César, 1980
Parole chiave: ambiente, Schinaia, meccanismi di difesa
Quali sono le resistenze psichiche che ci impediscono di prendere coscienza dell’emergenza climatica, Gazzetta Ambiente, 2: 27-36 di Cosimo Schinaia
Gazzetta Ambiente, 2/2021
Introduzione: Com’è possibile che l’umanità sappia che il suo modo di vivere la mette in pericolo e non sia capace di modificare tale sistema di vita per proteggere se stessa e il futuro dei suoi figli? Cosimo Schinaia, in questo articolo, esplora le dinamiche individuali e collettive che portano verso ’un’apatia generalizzata’ nei confronti della crisi ambientale. (Maria Antoncecchi)
Cosimo Schinaia: psichiatra, psicoanalista, membro ordinario AFT della Società Psicoanalitica Italiana e full member dell’International Psychoanalytical Association
Gazzetta Ambiente, 2/2021
QUALI SONO LE RESISTENZE PSICHICHE CHE CI IMPEDISCONO DI PRENDERE COSCIENZA DELL’EMERGENZA CLIMATICA
Di Cosimo Schinaia
INTRODUZIONE
Come fare fronte alla netta contraddizione tra, da una parte, le immagini del progresso, dell’inesauribile, dello sviluppo illimitato che si è eretto a modello non oltrepassabile e, dall’altra, le carestie e le informazioni sul clima che drammaticamente ci piovono addosso? Come raccapezzarci tra immagini e informazioni così in conflitto tra loro?
Soggetto sensibile, incandescente, polemico, più in particolare un tema di interrogazioni e di preoccupazioni, ma anche di diffidenza e di presa di distanza, l’ambiente è diventato uno dei simboli indissociabili della società moderna.
Oggi prevalentemente si pensa che possa essere studiato solo ciò che è misurabile, escludendo aree della soggettività umana, quali i nostri sentimenti verso la natura e i cambiamenti climatici e il nostro senso di empatia e di connessione con le altre specie, ma Papa Francesco (2015, p. 1), commentando la testimonianza di Francesco d’Assisi, afferma che:
“L’ecologia integrale richiede apertura verso categorie che trascendono il linguaggio delle scienze esatte o della biologia e ci collegano con l’essenza dell’uomo.”
L’atteggiamento conoscitivo di papa Francesco è rafforzato dalle parole di Albert Einstein, che, pare, abbia detto:
“Non tutto quello che può essere contato conta e non tutto quello che conta può essere contato” , dando anch’egli valore agli aspetti emotivi soggettivi che entrano in gioco anche nelle scienze sperimentali.
Degli ammonimenti di Francesco e di Einstein dovrebbero trarre profitto molti discorsi ambientalistici che, basandosi soltanto sulla descrizione drammaticamente oggettiva della catastrofe a cui stiamo andando incontro, non tengono conto della potenza delle difese psichiche a livello individuale e gruppale, che vengono a minare la consapevolezza dell’oggettività del danno provocato e subito al tempo stesso e che fanno del nostro tempo, l’epoca della grande cecità, come scrive Amitav Ghosh (2016).
Risulta impossibile parlare di un immaginario individuale senza considerare quello collettivo che lo sottende e anzi lo influenza in un rapporto di codeterminazione reciproca.
Non possiamo attestarci sull’immagine di un ambiente che sia solo un fuori sganciato dalla rappresentazione che ne abbiamo al nostro interno.
Spesso viviamo le problematiche ambientali come sganciate l’una dall’altra oppure, e questa sembra essere stata la soluzione collettiva prevalente fino a questo momento, le neghiamo violentemente.
Sono messi in atto vari meccanismi di difesa, fra i quali ricordiamo la scissione, l’intellettualizzazione, la rimozione, il dislocamento, la repressione, il diniego. Ognuna di queste soluzioni coprendo l’angoscia portata dalla consapevolezza del pericolo, rende impossibile la riparazione del danno, sia quello materiale che quello psicologico, ma anche quello morale, se con etica possiamo intendere una funzione specifica della mente che la rende propriamente umana.
