Aggredito Salman Rushdie, l’odio non ha fine
di Davide D’Alessandro
12.08.2022
Salman Rushdie non è morto ma è come se lo fosse. Dovremmo considerarla così l’aggressione avvenuta ai suoi danni durante un evento letterario alla Chautauqua Institution, di Chautauqua, nello Stato di New York. Non è neppure importante se l’assalitore sia legato a qualche gruppo o religione, se sia stato incaricato da qualcuno o si sia sentito in diritto di procedere da solo per vendicare chissà cosa, chissà chi.
Il libro più importante di Rushdie, I versetti satanici, fu bandito in Iran dal 1988 per blasfemia. L’ayatollah Khomeini lanciò una fatwa contro lo scrittore indiano offrendo una ricompensa da 3 milioni di dollari a chi lo avesse ucciso. La guida suprema Ali Khamenei ha rinnovato la fatwa nel 2017, e nel 2019 via Twitter. Insomma, una fatwa è per sempre ma, di più, l’intolleranza è per sempre. Il bersaglio Rushdie, che sia fisso o mobile, resta l’occasione per dimostrare a sé stessi e al mondo che l’odio non ha termine, che i presunti e opinabili errori non sono perdonabili.
Durante un incontro, lo scrittore indiano disse a Roberto Saviano: “La libertà sta nella tua testa. Io certe volte chiedevo di presentare un libro o di andare ad una conferenza ma non mi autorizzavano, dicevano che era troppo rischioso. Ma se io mi sentivo che si poteva fare allora combattevo come un leone finché non ottenevo di poterci andare. Devi riappropriarti della tua capacità di giudicare cosa puoi fare, del tuo fiuto, della tua sensibilità, non puoi appaltare tutta la tua vita ai poliziotti”.
Non sappiamo se anche questa volta abbia combattuto come un leone per andare, per sentirsi libero di poter dire e raccontare. Sappiamo soltanto che tra il pubblico, vuoi a New York vuoi altrove, può sempre nascondersi il nemico che credevi amico, il nemico che non ritieni nemico, il nemico che riesce a vivere se c’è qualcuno da colpire o da annientare.
Non è morto oggi Salman Rushdie ma è come se lo fosse. Conviene pensarla così. Non per ciò che un giorno potrà accadere, ma per tenere viva l’attenzione su chi si ritiene diverso mentre è più uguale degli uguali, su chi pensa che un libro possa fare più male di una guerra. Non è un problema di versetti satanici, ma di uomini satanici, di piccoli uomini che armano la mente e le mani di altri piccoli uomini.
Dalla Redazione
Anna Migliozzi
Salman Rusdhie è uno scrittore, critico e saggista raffinato e prolifico. Conosciuto mondialmente soprattutto per il libro, I versetti Satanici, e la fatwa (condanna) che ne è conseguita da parte del mondo Islamico, è instancabilmente attivo fin dal 1974, quando pubblicò il suo primo romanzo, Grimus.
Tra i suoi titoli ne ricordiamo alcuni, Victory city (2023), Languages of Truth (2021), Quichotte (2019), La terra sotto i suoi piedi(1999), L’ultimo sospiro del mondo (1995), Il sorriso del giaguaro (1987), La vergogna (1983), I figli della mezzanotte (1981).
Nato in India a Bombay, oggi Mumbai, nel 1947 da famiglia di fede islamica, si trasferisce in Inghilterra all’età di 14 anni e studia a Cambridge. Dopo la Laurea, inizia a scrivere e a lavorare come agente letterario.
Nel 1974, dopo il primo romanzo, in un momento di ripensamento professionale e personale, decide di tornare in India. Farà un viaggio di circa 6 mesi, che lo riavvicinerà al paese che aveva conosciuto da bambino e ai problemi che lo avevano portato ad allontanarsene. Quell’esperienza confluirà poi nel libro del 1981, ‘I figli della mezzanotte,’ con il quale Rushdie narra la nascita dell’India come nazione indipendente dall’Inghilterra e, allo stesso tempo, di un Paese attraversato da ondate di odio partorite al suo interno. I figli della mezzanotte sono quei bambini nati nella notte del 15 Agosto 1947, giorno dell’Indipendenza, portatori di qualità straordinarie e di speranze che andranno però via via a frantumarsi e disperdersi.
Da molti anni, Rushdie vive a NY. Si dichiara profondamente ateo.
E’ attivo attraverso articoli e conferenze contro i fondamentalismi, sia dell’India che dell’America. E’ stato tra i sostenitori per la liberazione dell’artista cinese, AI WEI WEI (2011) contro la supremazia Induista sostenuta dal presidente Moodi’s (2011) e ovviamente contro Donald Trump e la sua politica suprematista.