Lyonel Fenninger, 1913
Parole chiave: identità, alterità, antropologia, cultura, individuo, gruppo
“Un potere ossessionato dall’identità è un potere accecato”. Intervista a Francesco Remotti Hufffpost,28/9/2022
di Davide D’Alessandro
Huffpost 28settembre 2022
Introduzione: La cultura occidentale dovrebbe mettere in discussione il concetto di identità per costruire la pace? È la domanda di Francesco Remotti, noto antropologo. Lo studioso riflette sul tema dell’identità che, pur essendo necessaria alla consapevolezza di sé nel suo senso di continuità dell’essere(Winnicott), può diventare foriera di una radicalizzazione del rapporto identità/alterità, generando una visione minacciosa dell’altro.
(Maria Antoncecchi)
Davide D’Alessandro,saggista
Huffpost 28settembre 2022
“Un potere ossessionato dall’identità è un potere accecato”
Di Davide D’Alessandro
Antropologo e accademico, per decenni ha dedicato importanti studi a un tema sempre molto dibattuto anche se raramente se ne comprendono valenza, portata e conseguenze: “L’idea di identità è sempre inevitabilmente segno di chiusura: verso il futuro e verso gli altri”
Parla Francesco Remotti, antropologo e accademico che per decenni ha dedicato importanti studi a un tema sempre molto dibattuto, anche se raramente se ne comprendono valenza, portata e conseguenze: “L’idea di identità è sempre inevitabilmente segno di chiusura: verso il futuro e verso gli altri”.
di Davide D’Alessandro
Con chi devo parlare di identità se non con Francesco Remotti, antropologo e accademico, che esordì con “Lévi-Strauss. Struttura e storia” nel 1971 e che, nel 1996, dopo altri importanti libri, ci fulminò con “Contro l’identità”? Il termine continua a essere al centro del dibattito, in molti ne parlano, in pochi ne sanno coniugare e interpretare valenza, portata e conseguenze. Mi affido a lui in un contesto europeo alquanto complesso, sapendo che ne verrà fuori un pensiero coerente con i suoi studi, un’analisi limpida centrata su essere e divenire.
Qual è la definizione compiuta, se esiste, che possiamo dare di identità?
Dare una definizione di identità, credo che non sia poi tanto difficile. La possiamo persino esprimere con una formula ben nota A = A, ovvero una qualsiasi cosa è sé stessa. In effetti, cos’altro è una cosa, se non appunto sé stessa? L’identità è l’essere sé stessa di quella cosa. Il concetto di identità coincide dunque con l’essere (stare, permanere, consistere) di quella cosa.
Un passo ulteriore nella definizione consiste nel considerare due punti di vista: temporale e spaziale. Una cosa rimane identica nel tempo quando non si altera: conserva il suo essere, la sua sostanza nonostante il trascorrere del tempo. Inoltre, una cosa rimane identica nello spazio quando non condivide il proprio essere, la propria sostanza con altre cose, quando cioè non vi sono legami di partecipazione con altre cose. Una cosa dunque è identica a sé stessa quando non si altera né a causa del tempo né a causa della compresenza con altre cose. L’identità di una cosa è ciò che di quella cosa permane (si sottrae al tempo) e ciò che è suo proprio ed esclusivo, non condivisibile con altre cose.
Ma la domanda ora è: nel mondo in cui viviamo – mondo naturale e mondo sociale – esistono cose di questo genere?
