INTRODUZIONE: Luciana Sica sulle pagine di Repubblica traccia una breve storia della psicoanalisi italiana attraverso un’intervista a Stefano Bolognini, Presidente neo-eletto dell’IPA. Prosegue delineando alcune delle linee prospettiche future. (Silvia Vessella).
LUCIANA SICA
Sembra che il made in Italy funzioni nella psicoanalisi. Decisi ad “affrontare il dolore” in ogni angolo del pianeta, i freudiani di tutto il mondo si riuniscono oggi a Praga per il loro congresso ( Facing the pain ). E quelli di casa nostra un qualche motivo di orgoglio ce l’ hanno, visto che sabato prossimo Stefano Bolognini terrà il suo discorso ufficiale da presidente dell’ International Psychoanalytical Association, l’ autorevolissima Ipa fondata da Freud nel 1910. In una storia tanto lunga, è la prima volta che tocca a un italiano e Bolognini rischia una punta di enfasi: «Siamo entrati d’ autorità in “fascia A” grazie a una presenza sempre maggiore sulle riviste internazionali, nei convegni e nelle pubblicazioni di libri all’ estero. La caratteristica degli analisti italiani – non di tutti, ma neppure di pochissimi – è la creatività, associata a una solida cultura teorico-clinica… Possiamo dire a chiare lettere che ne siamo fieri?». L’ orgoglio di ritrovarsi al vertice del tempio freudiano dipende anche dalla diffusione della psicoanalisi ad ogni latitudine. Ma il sapere fondato da Freud avrà davvero un valore universale? C’ è da chiederselo, e c’ è chi lo fa seriamente: un altro fiore all’ occhiello di casa nostra è il gruppo di ricerca internazionale – “Geografie della psicoanalisi”, si chiama – diretto da Lorena Preta: «Si tratta di confrontare le diverse culture su temi come la sessualità, il rapporto uomo-donna, le varie forme che assume la dipendenza, più in generale la concezione della vita e della morte. È importante che il progetto sia italiano, ma soprattutto che siano già coinvolti tanti qualificatissimi analisti dell’ Ipa: un buon segno della sensibilità culturale e sociale della nostra comunità sempre più allargata». Boom freudiano nel mondo, analisti italiani finalmente promossi: soffia un vento favorevole per la psicoanalisi? A dispetto delle apparenze, la mutazione antropologica che segna la nostra epoca non consente nessun trionfalismo. Lo “spirito del tempo” sembra poco conciliabile non tanto con la Babele delle teorie analitiche, ma proprio con la clinica, con la disponibilità dei pazienti a sottoporsi a una cura così lunga e impegnativa. Anche i paladini dell’ atemporalità dell’ inconscio ammetteranno che l’ iperconnessione, la molteplicità simultanea delle cose che pensiamo e facciamo, i ritmi forsennati che segnano il nostro vivere non incoraggiano l’ introspezione. Potrà non piacere, e non solo agli epigoni di Freud, ma non serve litigare con lo Zeitgeist della contemporaneità, «multare il tempo per eccesso di velocità», per dirla con un aforisma di Valentino Zeichen. In altre parole: le stanze dell’ analisi non rischieranno di svuotarsi? Ma no, assicura Bolognini, saranno anche diminuiti i pazienti “in analisi vera e propria”, però c’ è ancora tanta gente che si rivolge a lui e ai suoi colleghi per terapie a orientamento analitico: «I pazienti di Freud erano nobili o ricchi borghesi che disponevano di tempo e risorse economiche. Oggi il danaro scarseggia anche nella middle classe il tempo anche di più. Questo potrebbe chiudere il discorso: l’ analisi è un lusso che la gente non può più permettersi. La verità in molti casi è un’ altra: il baricentro tra sé e l’ altro (noi diciamo “tra il soggetto e l’ oggetto”) si è spostato, per un fenomeno epocale, verso il soggetto stesso. L’ altro è tenuto a debita distanza, può essere “usato”, ma in assenza di un vero legame. “Io non dipenderò da te”: è questo il motto che attraversa il nostro tempo». Ma l’ analisi è quella di una volta? Fernando Riolo, tra gli studiosi più autorevoli del mondo freudiano, ex presidente della Società psicoanalitica italiana, reagisce così: «Ecco ogni volta riunirsi apocalittici e integrati nell’ annunciare che la psicoanalisi è giunta alla fine: liquidata o, per dirla con un eufemismo tanto alla moda, liquefatta.E invece l’ analisi è anche più necessaria, proprio oggi che la nuova realtà costruita dalla tecnologia determina il progressivo spossessamento del soggetto. Se agli oggetti tecnologici deleghiamo sempre più funzioni umane – le nostre memorie, il lavoro della ragione, le relazioni sociali e affettive – , se scorporiamo da noi una parte di noi, fare un’ analisi è certamente una scelta controcorrente rispetto ai modelli della realtà. Ma tra l’ articolazione del lavoro analitico e il nostro tempo mostruosamente accelerato non c’ è incompatibilità: c’ è conflitto, come sempre del resto, poiché si tratta del conflitto tra la coscienza al servizio della realtà e l’ irriducibile alterità dell’ inconscio… Il tempo dell’ analisi è innanzitutto il tempo del desiderio, dell’ esplorazione di sé». Peccato però che la progressiva e inesorabile restrizione della dimensione privata sia un fattore assolutamente avverso alla cura sul divano. Lo sanno soprattutto gli analisti più giovani, non certo quelli “di successo” che hanno comunque prestigio e visibilità. «Quel che importa è il rigore, e quindi la credibilità della cura. Richiede apertura mentale, preparazione e molta esperienza»: la ricetta è di Sarantis Thanopulos, brillante analista di origini greche e collaboratore del manifesto: «Più si vive impegnati in attività frenetiche e dispersive, più si resta fuori dal tempo reale della vita, e paradossalmente ci sono pazienti che tendono a vivere l’ analisi come un rifugio segreto, col rischio di restare parcheggiati in un presente senza futuro. In questi casi si fatica non poco a farli uscire dalla sospensione della loro vita. Certo, la tendenza maniacale a bruciare i tempi dell’ esperienza, che domina una società sostanzialmente depressa, è in fatale e irriducibile contrasto con il nostro mestiere. Senza però dimenticare che la psicoanalisi è sempre stata “intempestiva”, sin dall’ inizio così dentro e fuori il suo tempo».