Cultura e Società

“Summertime” di F. Bollorino. Recensione di D. Federici

15/01/25
"Summertime" di F. Bollorino. Recensione di D. Federici

Parole chiave: #Genova, #psichiatria, #ricordi

Summertime

di Francesco Bollorino (De Ferrari, 2024)

Recensione di Daniela Federici

Life is what happens to you

while you’re busy making other plans

J. Lennon

“…io invidio i presidenti delle squadre di calcio… Non li invidio per i quattrini che hanno, ma per il mestiere che fanno. () Credono di comprare e vendere giocatori, partite a volte, pensano all’immagine, ai risultati, ai bilanci e agli incassi, non sanno che in realtà vendono ricordi.”

E sembrano un taccuino dei ricordi queste pagine di Bollorino, intitolati a un tempo d’estate che inanella immagini e impressioni lungo una vita. Dal ragazzino appassionato al suo Genoa, il campetto di terra battuta, gli adulti che si uniscono ai giochi… Che “i grandi sono sempre un problema per i piccoli, il giorno in cui non lo sono più, ti accorgi di essere diventato vecchio, che il tempo è passato, ti ha cambiato, ti ha reso adulto, pronto a fare ciò che avresti voluto non facessero a te.”  

Il figlio del dottore. Quel padre che alla nascita della sorellina lo porta alla “Fata dei bambini” di Galleria Mazzini per concedere libero sfogo ai suoi desideri e indorargli la pillola. E lui, con in braccio un intero convoglio militare britannico, alla vista di quel microbo fasciata di bianco e con il visetto arrossato, a beneficio del parentado in trepida attesa al reparto maternità, commenta con un’alzata di spalle: “Intanto io rimango sempre il primo gemito!”.

Una carrellata di personaggi che accompagnano la fanciullezza. Suor Maria Liberata imperterrita al comando del saggio di fine anno. Il Botta, playboy triste che sbatte in faccia ai benpensanti il suo diritto a essere diverso. I racconti dei marinai e la speculazione edilizia con i suoi rami d’ulivo legati ai ponteggi più alti.

Un’affollata solitudine la sua.

I paesaggi d’infanzia, il lunapark con il suo ipnotico canto di sirena, l’inizio di colonne sonore.

E il mare. Quel suo perfetto equilibrio fra acqua e cielo, le onde con la loro lingua antica come il mondo, quel sentirsi parte di qualcosa. Il carnaio vociante di lottizzazioni rivali sull’arenile che si abbattevano in acqua. E pian piano la decadenza di una costiera che ha lasciato il posto all’ennesima cattedrale nel deserto che i politici chiamano Nuovo Porto di Prà.

Quel tempo che non torna e lascia sfigurati gli scenari familiari. L’emozione dolente di sottrazione e anelito che hanno battezzato Solastalgia.

“Dove comincia il bisogno sincero di essere transitoriamente felici, stabilmente consci del dolore compromissorio dell’esistenza reale e dove termina la capacità nativa di volerlo veramente?”

Pensieri che hanno colori, sapori, che hanno mani e piedi, che suonano.

“I pensieri, quelli che contano veramente nella vita, abitano gli spazi bianchi tra le parole, hanno al polso un orologio senza lancette, sono senza ordine o gerarchia: pezzetti di vetro sullo smeriglio di caleidoscopi.

I ragazzi troppo soli camminano col passo svelto di chi non ha un posto importante dove andare, portano al collo la sciarpa della squadra del cuore e in cuore un segreto che non vogliono svelare. I ragazzi troppo soli ridono spesso e chiacchierano, hanno mille sconosciuti per amici, mille argomenti di conversazione e nessuna capacità di reazione. I ragazzi troppo soli pensano molto, osservano, dall’alto dei parapetti il mondo passare, scrutano, non necessariamente capiscono la realtà. I ragazzi troppo soli hanno gli occhi avidi d’affetto, sogni banali nel cassetto, poche avventure da raccontare e i pugni stretti nelle tasche.”

