L’Espresso 24/05/2012, ZygmuSu L’Espresso 24/05/2012, alle pagine 100-103, Zygmunt Bauman ‘sfida’ Freud a suo dire “rovesciandolo”.
Egli afferma: “Vogliamo più libertà e meno sicurezza, diceva il padre della psicoanalisi. Ma se fosse vissuto oggi si sarebbe ricreduto.” Richiamandosi a quanto scriveva Freud nel 1929 ne Il Disagio della civiltà, dice: “Sì, Freud ribadirebbe che la civiltà è un compromesso: si ottiene qualcosa rinunciando a qualcos’altro. Ma forse collocherebbe all’estremo opposto della scala di valori le radici dei disagi psicologici e delle insoddisfazioni che ne derivano. Concluderebbe, ne sono certo, che l’attuale ostilità nei confronti dello stato di cose nasce per lo più dal fatto di dover rinunciare a troppa parte di sicurezza in cambio di un’espansione senza precedenti dell’ambito della libertà.”.
Io non ne sarei così sicura, se riflettiamo sulle tragiche conseguenze, nell’ambito dell’economia, dell’impossibilità dei soggetti contemporanei di sopportare/porre freni ai propri desideri e all’intensità manifestata contro la necessità di vivere con meno sprechi e rinunciando a qualcosa. Il tutto, in barba alla sicurezza, propria, ma, quel che è peggio, a quella delle generazioni che verranno.
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Daniela Scotto di Fasano
E io rovescio Freud
di Zygmunt Bauman • 19-Mag-12
Vogliamo più libertà e meno sicurezza, diceva il padre della psicoanalisi. Ma se fosse vissuto oggi si sarebbe ricreduto.
Il testo che anticipiamo in queste pagine è stato scritto da Zygmunt Bauman per il Festival biblico di Vicenza, dove il sociologo e filosofo incontrerà il pubblico, venerdÌ 25 maggio
Siamo fatti in modo tale da poter trarre intenso piacere solo da un contrasto e ben poco da uno stato di cose… scriveva Sigmund Freud nel 1929, e nessuno da allora è stato in grado di confutare seriamente questo pensiero. A sostegno della sua tesi Freud citava l’opinione di Goethe secondo cui: «Tutto al mondo si può sopportare tranne una sfilza di belle giornate», limitandosi a definirla, « un’affermazione esagerata». E infatti, mentre la sofferenza può essere una condizione durevole e ininterrotta, la felicità, quell’«intenso piacere», può essere solo un’esperienza momentanea, transitoria, fulminea, vissuta nell’attimo in cui la sofferenza cessa. «E’ molto meno difficile avere esperienza dell’infelicità», dice Freud.
Noi, gli umani, per lo più soffriamo e abbiamo timore delle sofferenze che possono derivarci dalle costanti minacce al nostro benessere. Sono tre le cause che temiamo possano procurarci sofferenza: «il potere supremo della natura; la debolezza dei nostri corpi; e gli altri esseri umani».
Più precisamente la sofferenza deriva dalla «inadeguatezza delle norme che regolano il rapporto tra umani in seno alla famiglia, allo Stato e alla società». E poiché la sofferenza, o il terrore di soffrire, accompagnano costantemente la nostra vita, non c’è da meravigliarsi se il “processo di civilizzazione”, la lunga, forse interminabile marcia in direzione di una modalità più aperta e meno pericolosa di essere nel mondo, mira alla fine a individuare e bloccare queste tre fonti di infelicità. E infatti, la nostra guerra al disagio – declinato in ogni sua forma – viene portata avanti su tutti e tre i fronti. Ma mentre sui primi due (quello che riguarda la natura e i nostri corpi) la battaglia è stata spesso vittoriosa, e sempre più nemici vengono disarmati e ridotti all’impotenza, sul terzo fronte (dove sono in gioco i rapporti tra gli umani) l’esito della guerra resta incerto ed è poco probabile che le ostilità vengano a cessare. E c’è una contraddizione. Da un lato, se intende liberare gli uomini dalle paure, la società deve imporre costrizioni ai suoi membri; dall’altro uomini e donne impegnati nella ricerca della felicità, hanno necessità di ribellarsi a questi vincoli. La terza fonte di sofferenza non può insomma essere eliminata. E così la sfera in cui la ricerca della felicità individuale si scontra con le regole della vita sociale, sarà per sempre luogo di conflitto.
Gli impulsi istintivi dell’uomo sono sempre in contrasto con le esigenze della civiltà, impegnata a combattere e sconfiggere, appunto, le cause della sofferenza. Per questo motivo, spiega Freud, la civiltà è un compromesso: per ottenere qualcosa gli uomini devono rinunciare a qualcos’altro cose importanti e desiderabili sia .quelle ottenute sia quelle perdute. E ogni . permuta è solo un accordo temporaneo, il prodotto di un compromesso che (come tutti i compromessi) non è mai pienamente soddisfacente per nessuna delle due parti del conflitto, un conflitto che perennemente cova sotto la cenere. Certo l’ostilità cesserebbe se i desideri individuali e le esigenze della società potessero essere soddisfatti contemporaneamente, ma così non sarà mai. La ragione di questo stato di cose? Semplice, secondo Freud: la libertà di agire in base a esigenze, inclinazioni, impulsi e desideri propri da un lato, e i limiti imposti a beneficio della sicurezza, dall’altro, sono entrambi indispensabili a una vita soddisfacente tollerabile. E questo, perché la sicurezza in assenza di libertà equivarrebbe alla schiavitù, mentre la libertà in assenza di sicurezza significherebbe caos disorientamento, perpetua incertezze infine impotenza ad agire con uno scopo preciso.