L’angoscia che travolge l’individuo, lo tiene lontano dalla consapevolezza ed è una forma di difesa, oltre che individuale anche collettiva. Sarebbe invece necessario elaborare i sentimenti angosciosi di perdita e di finitezza, per rapportarci autenticamente ad un mondo dinamico e incerto, che dia spazio alla debolezza, alla fragilità.
È necessario, inoltre, sfuggire la reazione opposta, che comprende l’esaltazione acritica del mondo naturale e che sfocia in un’adesione conformisticamente fanatica all’ideologia ecologista in una sorta di “allucinazione” gruppale, che va intesa come rifugio rispetto alla paura di sentire, di pensare, di confrontarsi. Anche questo è un meccanismo di difesa che, enfatizzando idealmente il rapporto dell’uomo con la natura, nei fatti lo snatura, rendendolo retorico e sostanzialmente infruibile.
Sostenere con decisione e da più punti di vista l’urgente necessità dell’equilibrio ambientale non vuole dire sconfinare automaticamente nell’utopia anti-universalistica della decrescita felice, né propugnare un nostalgico e utopistico ritorno alla semplicità rurale e artigiana, alla fantasia di una Terra che una volta era intatta e incontaminata. Tale ritorno si configura come un vero e proprio mito contemporaneo che rappresenta una Natura originariamente pura e con il passare del tempo deturpata dal progresso.
Una Natura, che si trasforma in una erinni vendicatrice delle ferite sofferte a causa del progresso è la fantasia alimentata dai nostri sensi di colpa.
Il rischio di queste posizioni è che riconoscimento del problema, a questi livelli, sia strettamente collegato alla disperata impossibilità di porvi rimedio. Alla maniacale speranza di riparare con facili soluzioni, a cui poi fa seguito la delusione e il collasso delle aspettative, se tutto non avviene in termini rapidi, nei tempi desiderati e non differibili, non si risponde con la speranza matura e depressivamente operante, che rifugge dal tutto e subito infantile, ma con l’accettazione nichilistica del danno senza alcuna speranza di cambiamento, accompagnata da un’angoscia, che potrebbe essere definita ecoangoscia, in relazione al vissuto di ineluttabilità di una catastrofe ravvicinata.
Una prima modalità di fare fronte in termini positivi all’ecoangoscia può essere il diventare fautori della conservazione dei beni comuni e della valorizzazione della bellezza in tutte le sue manifestazioni, costruendo una concreta transizione ecologica.
Il rispetto dell’ambiente, inteso sia in termini etici che estetici, è stato messo in rilievo con stile sobrio e chiaro anche da Jorge Bergoglio (2015), che ribadisce il diritto di tutti gli uomini alla bellezza, allontanandosi da quel pauperismo sofferente, ideologizzato ed estetizzato, che talvolta è stato presente negli scritti della Chiesa cattolica.
NOI E I NOSTRI FIGLI
Insieme alla bellezza, vanno valorizzati il benessere psicofisico e, ancora, il futuro dei nostri figli e nipoti, evitando che modalità denegatorie, fossilizzazioni psichiche, incistamenti, oggi ampiamente presenti nello psichico, possano depositarsi e riprodursi nello psichico delle generazioni future, riproducendo i gravi danni che infliggiamo all’ambiente, come un’ipoteca dell’antenato nei confronti della discendenza.
Secondo un racconto talmudico (Ta’anit 23a), Honi Hameagell, il leggendario disegnatore di cerchi, camminando per la via, vide un uomo che piantava un carrubo. Honi gli chiese: “Quanto tempo deve passare perché un carrubo dia frutti?”. L’uomo rispose: “Settant’anni”. Allora Honi gli disse: “Sei certo di vivere per altri settant’anni?” Rispose l’altro: “Io ho trovato i carrubi nel mondo; come i miei padri li hanno piantati per me, così io pianto questo per i miei figli”.
