“Sul cinema. Un’arte della complessità”
di Edgar Morin
(Raffaello Cortina, 2021)
Recensione a cura di Elisabetta Marchiori
Edgar Morin, filosofo e sociologo francese, riconosciuto come una delle figure più prestigiose della cultura contemporanea, per il suo centesimo compleanno ha fatto un regalo prezioso a tutti coloro che, a vario titolo, amano il cinema.
È stato infatti tradotto e pubblicato per Raffaello Cortina il volume “Sul Cinema. Un’arte della complessità”, uscito in Francia un paio di anni fa, a cura di Monique Peyrière e Chiara Simonigh, che si offre come un’antologia di testi che Morin ha dedicato al cinema tra il 1952 e il 1962, solo in parte già pubblicati. La stessa casa editrice, nel 2016, aveva già stampato “Il cinema e l’uomo immaginario” del 1956, su cui Casetti, nella sua prefazione, dice “tra le pieghe dell’oggi, queste pagine si inseriscono bene”. Lo stesso vale per questa raccolta di scritti. Sono infatti entrambe opere datate, ma non per questo superate, anzi: sorprendono, nella maggior parte, per la loro attualità, e suscitano, senza eccezioni, grande interesse in relazione alla storia del cinema e delle sue relazioni con gli altri ambiti del sapere. Trasudano una passione per il cinema travolgente e seducente, rendendo la scelta della foto di copertina, che ritrae una splendida Marilyn Monroe, particolarmente appropriata. Questi scritti, da un lato, rivelano e testimoniano “la funzione vitale” assunta dal cinema nel nutrire il pensiero “interrogativo” di Morin, che non a caso si definiva “cinefago”. Il pensiero di Morin si sviluppa infatti in questo testo attraverso l’indagine transdisciplinare, l’eterogeneità di tipologie di scrittura e la sperimentazione “sul e con il cinema”. Egli infatti ha oltrepassato ampiamente i confini accademici entro i quali si è occupato di sociologia del cinema, cimentandosi come giornalista, critico, e anche sceneggiatore e regista del film di culto “Chronique d’un été” (reperibile in streaming su youtube). Dall’altro lato, come scrive lo stesso Morin nella sua breve prefazione, con le sue ricerche vuole spingere il lettore/spettatore a considerare che “la missione del cinema è quella di affrontare la doppia natura del reale”, che è costituito dalla “nostra realtà” e dall’immaginario dotato di realtà. Ne consegue che il cinema obbliga a “confrontare l’umanità con la sua propria immagine per provocare una scossa, uno choc dal quale possa nascere una riflessione, una presa di coscienza, un’apertura al pensiero che cerca, al pensiero che interroga”.
Il lavoro delle curatrici, cui Morin ha dato “carta bianca”, descritto con precisione dalle stesse nella nota editoriale, è stato immenso, preciso e mosso non solo da grande competenza, ma autentica passione per l’autore e il materiale ritrovato e scelto “in tutta serendipità”.
Lo si coglie soprattutto dai due lavori introduttivi di Peyrière e Simonigh (autrice tra l’altro de “Il sistema audiovisivo. Tra estetica e complessità”, 2020, Meltemi), che cercano di spiegare in modo, per quanto possibile, sintetico ed efficace, cosa sia per Morin il cinema quale “fenomeno umano totale”, e il metodo attraverso cui lo esplora.
Il volume è suddiviso in cinque parti: “Mimesi/Catarsi”, “Archetipi/Stereotipi”, “Eros/Thanatos”, “Felicità/Crisi”, “Cinema-Essai”. Sono titoli che mettono in luce la “relazione generativa tra opposti complementari” che è la dialogica come “componente di un metodo di conoscenza improntato non tanto alla staticità di concetti e nozioni contrapposti quanto piuttosto al dinamismo, alla processualità, alla morfogenesi e alla metamorfosi dei fenomeni studiati” (p. 7). Per Morin infatti il cinema è “l’effetto e al contempo la causa dell’evoluzione complessa del genere umano” (p. 4).