Tra il VI e il V secolo a.C. un filosofo della Magna Grecia, Parmenide, aveva già dato una risposta molto chiara e netta: nel mondo in cui viviamo non esistono cose di questo genere. L’identità – così come l’abbiamo definita (e come definirla in principio, se non in questo modo?) – non appartiene a questo mondo, che è il mondo del divenire, delle trasformazioni, delle contaminazioni, ibridazioni, partecipazioni. L’identità – diceva Parmenide – appartiene soltanto all’Essere: un mondo del tutto a parte, un mondo divino, a cui si può accedere soltanto con una vera e propria iniziazione mistica. È come dire, dunque, che nella nostra vita mortale non ci imbattiamo mai nell’identità effettiva, autentica. Forse, ciò in cui ci imbattiamo, è l’aspirazione all’identità, una sorta di desiderio di immortalità. In effetti, sono molti coloro che continuano a parlare di identità in ogni settore della vita sia individuale sia collettiva. Perseguendo questo desiderio, questa aspirazione, si accontentano di simulacri dell’identità, immagini o idee che in qualche modo richiamano l’idea di identità: si tratta – come avrebbero detto alcuni filosofi del Settecento – di identità imperfette, identità pasticciate con il divenire e con l’alterazione. In queste persone o in questi gruppi il desiderio di identità è tale che si accontentano di brandelli di identità o anche soltanto del nome “identità”.
Che cosa intende per ossessione identitaria e per la cecità del potere?
Per ossessione identitaria intendo appunto essere posseduti dal mito dell’identità: il non sapere, vedere, apprezzare altro che l’identità, nonostante che questa non esista da nessuna parte (se non nel mondo divino di Parmenide). Ossessione identitaria significa ritenere che l’identità sia il più importante, fondamentale, decisivo, irrinunciabile obiettivo da perseguire nell’organizzare la vita delle persone o delle collettività, degli “io” o dei “noi”: il criterio a cui tutti debbono attenersi nelle loro scelte, il principio base di ogni pensiero, preoccupazione, sentimento. E che si tratti di un “mito” si intuisce anche sotto questo profilo: curiosamente, nella comunicazione sociale non ci si pone la domanda critica “che cos’è l’identità?”. Ci si accontenta del “detto” (in greco mython, appunto “mito”), della parola in quanto tale, che rimbalza da un discorso all’altro: una parola che, ripetuta un’infinità di volta, assume una consistenza sua propria, una sua autonomia e indiscutibilità, una sua ovvietà. È ovvio e naturale che ognuno – singolo o gruppo – debba avere, perseguire, difendere, una sua propria identità. Abbiamo detto (e ripetiamo) che nel mondo in cui viviamo – mondo naturale e mondo sociale – non c’è l’identità: ci sono brandelli di identità (le identità imperfette), ossia idee, simboli, comportamenti che esibiscono una qualche capacità di resistere al tempo e alle alterazioni, e a questi con ossessione ci aggrappiamo. L’ossessione identitaria genera cecità nei riguardi del futuro. Se il potere (a cominciare dal potere politico) è l’esercizio di scelte con cui si guarda al futuro, risulta che un potere ossessionato dall’identità è un potere accecato. Invece di gestire il divenire, ci si arrocca e si difende l’essere, qualsiasi brandello di essere (costumi, tipi di famiglia, valori) contro ogni possibile alterazione. La cecità del potere ossessionato dall’identità consiste nel non volere e nel non saper prevedere e tanto meno gestire (provvedere, governare) il flusso del divenire, le novità che inevitabilmente emergono a mano a mano che il futuro diventa presente. Le politiche identitarie – nemiche di ogni alterazione – si privano della possibilità di spingere lo sguardo verso il futuro.
La psicoanalisi ha posto al centro il problema della costruzione dell’individuo, quindi della sua identità, in rapporto alla famiglia e alla società. Queste due entità, in un contesto sociale molto complicato, sono ancora in grado di contribuire alla sua costruzione?