Hans Jonas, in un orizzonte di senso che non si conclude con la singola vita, sostiene, in base al principio di responsabilità, che i nostri successori debbano pretendere di trovare un mondo in condizioni almeno non peggiori di quelle che noi abbiamo trovato. Il suo imperativo ecologico è:
“Agisci in modo che le conseguenze della tua azione non distruggano la possibilità futura di un’autentica vita umana sulla terra.” (Jonas, 1978, p. 16)
Nella trasmissione tra le generazioni avviene un processo di identificazione che condensa una storia che in gran parte non appartiene alle generazioni future.
Ecco la domanda cruciale che ci dobbiamo sul nostro funzionamento psichico individuale e collettivo: com’è possibile che l’umanità sappia che il suo modo di vivere la mette in pericolo senza essere capace di modificare tale sistema di vita in relazione al pericolo che la minaccia? Un individuo che adottasse un tale comportamento sarebbe considerato folle o suicida. L’unica risposta che si opponga all’impotenza e all’apatia, a cui ci costringe l’attuale catastrofe ambientale, consiste nel provare a trovare e sperimentare i rimedi possibili insieme, come collettività umana, ma contemporaneamente da soli, come singoli individui. È necessario ricercare e aiutare a creare una nuova bioetica del futuro, accettando la complessità della realtà su scala globale, in cui il buono e il cattivo non sono facilmente individuabili e districabili, piuttosto che lasciarsi andare alla fantasia di ricreare la nostalgica certezza di un tempo e un luogo in cui i gruppi umani del passato vivevano in un edenica naturale armonia con l’ambiente incontaminato, mettendo dentro di loro le nostre romantiche proiezioni idealizzanti.
Uno degli aspetti fondamentali dell’esperienza legata ai cambiamenti industriali, alle loro conseguenze e alle relative paure è il lutto anticipatorio, il vivere da subito in termini pessimistici e catastrofici quanto ancora non è avvenuto, e il rischio del ritiro degli affetti dagli oggetti avvertiti come danneggiati o danneggiabili, cioè la condizione psichica che può mostrarsi espressivamente come apatia, che può essere etichettata come compiacenza e/o indifferenza e che rischia di non farci restare aperti a una ribellione psichica e di sottometterci a un “tanto non c’è niente da fare”.
ENTRARE NEL MERITO DELLE DIFESE PSICHICHE
Il mondo vegetale, gli animali, le strutture architettoniche degli ambienti domestici ed extradomestici, le suppellettili, l’arredo, giocano un ruolo altrettanto determinante dell’ambiente affettivo e del milieu sociale per la formazione psichica, soprattutto nell’infanzia. Esiste all’interno dell’individuo, a livello conscio o inconscio, un senso di colleganza con l’ambiente non umano, di intima affettività tra i processi della vita umana e quelli ambientali, che deve essere riconosciuto e rispettato per il proprio benessere psicologico, per alleviare la sua solitudine esistenziale nell’universo.
La nostra ‘umanità’ si presenta come una ‘costruzione’, qualcosa che, seppure dato fin dall’inizio come caratteristica peculiare di base, ha bisogno per svilupparsi dell’incontro con un ambiente che aiuti a specificarlo, a distinguerlo dal mondo naturale e anche da quello artificiale che, comunque, resteranno per sempre parte attiva del suo essere. La nozione di umanità, quindi, anzi l’esperienza stessa di appartenere all’umanità, prevede uno spazio esteso nel quale il soggetto si possa espandere in un movimento di assunzione delle alterità. Non implica necessariamente un assorbimento verso l’indistinzione che annulli le differenze, quanto piuttosto un lavoro continuo di aggiustamento per raggiungere un’espansione e un incremento.
Scrive lo psicoanalista Harold Searles:
“[Il senso di colleganza] attenua il timore della morte e aiuta l’uomo a trovare un senso di pace, un senso di stabilità, di continuità e di sicurezza. Infine […] può agire come antidoto ai sentimenti di nullità e insignificanza.”
