LETTERA 43 – Domenica, 04 Agosto 2013
Stefano Bolognini difende l’importanza della psicoanalisi
Abuso di farmaci contro il dolore. Per l’esperto Bolognini, però, è meglio la terapia del maestro.
INTRODUZIONE: Stefano Bolognini, intervistato dal giornalista di Lettera 43 Bruno Giurato, risponde a domande sulla crisi della psicoanalisi. Illustra una mappa della fortuna della psicoanalisi nel mondo e chiarisce gli ostacoli che si oppongono a questa fortuna. Sono ostacoli legati sia al privilegio tributato alla velocità sia all’uso indiscriminato dei farmaci proprio mentre le ricerche neuro scientifiche dimostrano l’efficacia della cura psicoanalitica.(Silvia Vessella)
LETTERA 43
Bruno Giurato
C’era una volta un re, e si chiama Sigmund Freud. Per tutto il 900 il padre della psicoanalisi è stato il punto di riferimento per una cultura europea in cerca di un nuovo fondamento, oltre la millenaria religiosità, e oltre un razionalismo arido. Io, superIo ed Es sono stati gli attori di una nuova mitologia, e perfino i regnanti di un dominio culturale che si estendeva dalla letteratura alla medicina.
LA CRISI DELLA PISCOANALISI. Da qualche decennio a questa parte l’influenza culturale di Freud e della psicoanalisi si è ridotta. E qualcuno ha azzardato l’ipotesi che il maestro di Totem e Tabù sia, appunto, nient’altro che un totem da mettere in soffitta. E con Freud sarebbero da rottamare l’analista, il lettino rituale, le domande sull’interpretazione dei sogni, l’Acheronte chiamato Inconscio.
«IL MITO DELLA FESTA CONTINUA». «Nella nostra società attuale c’è un attacco costante al pensiero e al sentimento», dice a Lettera43.it Stefano Bolognini, psicoanalista freudiano, da pochi giorni presidente dell’International Psichoanalytic Association (Ipa), fondata da Freud in persona a Norimberga nel 1910. «Il cinema, la tivù, le tendenze sembrano indicare che la vita deve essere una specie di festa continua», aggiunge. «Anche il sovraccarico di informazioni che usa lo stesso meccanismo della nevrosi ossessiva, cioè tenere la mente occupata da cose per non pensare, va nella stessa direzione».
Anche per questo Bolognini non ci sta a farsi rottamare. Rivendica per la psicoanalisi una funzione di contravveleno ai mali della società attuale. E disegna un panorama culturale vario e stimolante.
DOMANDA. Come «sta» la psicoanalisi nel mondo?
RISPOSTA. Sta in maniere diverse a seconda delle aree geografiche. Sino a 20 anni fa il paradiso della psicoanalisi erano gli Usa, andare in analisi era estremenente trendy: gli attori, i politici, tutti lo facevano…
D. Un po’ come nei film di Woody Allen?
R. Sì, ma, ecco, in questo momento in Usa non dico che si vivacchi, ma non c’è quel boom degli anni a cavallo della Seconda Guerra mondiale.
D. E altrove?
R. E’ strano, ma c’è una situazione a macchia di leopardo. In Francia la psicoanalisi va fortissimo, anche senza contributi del servizio sanitario nazionale. In Centro e Nord Europa c’è uno sviluppo fiorentissimo perché lo Stato contribuisce alle spese del paziente. In Germania, addirittura, si ha diritto a due anni di analisi gratis.
D. In Italia invece?
R. C’è una fioritura di interesse: il conto dei pazienti è molto difficile da fare, ma nel nostro Paese ci sono 950 analisti, più circa 300 in formazione. il pubblico è ricettivo, anche senza alcun contributo dello Stato.
D. L’analisi freudiana è un processo lento. È armonizzabile coi ritmi della vita di oggi?
R. Oggi gli ostacoli maggiori all’analisi sono di due tipi. Ci sono i problemi concreti, come la mancanza di danaro. Ma ci sono anche ostacoli interni alla persona…
D. Quali ostacoli?
R. Un tempo le inibizioni e la paura tenevano spesso il paziente lontano dallo specialista. Le persone si sentivano intimidite. Oggi invece sono le patologie narcisistiche a far evitare l’analisi. Ci si ritira su se stessi, si hanno difficoltà relazionali, e si rigetta l’idea di dipendere da qualcun altro. La relazione continuativa, intensa. con qualcuno, spaventa: viene vista come una dipendenza.