Mi risulta che, almeno in alcune correnti, la psicoanalisi stia provvedendo, o abbia già provveduto, a una revisione del concetto di identità in relazione alla formazione dell’individuo. Tuttavia, poiché non sono uno psicoanalista, mi limito ad alcune considerazioni esterne, che ho già avuto modo di sottoporre in forma di dibattito a chi pratica la psicoanalisi. Partirei dal tema della “costruzione dell’individuo”, sottolineando l’importanza del concetto di costruzione: in effetti, il singolo umano va formato, mediante processi di modellamento. Ho detto “singolo”, poiché da alcuni anni, da quando ho pubblicato Somiglianze (2019), preferisco abbandonare il termine “individuo”, a favore di un termine su cui si realizza un’affascinante convergenza tra biologia, antropologia, psicologia, ossia il termine “condividuo”. “Individuo” – fin dalla sua formulazione originaria (lat. individuum) – è molto legato all’idea di “identità”. Abbandonata l’idea di identità, è inevitabile una revisione terminologica: “condividuo” è appunto la proposta alternativa. Nel condividuo non c’è identità: il condividuo è – detto in latino – un compositum, una pluralità più o meno organizzata in continuo divenire. Io, condividuo, non sono identico: sono soltanto simile (a me e agli altri). Quando noi parliamo di “costruzione dell’individuo”, potremmo a questo punto far cadere la nozione di individuo e mantenere il termine costruzione: termine che si adatta molto meglio a “condividuo”, in quanto compositum. Costruzione, decostruzione, ricostruzione: il condividuo è un processo; appartiene e si forma nel divenire. Se ci liberiamo dell’ossessione identitaria, l’esigenza che emerge maggiormente nella formazione del giovane non è quella di darsi un’identità, ma di acquisire una più lucida e consapevole capacità di gestire il proprio divenire, di sapere – con maggiore avvedutezza – ricostruire in maniera innovativa di volta in volta sé stesso, il proprio compositum. I riti di iniziazione giovanili che gli antropologi hanno studiato in diverse società possono appunto essere interpretati come esperienze (spesso traumatiche e dolorose) di de-costruzione e ri-costruzione del compositum personale. Aggiungo che nei riti di iniziazione studiati dagli antropologi vediamo molto spesso famiglie e società fare un passo indietro: i riti di iniziazione avvengono in spazi esterni (anche fisicamente) e “marginali”, luoghi destinati a esperienze personali, in cui i condividui, mentre sono indotti a costruire nuovi sé, nuove persone, prendono le distanze dalle proprie famiglie d’origine. Nel contempo sono obbligati a riflettere criticamente sulle proprie società, sviluppando non il senso dell’identità, bensì il senso delle possibilità.
Il termine identità o, meglio, identitario è molto abusato soprattutto in campo politico. Che idea ha di quella forma di identità che viene, il più delle volte, richiamata per chiudersi e non per aprirsi?
Come ho già detto, l’idea di identità è sempre inevitabilmente segno di chiusura: verso il futuro e verso gli altri. Certo, quanto più un’idea di identità è robusta (illusoriamente robusta: si pensi, per esempio, all’identità delle razze – un mito che ha imperversato in Europa tra Ottocento e Novecento), tanto più la chiusura è forte e determinata (si pensi, durante il fascismo, alla politica in difesa della razza italiana, con i bandi e le esclusioni degli Ebrei che essa ha comportato). Un’idea meno forte di identità può adattarsi un po’ di più a aperture rispetto agli altri. Ma è bene rendersi conto che l’identità – forte o debole che sia – non è mai formulata al fine di aprirsi. Per aprirsi e per avviare reali e convinte politiche di convivenza occorre avere il coraggio e l’avvedutezza teorica di passare dalla logica dell’identità/alterità alla logica delle somiglianze/differenze: tra noi e gli altri non c’è – e riteniamo che non ci sia, non ci debba essere – il solco dell’alterità; c’è invece – e operiamo affinché ci sia e funzioni – un ponte fatto di somiglianze e differenze.
Dopo decenni di studi sul tema, quale ritiene sia la miglior postura da conservare nei confronti dell’altro, ritenuto troppo spesso un nemico?