Non desidero però avventurarmi in approfondimenti in campi in cui mi perderei, focalizzandomi piuttosto sull’interesse del lavoro di Morin nell’ambito del rapporto tra cinema e psicoanalisi, per quanto concerne sia il dispositivo filmico sia il rapporto tra film e spettatore.
In questa prospettiva, è senz’altro la prima parte del volume “Mimesi/Catarsi” quella più significativa. Il primo saggio, pubblicato nel 1961, tratta dei “Complessi immaginari” definiti “complessi di proiezione-identificazione-transfert”. Morin specifica che non utilizza il termine “complesso” in senso freudiano, ma si riferisce a “un sistema composto da elementi distinti e interdipendenti”. Tuttavia, quando Morin – che ben conosce la psicoanalisi – spiega approfonditamente le tre nozioni coinvolte in diverse tipologie (magico, realista-sentimentale, razionale-empirico, estetico-ludico) e le dinamiche messe in gioco, constatando che le attività immaginarie – tra cui la visione filmica – “irrigano la vita affettiva e si infiltrano in tutte le parti nella vita pratica” e che “la dialettica del reale e dell’immaginario è un dato umano fondamentale”, il lettore si trova a scandagliare gli strati più profondi del suo essere e a riconoscerne la complessità.
Nel secondo lavoro, del 1954, “Per una sociologia del cinema”, dichiara il proprio progetto: “Far luce sul cinema attraverso la società e nello stesso tempo far luce sulla società rispetto al cinema” (p. 55). Questo è perseguibile solo a patto che le diverse discipline – le psicologie, le sociologie, l’economia, la storia – non sottopongano il cinema ad una propria “versione riduttiva” e ideologica. Il cinema, che “corrisponde a processi psichici fondamentali” e “impegna lo spirito umano”, si colloca in una “zona d’ombra delle civiltà e dell’avventura umana [ … ] dove le discipline parcellizzate si bloccano” (p. 55). C’è una esigenza di superamento dei confini attuabile attraverso l’antropologia, che utilizzi le diverse scienze umane evitando che diventino quadri di riferimento per esplorare quella no man’s land che è il cinema.
Il saggio successivo, datato 1953, “Un approccio multiforme e multidimensionale al cinema” le riflessioni di Morin convergono su “quel momento genetico che è il passaggio dal cinematografo al cinema”, ovvero da “strumento di ricerca scientifica” a “spettacolo”, “lanciandolo verso l’universalità” (p. 76). Morin ci parla della “qualità magica” del cinema, della sua corrispondenza a “processi psichici profondi” di cui potrebbe “rinnovare la conoscenza”, della sua “potenza” (catartica, mimetica, formativa), del fatto che è “secrezione” sia del corpo sociale che dello spettatore. E fa una profezia che si avvererà nel corso del tempo, cioè che “il cinema evolverà in modo prodigioso”: “Offre e offrirà sempre all’uomo un riflesso dell’uomo stesso e del mondo, nel quale egli troverà sempre il sogno e la magia del doppio e dove allo stesso tempo attingerà ininterrottamente una coscienza nuova”.
Il capitolo si conclude con “Il ruolo del cinema”, apparso nel 1960, in cui Morin discute, in primo luogo, la complessità del dialogo – o meglio la “dialettica generalizzata” (p. 89) – che intercorre tra un film e i suoi spettatori, valutandola su diversi livelli ermeneutici. Individua “due grandi linee di forza”: da un lato identificazione, mimetismo e emulazione, dall’altro proiezione, catarsi, liberazione. La loro deriva, che potremmo definire patologica, è rappresentata da una sorta di psicosi che può nascere dai fantasmi sia di identificazione sia di proiezione. La ricerca di Morin approfondisce poi quelli che sono i “modelli cinematografici” dal punto di vista sociologico, ma qui non posso che fermarmi e lasciare al lettore il piacere della scoperta e del riconoscimento di suggestioni familiari.
Un piacere che non si spegne proseguendo nella lettura dei capitoli successivi, che contengono saggi su film, registi, attori, il cinema francese e altre sorprese.
Vedi anche in Spiweb:
“Edgar Morin, 100 e non più 100” di D. D’Alessandro, Huffpost 10/7/21
“Filosofia e psicoanalisi” di D. D’Alessandro. Recensione di R. Valdrè
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