Eppure oggi si può assistere nel genere umano a un’apatia generalizzata in relazione alla crisi ecologica, che si basa largamente su difese dell’io inconsce contro angosce di vario genere e che si manifestano a vari livelli in relazione allo sviluppo dell’io degli individui. Il pericolo maggiore risiede nel fatto che il mondo si trova in una condizione tale da risvegliare le nostre angosce più primitive e, nello stesso tempo, da offrire la delirante ‘promessa’, questa davvero mortale, di alleviare tali angosce, di affrontarle, cancellandole attraverso la completa esteriorizzazione e reificazione dei conflitti primitivi che le producono. L’apatia consente di deproblematizzare le nostre paure, enfatizzando l’ampiezza dell’intervallo di tempo prima che le conseguenze del riscaldamento climatico vengano pienamente avvertite, oppure erodendo scetticamente la credibilità e l’autorità della scienza.
Le persone possono dichiarare angoscia per la crisi climatica, ma devono fare i conti con il fastidio fino alla non accettazione del conseguente cambiamento nei comportamenti (per esempio usare i trasporti pubblici, andare in bicicletta sotto la pioggia, investire denaro nell’isolamento delle abitazioni).
L’indifferenza, la sbadataggine, la pigrizia, la banalizzazione e la svalutazione scientifica dei rischi ecologici, la sottovalutazione degli effetti catastrofici e l’apatia nei riguardi della rovinosa involuzione del rapporto uomo-natura, possono essere difese da un’angoscia intollerabile, per cui si rende necessario trovare nemici più visibili, che coinvolgono meno le proprie difficoltà a cambiare stile di vita, come per esempio il terrorismo o altri uomini, altre nazioni lontane come la Cina, l’India con il loro sfrenato sviluppo economico.
Quando ci confrontiamo con l’emergenza climatica, entrano in gioco tre differenti forme di rifiuto: Il negazionismo, il diniego e la negazione. Ognuna di queste forme implica in modo radicale effetti differenti:
a) Il negazionismo è facilmente riconoscibile e consiste nella diffusione intenzionale della disinformazione per interessi politici, ideologici o commerciali. È una modalità difensiva organizzata e pianificata in termini grandemente cinici e la ritroviamo nelle campagne politiche (come quando Donald Trump con superficiale e irresponsabile aggressività definisce gli ambientalisti catastrofisti e profeti di sventure), o nelle schede esplicative che promuovono un prodotto, riducendo il valore o mettendo tout court in discussione le stesse scoperte scientifiche in tema di cambiamento climatico. Resta necessario evitare di mettere insieme le difese dell’individuo comunque esse si manifestino, che fanno parte della natura umana e sono il prodotto di migliaia di anni di storia della civiltà e determinano una responsabilità limitata e circoscritta, e il diniego politico, organizzato dalle lobbies che propugnano attivamente e perversamente la colonizzazione della biosfera e propagandano il consumismo, e che è perfettamente spiegabile con i meri interessi economici.
b) La negazione comporta l’affermazione che qualcosa “non c’è veramente”, quando invece è vero che c’è e ci aiuta difenderci dall’angoscia e dalla perdita. È una modalità di rifiuto che si costituisce come il primo stadio transitorio del lutto nell’accettazione di una realtà dolorosa, difficile da sopportare. L’individuo dice no alla realtà, ma non la distorce. L’individuo può cominciare a dire “non è vero”, quindi, seppure con stizza, accetta che sia vero, per poi finalmente cominciare a sentire pena e accettazione.
c) Il diniego presenta un problema più serio, in quanto contemporaneamente sappiamo e non sappiamo. Da un lato la realtà è conosciuta e accettata; dall’altro, con una sorta di alchimia psicologica, il suo significato è fortemente minimizzato. Un occhio aperto e un occhio chiuso. Nel tempo questa modalità difensiva risulta particolarmente pericolosa e intrattabile perché le nostre difese tendono a diventare sempre più rigide e radicate in relazione al montare delle angosce. Poniamo noi stessi in un una realtà alternativa per tenere a bada le crescenti emozioni negative e inconsciamente attacchiamo perversamente il significato razionale, proponendo una sorta di anti-significato. Il diniego lavora mediante una costante sorveglianza sui sentimenti di disturbo provocati dalla violenza e dalla relativa sofferenza in relazione ai difficili momenti storici che attraversiamo. Questo monitoraggio non ha la funzione di aiutarci ad affrontare il turbamento che proviamo, ma serve ad aiutarci a trovare modalità psicologiche correttive per disfarcene (Weintrobe, 2013).
