Introduzione: La giornalista Stefania Rossini delinea per larghi tratti il percorso recente della psicoanalisi, che, tra attacchi sempre più speciosi e meno coerenti, procede sulla via che le è propria, quella della clinica e della teoria. Segnala in proposito la pubblicazione di un libro di Schachter, che fa il punto sul tema dei risultati terapeutici attraverso sette storie "riparate " dalla "talking cure".
(Silvia Vessella)
L’ESPRESSO 22 agosto 2011-12-11
Stefania Rossini
Toh, è tornata la psicanalisi
Di gran moda trent’anni fa, poi duramente criticata, quindi soppiantata dal Prozac, la terapia freudiana sembrava finita. Ora un libro la rilancia, proponendo una serie di storie a lieto fine. Purché se ne conoscano i limiti
La sintesi migliore resta quella di Woody Allen: "Sono in analisi da 15 anni. Aspetto un altro anno e poi vado a Lourdes". Era il 1977 e nel suo celeberrimo "Io e Annie" il regista condensava così l’annoso problema della riuscita di un’analisi. Non sappiamo se il più famoso testimonial contemporaneo della dottrina freudiana abbia poi portato a termine la cura o si sia affidato ai miracoli, ma è certo che non ha mai smesso di infarcire i suoi film di riferimenti psicoanalitici. E a guardare i successi, la creatività, la tenuta nel tempo e la voglia di rinnovarsi (in queste settimane Allen è a Roma per girare il nuovo film "The Bop Decameron"), qualcosa nella sua lunga analisi deve pure aver funzionato. La questione è di quelle che accompagna la psicoanalisi fin dai suoi albori. Che cosa significa "guarire"? Quali sono i cambiamenti che ci si può aspettare? E, soprattutto, se ne trarrà alla fine un po’ di felicità.
Freud fu il primo a scoraggiare questa potente illusione affermando che l’analisi non può fare altro che "trasformare la miseria nevrotica in infelicità comune", vale a dire – ma non sembri poco – ricondurre alla normale condizione umana chi si dibatte nella sofferenza emotiva. Più tardi, negli anni Settanta, stagione del successo mondano della psicoanalisi, quando sembrava che sdraiarsi sul lettino fosse l’unica garanzia di realizzazione, un importante psicoanalista italiano, Eugenio Gaddini, spiegava che una buona analisi non rende il paziente un individuo diverso o speciale ma fa di lui semplicemente "quello che sarebbe diventato da solo se fosse cresciuto nelle migliori condizioni possibili".
Oggi che la psicoanalisi non è più di moda ed è finalmente rientrata negli studi degli specialisti a esercitare la clinica arricchendo la teoria, un libro fa il punto sul problema dei risultati terapeutici. Lo ha curato Joseph Schachter, un eclettico terapeuta statunitense che ha chiesto a sette colleghi di raccontare un caso clinico dall’esito soddisfacente. "Transorming Lives" tradotto in italiano con il più ottimistico "La seconda edizione della vita" (da poco in libreria per Bollati Boringhieri) è così una rassegna di sette esistenze riparate, migliorate, ritrovate o quanto meno riconciliate. Come quella di George, giovane docente universitario che temeva di essere omosessuale e invece trova moglie, successo accademico e sicurezza di sé. O quella di Sarah, quarantenne fiorentina, che non aveva gli stessi timori, e invece si ritrova felicemente accoppiata a una partner più anziana. O quella di Watt, convinto che qualsiasi donna lo avrebbe respinto perché calvo, grasso e con un pene piccolo, ma che alla fine inviterà l’analista al suo matrimonio. E anche gli altri imparano, ciascuno a proprio modo, ad amare e a cavarsela nella vita. Il tutto infarcito di fantasie e sogni squisitamente psicoanalitici, come fare sesso con un partner che, nel bel mezzo del rapporto, si trasforma nel proprio analista o, più esplicitamente, nella propria madre.
Intendiamoci, niente a che vedere con lo smalto letterario e il fascino irripetibile dei casi clinici a cui ci ha abituato Freud. Qui non ci sono le potenti fobie del piccolo Hans, il duro delirio del presidente Schreber o i sogni illuminanti degli uomini "dei topi" e "dei lupi". E soprattutto non ci sono quelle interpretazioni decise che fornivano la soluzione quasi geometrica di ogni caso. Qui c’è la vita di poveri diavoli che si affidano per otto o dieci anni a un proprio simile per cercare di uscire da un disagio mentale più o meno grave, portando sul lettino quelle identità sfuggenti che caratterizzano i pazienti contemporanei. Nel suo secolo e più di vita la psicoanalisi ha infatti cambiato se stessa mentre cambiavano i suoi pazienti e ha guadagnato in complessità quello che ha perso in fascinazione. Oggi è ancora ben salda nell’offerta di una terapia legata alla parola, ma deve tener conto della potenza degli psicofarmaci e fare tesoro delle nuove frontiere biologiche aperte dalle neuroscienze. Anche gli attacchi tradizionali alla sua teoria hanno perso spessore seguendo una curva di qualità discendente. Se prima la critica era presa in carico da filosofi come Karl Popper (che le imputava di non rispondere al criterio di falsificabilità) o Adolf Grunbaum (che l’accusava di essere una "falsa scienza"), oggi impazzano i "libri neri" o i pamphlet fasulli come quello recente del francese Michel Onfray, ridicolo catalogo di presunte malefatte di Freud, accusato di essere stato un cocainomane e un filofascista.
Il problema dello statuto della psicoanalisi nel mondo moderno si è semmai spostato al suo interno, in quella polisemia di indirizzi e orientamenti che impone regole di tolleranza reciproca ma non nasconde il confitto. E’, per esempio, guerra sottile ma aperta tra chi, appellandosi alla globalizzazione arriva a caldeggiare le sedute telefoniche e la Shuttle-analysis, con terapie on-line o via skype, e chi non rinuncia alle classiche regole del setting. Se ne è avuto un saggio nella recente elezione per la presidenza dell’International Psychoanalytical Association che annovera più di 12 mila analisti in tutto il mondo. Per la prima volta si confrontavano due candidati italiani, Stefano Bolognini, che è anche un apprezzato scrittore di racconti, e Jorge Canestri, di origine argentina e di largo prestigio internazionale. La vittoria della linea più flessibile del primo ha probabilmente aperto un nuovo corso alla psicoanalisi. Quasi a certificare che l’analista moderno, impaurito dalla crisi economica che sottrae pazienti e attratto dai nuovi mercati orientali che ne portano a iosa, è disposto a rivedere alcuni principi fondativi della propria disciplina, primo fra tutti il rapporto diretto con il paziente.
Ma sul lettino o via skype il punto che ancora incuriosisce il profano è: quel paziente sarà alla fine una persona felice? "Il successo di un’analisi non è certo la felicità", ci conferma Maria Ponsi, unica analista italiana presente nel volume di Schachter: "Non si tratta di una montagna da scalare con un arrivo vittorioso in cima, ma di un percorso che forse non contiene in sé una conclusione. Può interrompersi a un certo punto, quando il paziente sarà in grado di non sentirsi più perseguitato dalla realtà, ma capace di accettare le malattie, le mancanze, la morte come vicende della vita, che non gli impediscono per altri versi di goderla".
Insomma neanche la psicoanalisi ci fa la promessa della felicità. Freud l’ha sempre detto ma tutti noi abbiamo fatto finta di non crederci. Non c’è una formula in grado di darci una grazia sconosciuta, ma solo delle persone (non tutte) che per mestiere e vocazione possono accompagnarci a ritrovare una qualche capacità di vivere la vita.