Quale altro? Questa è la prima domanda che dobbiamo porci. L’altro potrebbe essere mio fratello, mio figlio, mia moglie o marito; l’altro è un amico oppure il vicino di pianerottolo, il collega di lavoro e così via. La domanda però parte probabilmente da un “noi” (più che da un “io”). E allora occorre prima concentrarci sui tipi di “noi”. Il “noi” può essere una famiglia, forse anche un quartiere, un villaggio, per poi salire di livello: una nazione (noi, italiani), un’unione di Stati (noi, europei), o ancora “noi, occidentali”. Con maggiore difficoltà diremmo “noi, umani” (noi, umanità). Perché con maggiore difficoltà? Perché non abbiamo ben presente in relazione a chi rivendichiamo questo tipo di noi. In ogni caso, e a qualsiasi livello, l’altro è tale in quanto è portatore di differenze rispetto al soggetto considerato. Se vogliamo accentuare le differenze rispetto a noi, è quasi inevitabile collocare l’altro nella categoria dei nemici. Ma le differenze sono sempre segno di ostilità? La risposta è no. Attribuire all’altro il ruolo del nemico è di solito una conseguenza della logica identitaria: rispetto a noi, alla nostra identità, è pressoché inevitabile che l’altro si configuri come una minaccia; la sua alterità è minaccia di alterazione, di distruzione della nostra identità. Al che si può reagire a) evitando il contatto oppure b) in maniera più radicale, distruggendo l’altro. Abbiamo detto però che le differenze esibite dall’altro possono essere concepite non come segno di ostilità, ma come elementi con cui si può “coesistere” (sulla base di un reciproco riconoscimento) o addirittura “convivere”. In quest’ultimo caso, gli altri non sono più semplicemente gli altri (gli altri e solo altri, secondo una tipica logica identitaria): gli altri diventano “simili” a noi e le differenze di cui sono portatori si trasformano in opportunità, risorse messe a disposizione per progetti condivisi di “convivenza”. Per rendere tutto ciò possibile occorre – come ormai è chiaro – passare da una logica di identità a una logica di somiglianze.
Siamo abitanti dell’Europa, un’Europa attraversata da venti alquanto minacciosi. Vede ulteriori pericoli o rischi all’orizzonte?
Certamente. Se da un lato l’Unione Europea può essere concepita come un progetto di convivenza tra simili (progetto che indubbiamente esige di essere rafforzato), dall’altro lato la Russia ha deliberatamente scavato un solco profondo, considerando i paesi occidentali come i propri nemici: siamo stati esplicitamente collocati nella categoria dei nemici, con cui non solo è impossibile la convivenza, ma con cui è persino difficile la coesistenza.
La Russia che invade l’Ucraina investe anche il tema dell’identità?
Tutta la politica di aggressione della Russia nei confronti dell’Ucraina ha una valenza identitaria, non importa quanto confusa o cervellotica possa essere l’idea di identità russa fatta valere nei discorsi del capo del Cremlino e dei suoi rappresentanti. Come ho già detto all’inizio, è inevitabile che nel nostro mondo (nel mondo della natura e ancor più in quello della storia) l’identità si presenti sempre come qualcosa non solo di illusorio, ma persino di scombinato. Anche così il mito dell’identità affascina, in quanto – rispetto alla logica e al nitore concettuale – prevale, nel profondo dei “noi”, l’esigenza della stabilità, della permanenza, dell’essere (paura del divenire).
Qual è la sua posizione sul cambio di identità, riferito al genere, a chi non accetta di essere venuto al mondo con un sesso piuttosto che con l’altro? Quale ruolo giocano, in questo caso, la famiglia e la società?
Anche in questo caso, se mettiamo da parte la logica identitaria (quale si esprime nella formula “identità di genere”) e coraggiosamente facciamo valere la logica delle somiglianze e differenze, il primo effetto che otteniamo è quello di sdrammatizzare non poco questo tipo di problemi. In fondo, ancora una volta, è questione di non fissarsi sull’essere (essere maschio, femmina o qualche altra cosa), ma di privilegiare il divenire, ovvero la possibilità del passaggio, della trasformazione. Potrei portare esempi di società (specialmente tra gli Indiani del Nord America), in cui le figure di Due Spiriti (una persona di sesso maschile che vestiva e si comportava in maniera femminile o viceversa) non solo venivano tollerate: erano anzi oggetto di apprezzamento e di venerazione, come depositarie di una particolare saggezza, quella che proviene dalla loro capacità di “fluire” tra i generi, di decostruire o smentire l’apparente rigidità di queste categorie sociali. Ancora una volta: non identità, ma somiglianza; non essere, ma divenire, perché il divenire è il mondo in cui abitiamo.