TASMANIA
di Paolo Giordano (Einaudi, 2022).
Recensione di Angelo A. Moroni
Quale contributo di pensiero e di riflessione critica può dare la letteratura contemporanea alla comprensione del presente che viviamo? Può la letteratura tentare di proporsi come eventuale bussola orientativa in questo drammatico scorcio della Storia umana che già Bollas nel 2013 definiva profeticamente “epoca dello smarrimento”? Paolo Giordano (“La solitudine dei numeri primi”, 2008; “Il corpo umano”, 2012; “Il nero e l’argento”, 2014; “Divorare il cielo”, 2018), fisico e scrittore, vincitore a soli ventisei anni del Premio Strega nel 2008, prova a dare una risposta a queste difficili domande nel suo ultimo romanzo, “Tasmania”.
Il testo appare a prima vista come un racconto intimistico e autobiografico. Il protagonista è infatti P.G., giornalista scientifico di un noto quotidiano italiano, laureato in Fisica e docente presso la Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati di Trieste. Come non riconoscervi dunque lo stesso Autore, che possiede più o meno gli stessi titoli accademici e professionali del protagonista? Giordano apre subito il suo discorso narrativo a partire da aspetti soggettivi, privati, che riguardano la crisi di coppia di P.G., l’Io narrante. Un breakdown coniugale sottile, potremmo dire insidioso, lento, che parte da un faticoso tentativo di avere un figlio con la compagna Lorenza. Tale tentativo naufraga ben presto, dispiegandosi molto rapidamente come una metafora dei temi decisamente più sociali su cui si concentrerà tutta la narrazione successiva. Una narrazione che mostra fin da subito quali siano il sottotesto critico e l’eurèsis cui mira deliberatamente l’autore: evidenziare coincidenze e specularità tra destino del soggetto narrante e quello della collettività umana di cui fa parte.
Se lo guardiamo da un’ottica squisitamente psicoanalitica potremmo dire così che questo libro abbia un’ispirazione “intersoggettivista” (mi riferisco qui, in particolare all’accezione di intersoggettivismo data da Civitarese, 2008, e Ferro e Civitarese, 2015), nella quale uno sguardo fenomenologico-minimalista, con derivazioni che ricordano la Susan Minot di “Scimmie” (1986), si intreccia con una riflessione di più ampio respiro sul tempo presente e sui molti vicoli ciechi che l’umanità ha costruito con le sue stesse mani, per poi perdervi ogni orizzonte di senso, autodistruttivamente. Un “intersoggettivismo” pessimistico, cosmico, quindi, leopardiano, ancor più che sveviano, potremmo dire, molto lontano quindi da quello che cerca di descrivere la psicoanalisi contemporanea, anche nei suoi fecondi intrecci con la narratologia e la letteratura. Nel libro di Giordano infatti non è più solo Zeno l’inetto, ma l’intera umanità a mostrarsi come inettitudine caotica, tendente alla catastrofe e sempre più dimentica delle catastrofi di cui è – da sempre – stata l’unica responsabile. Non è un caso che gran parte del narrato riguardi la scrittura di un libro sulla Bomba Atomica che il protagonista persegue pervicacemente quanto faticosamente.
Come sappiamo, Psicoanalisi e Letteratura si sono da sempre influenzate reciprocamente, basti pensare, oltre agli esempi italiani di Svevo o di Giuseppe Berto, nella cultura tedesca, al rapporto tra Freud e Schnitzler, all’influsso di Hoffmann su Freud, all’interesse di Freud per Dostoevskij, in area inglese alle riflessioni di Hanna Segal su Proust, alla mitopoietica fila C della griglia di Bion; per non parlare dell’influsso della psicoanalisi sulla critica letteraria: in Italia citerò soltanto Francesco Orlando e il suo testo fondamentale “Per una teoria freudiana della letteratura”, del 1965. In Francia ricorderò la cosiddetta “psicocritica” di Charles Mauron che nel suo saggio “Dalle metafore ossessive al mito personale”, del 1963, affermerà che gli artisti sono coloro che creano “esseri di linguaggio” e che la poesia crea “reti autonome di immagini” che riguardano l’inconscio, sia del lettore che dello scrittore.
Gli “esseri di linguaggio” creati da Giordano in questo libro sono tuttavia esseri umani nomadici, alla deriva, che non “creano reti autonome di immagini”, come direbbe Mauron, ma che al contrario tendono a destrutturare qualsiasi rete di senso, e a rimandare all’inconscio del lettore una sensazione di rassegnazione passiva. La stessa struttura del testo è ondivaga e non-lineare, proprio come le vicende esistenziali di P.G., che si muove tra Roma, Parigi e Trieste, come alla ricerca di un Sé introvabile, rifratto, disseminato in un tempo e in uno spazio che non sente mai veramente suo, o nel quale potersi riconoscere transizionalmente. Il racconto, da questo punto di vista, può anche essere visto come la narrazione della crisi esistenziale (esistenzialistica?) del protagonista, “intellettuale di sinistra” alle soglie dei quarant’anni, nella cui deriva psichica e familiare si rispecchia il destino di inesorabile destrutturazione melanconica della specie umana.