D. E non lo è?
R. In una certa misura sì, ed è normale. Ma temporanea, e controllata.
D. Insomma, il nostro «sé grandioso» di narcisisti ci rende allergici a un rapporto vero anche con l’analista?
R. In un’epoca in cui i legami non sono più sentiti come fondamentali, vincolanti e in cui il matrimonio è in crisi, ci si mette in gioco di meno.
D. Dunque ci si rivolge a terapie più veloci o ai farmaci…
R. È proprio quello il punto. Oggi una delle difficoltà per l’analista non è tanto decifrare il significato di un sogno, ma riuscire a costruire una situazione di lavoro duraturo con il paziente. C’è la tendenza a fare tutto in fretta. Ma la psicologia non è un fast food.
D. In più oggi molti ne mettono in dubbio il fondamento stesso: l’opera di Freud…
R. È sempre stato fatto: una volta si diceva che Freud sessualizzasse tutto. Ora di questo presunto problema non si parla più: ormai sono ben altre le fonti della sessualizzazione del mondo, dalla televisione al cinema.
D. E oggi invece qual è la critica che vi viene rivolta?
R. Molti sognano un farmaco che risolva i problemi psicologici velocemente. Poi molti contestano il fato che la teoria di Freud non è evidence based, cioè sperimentalmente dimostrabile, in laboratorio…
D. Cosa risponde a queste critiche?
R. In realtà tutta la clinica, in particolare la clinica medica, non è evidence based. Le scienze cosiddette «dure» sono davvero poche: la chimica, la fisica e poco altro. Tutte le altre sono contestabili con grande facilità. D’altra parte la maggior parte delle ricerche dei neuroscenziati non squalificano la psicoanalisi.
D. Anche in Italia?
R. Lo stesso Vittorio Gallese, che studia i neuroni-specchio insieme con Giacomo Rizzolati, conosce bene la psicoanalisi. Il fatto è che spesso le critiche alla psicoanalisi sono solo competizioni interne tra scuole diverse di psicologia.
D. Per esempio?
R. I comportamentisti sono più accreditati di noi presso le strutture mediche, anche perché promettono cure più brevi, dunque meno costose.
D. A proposito di costi, si dice che la nuova edizione del Dsm, il manuale-bibbia per i disturbi mentali, abbia ampliato il numero di patologie per favorire la case farmaceutiche.
R. Sono abbastanza d’accordo. Il Dsm è diventato molto generico, una margherita con fin troppi petali. Si sospetta che favorisca trattamenti farmacologici spicci e di massa.
D. Il Dsm viene usato anche dai giudici per stabilire, per esempio, se un bambino debba essere curato con psicofarmaci. Le sembra normale?
R. Sono procedure che assumono un alone di scientificità che autorizza in molti casi il medico di base o il pediatra a usare psicofarmaci in situazioni in cui si potrebbe, e si dovrebbe, lavorare anche su altri livelli, o solo su altri livelli. È un passepartout che permette di mettersi la coscienza a posto dietro parametri apparentemente molto scientifici.
D. In quali casi i farmaci vengono usati a sproposito?
R. Per esempio per eliminare un dolore quando sperimentare la sofferenza sarebbe la risposta sana del soggetto. Non a caso il congresso dell’Ipa, che si tiene a Praga fino al 3 agosto, si intitola Facing the pain, affrontare il dolore.
D. In quali situazioni per esempio è giusto soffrire?
R. Nei lutti, o nelle separazioni. A volte sperimentare un certo dolore fa parte del processo di lutto fisiologico, sano. Invece spesso in quelle situazioni molte persone vengono imbottite di antidepressivi. Questo impedisce l’elaborazione del lutto.
D. Se non si passa attraverso il dolore non si cresce?
R. Non è una questione di masochismo. Ma in certi casi sperimentare il dolore fa parte del processo di guarigione: se non si soffre non si guarisce. Certo, ci sono situazioni in cui il dolore non è sano, perché c’è una componente maniacale, di eccitamento per evitare la tristezza, come succede appunto nel sado-masochismo. Ma in molti casi la capacità di sentire il dolore implica che la persona è a contatto con se stessa, quindi può provare il piacere, la gioia, la speranza. La soluzione non è l’anestesia.