LYONEL FENNINGER
Parole chiave: Pandemia; Guerra; Vulnerabilità
Tra guerra e pandemia il senso di unità ci rende meno soli – Intervista allo Psichiatra e Psicoanalista Alberto Sonnino. Shalom, 1/5/2022
Shalom,1 maggio 2022
Intervista di Ariela Piatelli
Introduzione: In questi anni ci stiamo confrontando con eventi drammatici che ci fanno sentire sempre più vulnerabili ma come sottolinea Alberto Sonnino in questa intervista, bisogna contrastare questa condizione di fragilità sostenendo la fiducia e la speranza attraverso la condivisione, la solidarietà e il senso della comunità. (Maria Antoncecchi)
Alberto Sonnino, psichiatra, psicoanalista, membro ordinario della Società Psicoanalitica Italiana e full member dell’International Psychoanalytical Association
Shalom, 1 maggio 2022
TRA GUERRA E PANDEMIA IL SENSO DI UNITÀ CI RENDE MENO SOLI
Intervista ad Alberto Sonnino di Ariela Piatelli
Prima la pandemia, tra fasi acute e ricadute. Adesso la guerra russa in Ucraina. Da più di due anni viviamo in un tunnel di incertezze a causa di eventi che ci destabilizzano, e che mettono alla prova le nostre certezze. Come è possibile reagire a tutto questo? E quali sono i meccanismi che si attivano nei singoli individui e nei contesti collettivi, comunitari, per far fronte a questi eventi? Che peso ha la storia di un popolo nella sua capacità di reazione? Su questi temi, abbiamo intervistato Alberto Sonnino, psichiatra, psicoanalista, membro della Società Psicoanalitica Italiana, autore, tra gli altri, del libro “Trauma della Shoah, ebraismo e psicoanalisi” (F. Angeli).
Da tempo viviamo in un tunnel di angosce e incertezze per la pandemia e adesso per la guerra. Che impatto ha il potere destabilizzante di questi eventi sui singoli e sulla collettività?
Gli avvenimenti che ci hanno travolto negli ultimi due anni hanno comportato la perdita delle nostre certezze e della nostra sicurezza, mettendoci drammaticamente in contatto con ciò che tendiamo ad evitare: il senso di impotenza e la fragilità che caratterizza la natura dell’essere umano. Il nostro equilibrio è basato sul senso di fiducia nella vita e nel prossimo con cui siamo in rapporto, rendendo necessario sottrarre la nostra attenzione dalla precarietà dell’esistenza. Pensare quotidianamente che la vita avrà una fine non aiuta ad andare incontro alle nostre giornate. Dobbiamo evitare di mettere questa consapevolezza al centro dei pensieri quotidiani per non sentirci angosciati ed impotenti. La pandemia, ed ora la guerra, minacciano l’efficacia delle difese dall’angoscia, rendendoci più inquieti, più fragili e spaventati. Ne è una riprova il forte incremento dei disturbi d’ansia e depressivi, in tutte le fasce d’età. Giova ricordare che l’ansia consegue al timore di una perdita incombente, mentre la depressione esprime il dolore per una perdita già subìta. Ora ritengo che l’umanità si trovi da oltre due anni in una condizione che si caratterizza per la presenza di entrambi i fattori: la minaccia alla vita che incombe, in grado di poter favorire uno stato di ansia, e la perdita delle sicurezze che ci rende più depressi.
Ogni popolo ha una sua storia. La storia ebraica è costellata di eventi traumatici. Quanto contano questi nell’identità, nella capacità di reazione e di resilienza, del popolo ebraico?
Il popolo ebraico, nel corso dei millenni, è stato sottoposto a prove immense che non hanno indebolito le proprie spinte vitali, la fiducia nella capacità di poter sopravvivere nonostante persecuzioni e devastazioni. Questa forza sedimentata nello spirito collettivo è presumibile che si sia trasmessa di generazione in generazione, favorendo lo sviluppo di una resilienza che entra nel tessuto identitario ebraico. Nel mio libro sul trauma della Shoah e sui rapporti tra psicoanalisi ed ebraismo, ipotizzo che la forza con cui si è rimasti tenacemente aggrappati ad una fede che non si è indebolita dopo pogrom e deportazioni, fino ai campi di sterminio, si sia mantenuta perché memori della capacità di risorgere dalle tragedie. Cito per questo Yerushalmi (2016) che scrive: “Ma la memoria del passato è incompleta senza il suo naturale complemento: la speranza riguardo al futuro”, rifacendosi a Yehoshua Ben Hananiah che dopo la distruzione del Tempio afferma: “Non affliggersi affatto non è possibile… ma affliggersi troppo è pure impossibile…”.
Dall’inizio della guerra si possono rilevare alcuni elementi positivi: l’Europa ha mostrato un forte fattore identitario nelle reazioni, nelle voci di condanna all’invasione. Dalle piazze ai palazzi della politica. In questa epoca di incertezze, il fatto di partecipare ad una comunità di persone può fare la differenza?
Quando si percepisce una minaccia incombente siamo alla ricerca di condivisione, di alleanze, di solidarietà, nel tentativo di trovare conforto nell’unità, nel contatto con gli altri. Essere insieme agli altri fa sentire meno soli di fronte alle incognite e alle incertezze, contrastando quel senso di impotenza che resta comunque difficilmente tollerabile. Anche per questo si intensificano le iniziative intraprese collettivamente, specie se di aiuto a chi è più direttamente colpito.
Quali sono le strade che si possono indicare ai singoli individui per affrontare eventi improvvisi, destabilizzanti, fuori dal loro controllo?
Non credo ci siano ricette specifiche cui ricorrere, se non quelle fondate sul buon senso, ma una lezione possiamo trarla seguendo l’esempio drammatico dei sopravvissuti alla Shoah, che dopo essere precipitati nell’Inferno sono stati in grado di risorgere, attingendo risorse alla propria forza vitale, creando una nuova generazione, concependo figli e poi assistendo alla nascita di nipoti, espressione di una libido, l’Eros nel senso psicoanalitico del termine, quale unica risorsa in grado di contrastare gli aspetti più mortiferi, Thanatos, la pulsione di morte, componente non sradicabile dall’animo umano.
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