La speranza non alligna tra le pagine di Giordano. Anzi, lo scrittore torinese sembra voler esplorare sistematicamente ogni area del lebensraum antropocenico attuale, evidenziandone crepe e dissesti, come preconcezioni di una caduta inesorabile verso il declino. Débâcle che non risparmia nessuno: i giovani (il libro si chiude con il suicidio di uno studente universitario, allievo di P.G.), la crisi di coppia (quella di P.G., come quelle di altri amici), i legami di amicizia (quella con il metereologo Novelli), il tessuto sociale (frantumato da continui attacchi terroristici e da una sorta di immanente guerra civile tra Occidente e Islamismo), il ritorno della guerra in Europa e la minaccia atomica, i devastanti cambiamenti climatici. Tutte aree che toccano direttamente il nostro vivere soggettivo e quotidiano facendoci diventare insieme protagonisti e autori, nostro malgrado, di una comédie humaine che volge sempre più verso la tragedia. Tutto il testo è quindi attraversato da quella che potremmo psicoanaliticamente definire una tensione schizo-paranoide che non lascia spazio ad una seppur embrionale idea di riparazione. La speranza non viene minimamente nutrita dal lavoro narrativo di Giordano, che sembra al contrario volerci dire che arrendersi alla Pulsione di Morte che ci attraversa sia l’unico movimento che ci è oggigiorno consentito.
Tornando alle domande iniziali con cui aprivo questa recensione, viene perciò da chiedersi, leggendo questo libro, in cosa consista il lavoro intellettuale di uno scrittore che vuole così tanto sottrarsi ad un’etica della speranza, che cioè desideri allontanarsi dall’idea di poter dare un contributo di pensiero alla collettività di cui fa parte. Intendo qui il termine “pensiero” in quanto prodotto di un legame affettivo capace di sostenere il senso della vita umana, anche nei momenti in cui Vita e Speranza sembrano annegare nello “smarrimento” (Bollas, 2015).
L’immagine della “Tasmania”, a prima vista sembrerebbe rimandare ad un’area transizionale di winnicottiana memoria (Winnicott, 1971), area potenziale e culturale in cui l’oggetto perduto può essere creato-trovato, quindi dimensione principe della creatività, anche letteraria. La “Tasmania” è invece solo una fugace apparizione nel testo, un elemento mitopoietico narrativamente fragilissimo, subito travolto dallo sguardo pietrificante, gorgonico dell’autore:
“Dove acquisterebbe un terreno, lei? Per salvarsi, intendo. Io non farei mai una cosa del genere. Ma se proprio dovesse. In caso di Apocalisse. Novelli ci ha riflettuto qualche secondo, poi ha detto: In Tasmania. E’ abbastanza a sud per sottrarsi alle temperature eccessive. Ha buone riserve di acqua dolce, si trova in uno stato democratico e non ospita predatori per l’uomo. Non troppo piccola ma comunque un’isola, quindi più facile da difendere. Perché ci sarà da difendersi, mi creda” (p. 100).
Un altrove che non viene perciò “sognato” come oggetto trasformativo, ma come ultima difesa semi-allucinatoria dalle angosce persecutorie generate da una Madre Terra che abbiamo aggredito, che quindi si vendica su di noi, e da cui “ci sarà da difendersi”. La vittoria incontrovertibile della Pulsione di Morte, nel testo di Giordano, credo cioè possa essere vista nell’accezione di Conrotto (2010), come “pulsione di morte della pulsione”, cioè come impossibilità assoluta di far rinascere il Desiderio. Oppure, se la guardiamo dal vertice del paradigma bioniano, come assenza di Fede (Bion, 1970) nella Speranza che l’uomo generi la possibilità di ri-pensare il suo Futuro. A partire dalla coppia, innanzitutto, oggetto descritto come mummificato e statico nelle sue componenti sclerotizzate e istituzionali:
“Perfino il sesso esisteva ancora, raro e diffidente, ma esisteva (…). Dopo tanti anni, Lorenza e io non eravamo solo una storia d’amore in crisi, eravamo anche un’infinità di altri aspetti inestricabili: un sistema di abitudini consolidate, una rete di relazioni sociali, un apparato burocratico” (p. 185).
In questo senso, parafrasando Anne Alvarez (1992), questo libro di Giordano non è, purtroppo per il lettore, e neppure per lo psicoanalista, un “compagno vivo”, un contenitore trasformativo e/o evocativo che lo aiuti ad orientarsi o ad accendere nuovi pensieri, a ravvivare interiormente nuovi paesaggi associativi, affettivi, nuovi “esseri di linguaggio”, inediti desideri o passioni.
Riferimenti bibliografici
Alvarez, A. (1992), Il compagno vivo, Astrolabio, Roma, 2000.
Berto, G. (1964), Il male oscuro, Milano, Rizzoli, 1995.
Bion, W.R. (1970), Attenzione e Interpretazione, Roma: Armando, 1973.
Bollas, C. (2015) La psicoanalisi nell’epoca dello smarrimento: sul ritorno dell’oppresso, in “Rivista di Psicoanalisi”, 2015, 2, pp. 411-434.
Bollas, C. (2018), L’età dello smarrimento. Senso e malinconia, Milano, Raffaello Cortina, 2018.
Civitarese, G. (2008), L’intima stanza. Teoria e tecnica del campo analitico, Borla, Roma.
Conrotto, F. (2010) Per una teoria psicoanalitica della conoscenza, Franco Angeli, Milano.
Ferro, A., Civitarese, G. (2015), Il campo analitico e le sue trasformazioni, Raffaello Cortina, Milano.
Leopardi, G. (2018), Tutte le poesie e tutte le prose, Newton Compton, Milano.
Mauron. C. (1963), Dalle metafore ossessive al mito personale: introduzione alla psicocritica, Il Saggiatore, 1966.
Minot, S. (1986), Scimmie, Mondadori, Milano, 1987.
Orlando, F. (1973), Per una teoria freudiana della letteratura, Einaudi, Torino.
Svevo, I. (1923), La coscienza di Zeno, e “continuazioni”. A cura di Mario Lavagetto, Einaudi, Torino, 2014.
Winnicott (1970), Gioco e realtà, Armando, Roma, 1971.