Le prime dolenti lontananze, quando ancora non è amore ma lo annuncia

“A volte penso al bene che ho avuto bisogno di volerti, alla profonda differenza tra lo spietato dolore di un amore vero e l’inutile dolcezza di una idealizzazione. È così faticoso imparare i fondamentali della vita.”

Poi la musica, i viaggi, la laurea. E quella solitudine coltivata con rabbiosa determinazione che non lega poi male con il diventare psichiatri, che di sicuro è un mestiere dove si deve apprendere anche a saper stare da soli.

“Gli psichiatri curano ultimi che non saranno mai primi.

Gli psichiatri hanno la mente triste

Il contatto con la propria fragilità è un bene per noi esseri umani, ci fa più concavi rendendoci uno spazio più risonante, una cassa armonica di più autentica compassione verso noi stessi oltre che verso gli altri. E obbliga alla manutenzione di sé.

Che “le cicatrici della mente non si riassorbono mai completamente…”

E la funzione analitica, quella che ascolta le storie dei pazienti per cercarne rielaborazioni e nuove possibilità, scava prima di tutto l’Io del terapeuta, per quella continua apertura e ripresa trascrittiva delle proprie identificazioni. È un mestiere che non si arriva a fare senza qualche ‘gemito’ da accudire.

C’è un’auto-ironia amara sul mestiere degli psichiatri, antiche asprezze verso istituzioni che hanno probabilmente sconfortato dei sogni e lasciato cicatrici.

Ma quando si va a chiedere un’analisi perché “non ci si vuole bene” è già una promessa di chiarità. E se si incontra la persona giusta che si offre di prendersi cura, non c’è altro che occorre: “a quella donna piccolina, dall’aria dolce e paziente, a lei soltanto avrei potuto affidare la mia vita.”

Nel libro Iris si narra di un giovane re cresciuto con un buco in fondo al cuore sempre insoddisfatto, che per un maleficio aveva perso la buona opinione di sé. Così decide di affrontare il Mago che gliel’ha sottratta per riprendersela, intraprende il lungo viaggio fino ai limiti del Deserto della Conoscenza, verso la grotta dov’è rinchiusa, che è un mondo intero ‘dentro’ da visitare… (Bollorino, Iris, Alpes 2016)

Perché Bollorino scrive anche fiabe, un altro modo di raccontare storie e della capacità di assegnare, a ogni piccolo frammento del vivere e dell’immaginare, la dose di bellezza che gli spetta.

Summertime è un gruzzolo di emozioni native, dei desideri che come proiettili nella notte di San Lorenzoattraversano il firmamento alla ricerca di una voglia da esaudire. È un taccuino di posti del cuore e isole della memoria che l’Autore offre ai suoi lettori forse a riparazione della malattia di quando mancavano ricordi condivisi.

“Che senso avrebbe mai lo scrivere se non ci fosse dietro la volontà di attingere il vero?” scriveva H. Hesse.

Siamo sempre in cerca di una verità emozionale, quando si ascoltano le storie, quando le si scrive.

Un posto delle fragole dove le cose non abbiano più “l’odore di un passato con cui non riesco a riconciliarmi.”

Come i Duellanti di Conrad che aprono il libro…

“Quando si è piccoli le mappe del tesoro sono scritte dentro cuori di vetro.”

Poi la vita ci investe e ci occorrono nuove storie…

Così racconta che da giovane immaginava la propria vita come una strada in salita finita la quale sarebbe cominciata una discesa a rotta di collo verso traguardi sconfinati. Crescendo, scopre che finita la scalata non c’è nessun pendio ma una pianura in cui ci sono confini da tracciare e rispettare, e terreni vergini da coltivare con fatica, ogni giorno, e arriva a pensare che è un buon posto dove mettere radici. A quel punto, a chi gli chiede quale sia la strada della perfetta felicità, può rispondere che “è una questione di passo”, perché ciascuno deve trovare la sua.

“Le vite degli altri incrociate con la mia, vicine ma irraggiungibili, film diversi, ricordi diversi, in comune il mare del rimosso che resta sempre lì, pronto a riemergere per ricordarci da dove veniamo.

Nel bene o nel male, questa è la vita.”

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