Partendo da questo presupposto Freud giungeva alla conclusione che i disagi e i disturbi psicologici derivano per lo più dal dover rinunciare a una notevole porzione di libertà in cambio di una maggior sicurezza. La libertà, così decurtata, è la prima vittima del “processo di civilizzazione” e fonte del disagio endemico nella vita civilizzata, anzi, il maggiore e il più diffuso dei disagio. Fin qui Freud, nel lontano 1929.
Mi chiedo se oggi, a oltre ottant’anni di distanza, il verdetto sarebbe rimasto tale e quale. E ne dubito. I presupposti sarebbero gli stessi (le esigenze della vita civilizzata, al pari del patrimonio degli impulsi umani trasmessi dall’evoluzione della specie, restano identiche a lungo e si presume siano immuni ai capricci della storia), ma i giudizi con ogni probabilità sarebbero capovolti. Sì, Freud ribadirebbe che la civiltà è un compromesso: si ottiene qualcosa rinunciando a qualcos’altro. Ma forse collocherebbe all’estremo opposto della scala di valori le radici dei disagi psicologici e delle insoddisfazioni che ne derivano. Concluderebbe, ne sono certo, che l’attuale ostilità nei confronti dello stato di cose nasce per lo più dal fatto di dover rinunciare a troppa parte di sicurezza in cambio di un’espansione senza precedenti dell’ambito della libertà.
Freud scriveva in tedesco e per tradurre correttamente il termine che utilizzava quando parlava della sicurezza, “Sicherheit”, servono ben tre sostantivi: certezza, sicurezza, incolumità. La “Sicherheit”, dunque cui in gran parte abbiamo rinunciato a favore della libertà ingloba la certezza circa ciò che ci prepara il futuro e sugli effetti che le nostre azioni avranno, la sicurezza della posizione e dei compiti assegnatici dalla società e l’incolumità dalle aggressioni ai danni del nostro corpo e dei nostri beni, che ne rappresentano l’estensione. Perdere la “Sicherheit” ha come conseguenza l”Unsicherheit” (l’insicurezza), una condizione che non si presta altrettanto facilmente alla dissezione e all’esame anatomico: tutte e tre le sue componenti contribuiscono alla stessa sofferenza, ansia e timore, ed è difficile individuare con precisione le vere cause del disagio provato. L’ansia può essere facilmente imputata alla causa sbagliata circostanza che i politici di oggi, in cerca di sostegno elettorale, possono volgere a proprio vantaggio, cosa che troppo spesso effettivamente fanno – vantaggio che non coincide necessariamente con quello degli elettori. Naturalmente i politici preferiscono attribuire la sofferenza dei loro elettori a cause che possono combattere e dar mostra di combattere (ad esempio proponendo di inasprire la normativa sull’immigrazione e il diritto d’asilo o l’espulsione di stranieri indesiderabili) piuttosto che ammettere la vera causa dell’incertezza, che non hanno né la capacità né la volontà di contrastare, né la speranza realistica di sconfiggere (ad esempio l’instabilità dell’occupazione, la flessibilità del mercato del lavoro, il rischio di licenziamento, la prospettiva di ridurre il bilancio familiare, livelli di debito ingestibili, la preoccupazione per le condizioni di pensionamento, o la generale fragilità dei legami e dei rapporti interpersonali).
Vivere però in condizioni di prolungata, anzi di cronica incertezza porta a due stati d’animo parimenti umilianti, l’ignoranza (non sapere ciò che può portare il futuro) e l’impotenza (l’incapacità di influenzarne il corso). Sono sensazioni umilianti perché nella nostra società,
in cui si presume che ciascun individuo abbia piena responsabilità del suo destino, sottendono l’inadeguatezza di chi ne soffre rispetto ai compiti che altre persone, di evidente maggior successo, paiono assolvere grazie a una superiore abilità e intraprendenza. L’inadeguatezza
indica inferiorità ed essere inferiore o considerato tale è un duro colpo inflitto all’autostima, alla dignità personale e al coraggio di autoaffermarsi. Oggi la depressione è il disturbo psicologico più frequente. Minaccia il numero sempre crescente di individui recentemente definiti con il termine collettivo di “precariato”, derivante dal concetto di “precarietà”, che denota incertezza esistenziale.
E vengo alle conclusioni. Un secolo fa la storia umana veniva spesso rappresentata come storia del progredire della libertà, quasi fosse costantemente guidata in un’unica, immutabile direzione.
Ma oggi i nuovi umori popolari indicano altrimenti. Il cammino della storia, ricorda più la traiettoria di un pendolo che una linea retta. Ai tempi in cui scriveva Freud ci si lamentava della mancanza di libertà, i suoi contemporanei erano pronti a rinunciare a gran parte della loro sicurezza in cambio dell’eliminazione dei vincoli imposti alle loro libertà.
E lo hanno fatto. Ora però si moltiplicano i segnali secondo cui le persone rinuncerebbero a parte della propria libertà pur di essere emancipate dallo spettro dell’insicurezza esistenziale. Siamo spettatori di una nuova oscillazione del pendolo? E se davvero così fosse, quali saranno le conseguenze?
Traduzione di Emilia Benghi
L’Espresso 24/05/2012