INTRODUZIONE. : Augusto Romano presenta “Sulla psicoanalisi” un ‘antologia di scritti di Cesare Musatti. Racconti autobiografici, storie di pazienti presentati con leggerezza , capacità clinica e libertà teorica. Le doti di grande narratore, oltre che di clinico esperto, fanno consigliare all’autore dell’articolo di portare il libro sotto l’ombrellone. (Silvia Vessella)
LA STAMPA – AUGUSTO ROMANO 11/06/2012
Sul lettino di Musatti anche il dialetto
smaschera l’inconscio
Racconti autobiografici, storie di pazienti, tranches de vie, apologhi
Una mia collega, che aveva fatto un’analisi con Cesare Musatti, mi raccontò che ben presto l’analista prese a darle del tu e, poiché erano entrambi di origine veneta, cominciò a usare il dialetto durante le sedute. A un certo punto, le suggerì anche di prendere marito. L’aneddoto si potrebbe tranquillamente aggiungere ai tanti contenuti in questa godibile antologia di scritti di Musatti intitolata “Sulla psicoanalisi”. Titolo invero un po’ improprio, giacché non si tratta di contributi teorici ma piuttosto di racconti autobiografici, storie di pazienti, tranches de vie, apologhi, narrati tutti con la stessa cordiale familiarità che Musatti aveva usato con la mia collega. Giacché Musatti era dotato di una personalità estrovertita ed era tendenzialmente interventista; si trovava bene quando era al centro dell’attenzione e provava piacere a incarnare ruoli diversi (si ricorderà che in vecchiaia posò anche per la pubblicità di una linea di abbigliamento maschile). Il tutto però agito con bonaria ironia e un forte senso del concreto, dietro cui si intravede quell’amore per la razionalità e la chiarezza, che lo rendeva refrattario a intuizioni e fantasie. Di conseguenza, egli si rivela in questi testi un eccellente narratore della vita quotidiana, capace di evocare con pochi tratti sia casi clinici complessi, sia i costumi della borghesia italiana nella prima metà del secolo scorso. Dunque, un gradevole contributo alle letture estive, colto e a un tempo affabile e chiaro.
Potremmo fermarci qui. Ma rinunceremmo a darci ragione della strana impressione che colpisce chi svolge la stessa professione di Musatti nel leggere i suoi amabili sketch. L’impressione è quella di una distanza temporale superiore a quella cronologica, come se Musatti in qualche modo appartenesse ancora a quella stagione – la Belle Epoque! – che precedette lo scoppio della Prima Guerra mondiale. Impressione inizialmente incomprensibile, dato che Musatti – pur dichiarandosi fedele all’insegnamento freudiano – accoglie numerose e importanti innovazioni rispetto alla teoria del Maestro: relativismo epistemologico (le teorie psicologiche sono soltanto modelli interpretativi, non verità accertate); importanza fondamentale attribuita all’empatia nella relazione analitica; necessità di utilizzare le proprie esperienze per la comprensione dell’altro; riconoscimento della identità di natura nel paziente e nel terapeuta (entrambi più o meno nevrotici); modellamento del setting (cioè delle regole su cui si fonda l’incontro) a seconda della necessità. Tra l’altro, queste novità riprendono alcune delle più feconde anticipazioni di Carl G. Jung.
E allora? Allora il problema è un altro e riguarda le visioni del mondo. La psicoanalisi di cui parla Musatti è una psicoanalisi rassicurante. I suoi pazienti hanno dei sintomi, generalmente ben definiti; egli li sdraia sul lettino, connette ingegnosamente le libere associazioni fornite dal paziente con il linguaggio dei sintomi, e per lo più il paziente almeno in parte «guarisce». Una psicoanalisi ottimistica, che si fonda su processi lineari di causa-effetto e nutre una grande fiducia nella ragione strumentale e in quella che Paul Ricoeur chiamava l’«ermeneutica del sospetto»: attraverso una operazione poliziesca di smascheramento l’inconscio e le sue trame vengono riportate alla ragione. Ma come? Non era l’inconscio «selvatichezza indomita»?
Ho l’impressione che l’ottimismo positivistico abbia giocato un brutto scherzo a Musatti, o almeno al Musatti scrittore: gli ha sottratto la dimensione del tragico e lo ha condannato al lieto fine. I nostri pazienti sono oggi meno pittoreschi dei suoi e in genere presentano meno sintomi. Sempre meno la loro sofferenza è annidata in un punto specifico e perciò sempre meno è addomesticabile. Essa è pervasiva, ed è una malattia – come si diceva una volta – dell’anima, che si potrebbe chiamare assenza di significato. Perciò il problema si sposta: far scomparire i sintomi non significa guarire. Lo stesso concetto di guarigione si fa più equivoco, indefinito e fuorviante. Il compito è un altro: familiarizzarsi con l’insensatezza; non pretendere che essa sia altro da quello che è; lasciarla parlare; contemplare le immagini attraverso cui essa si esprime; a nostra volta parlarle, per quel che l’Io può.
Ma al mare, sotto l’ombrellone, sarà bene tenersi stretto il libro di Musatti e la sua simpatica leggerezza.