoci dal suo aguzzino, chi sa cosa vuol dire fare del male, se ne porterà gli stralci in ogni sguardo e in ogni gesto, e sarà sempre in grado di riconoscere chi è sceso negli abissi insieme a lui.”
Rammentando il ricordo di A. Segal, sul fatto che ‘non tutto si può riparare… e non tutto è recuperabile’ mi chiedo se si può provare a imparare a tollerare l’irreparabilità riuscendo a ‘soffrire il dolore’ (W. Bion) sia per noi come individui, che per noi Analisti dei nostri pazienti, che per i nostri pazienti stessi.
La percezione impotente di essere confrontati con un compito impossibile mi ha fatto ancora pensare a uno scritto di G. P. Williams “E’ come dover ricostruire Dresda con il secchiello e la paletta” titolo preso da una frase detta da un suo piccolo paziente, così pensando a questo incontro ho fantasticato sul ruolo di questa Assemblea, questa allargata Famiglia narrativa, immaginando che ognuno di noi col proprio contributo, con la propria ‘paletta’ fosse qui convocato a lavorare insieme alla pensabilità di una ricostruzione-riparazione dell’irreparabile per Neige, come per tutti i piccoli che come lei hanno subito e subiscono abusi, come poi è realmente accaduto per Dresda, distrutta dai bombardamenti, dopo la fine della II guerra mondiale.
Nessuno potrà toglierci la pioggia d’estate.
Ecco forse quello che resta, che può essere recuperato da un’infanzia perduta nell’abiezione altrui… Forse è possibile tenere lo stupro in una stanza del nostro essere senza trasformarlo in una cisti piena di lacrime, un ‘altro posto’ (un’altra dimensione) da cui è sempre pronto a farsi sentire ma non per questo, per forza, impedire alla vittima di dare un senso alla propria esistenza?
A un certo punto l’autrice racconta di come ne ha parlato con sua figlia portandoci nello spazio filogenetico del transgenerazionale e all’ ‘associazione’ dell’abuso con la tortura, i crimini di guerra, l’olocausto…Come se ne esce vivi dentro? Capaci ancora di sentire di “essere”?
Liliana Segre, in una recente intervista racconta che non è mai tornata ad Auschwitz, e perché avrei dovuto farlo? E che con i suoi figli ma soprattutto con i suoi nipotini ha sentito che forse dentro di lei quel periodo era ‘pacificato’.
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