Un’altra modalità perversamente difensiva consiste invece nel pensare che il piacere e i vantaggi individuali che derivano dall’attuale stato delle cose, a spese degli svantaggi procurati agli altri e all’ambiente, venga propagandato come piacere universale con modalità confuse, che distorcono e invertono la realtà (Hoggett, 2013).
La difficoltà ad entrare in contatto con le proprie angosce profonde porta ad allontanare da sé qualsiasi senso di responsabilità e qualunque presa coscienza della propria partecipazione alla creazione dei danni, per cui, attraverso un giustificazionismo esasperato, si passa da un “tanto, così fan tutti!” a un “tanto, a tutti piace così!”.
In un certo senso, è come avviene nelle relazioni pedofile, in cui il pedofilo è convinto che il bambino sia complice e simmetricamente corresponsabile del rapporto, che il desiderio sessuale sia reciproco, che goda anche il bambino, corrispondendo esattamente alla sua eccitazione, perché pensa che voglia esattamente quello che vuole il pedofilo. Il bambino con cui entra in contatto il pedofilo non ha una consistenza emotiva che venga riconosciuta e rispettata, ma viene pensato, desiderato e costruito come un homunculus, una sorta di disarmonico e artificiale adulto in miniatura che, una volta reificato, corrisponda esattamente alla sua costruzione eccitata (Schinaia, 2019).
Un’ulteriore modalità difensiva consiste nella razionalizzazione, nell’intellettualizzazione, per cui a una corretta comprensione razionale della drammaticità della situazione ambientale, non corrisponde una comprensione emotiva altrettanto significativa. La distanza fra comprensione e sensazione può rendere molto difficile agire anche per chi è attento e politicamente impegnato.
Ce la caviamo meglio con paure immediate, chiare, visibili, annusabili, ascoltabili, con una causalità lineare, cioè determinate da un nemico facilmente identificabile e con conseguenze dirette personali ovvie, mentre tendiamo a mettere lontano dal cuore quello che è lontano dagli occhi, se si tratta di qualcosa che procura disagio.
Gli oggetti molto lontani possono essere esperiti come se fossero nelle ombre, in un qualche posto dimenticato, oppure localizzati in una terra esistente solo in un futuro tanto distante quanto impensabile. Lo scopo inconscio di questa operazione psichica consiste nel creare una distanza emotiva da quelle cose del mondo che maltrattiamo e a causa delle quali ci sentiamo colpevoli.
Problemi troppo grandi, troppo complessi, non immediatamente visibili, ci fanno fare i conti con la nostra impotenza ad affrontarli, che a sua volta favorisce il disinteresse, o addirittura la ristrettezza mentale. Ci sentiamo costretti a restringere le nostre menti, a mettere in atto un vero e proprio sistema di anti-conoscenza, a viverci come spettatori amorfi senza alcuna responsabilità, piuttosto che come attori intrinsecamente corresponsabili, perché riesce arduo accettare la compartecipazione a un crimine tanto enorme.
Renee Lertzman (2015) introduce l’idea di una “melanconia ambientale” per descrivere la condizione di lutto inelaborato in relazione agli effetti dell’emergenza climatica.
“Melanconia ambientale è la condizione in cui anche coloro che tengono profondamente a cuore il benessere degli ecosistemi e delle generazioni future sono paralizzati quando devono tradurre le loro preoccupazioni in azione.” (Lertzman, 2015, p. 4)
Non si tratta di apatia (mancanza di pathos) o di mancanza di consapevolezza, quanto del fatto che il sentire troppo e troppo intensamente porterebbe alla paralisi e alla sensazione di impotenza ad agire. È vaga e difficile l’individuazione di che cosa dovremmo fare il lutto, quando abbiamo a che fare con il clima, rispetto, per esempio, a fare il lutto per la perdita di una persona. Per di più dobbiamo fare i conti con barriere culturali che rendono tale presa di coscienza ancora più difficile. Dobbiamo fare il lutto di una perdita non pienamente compresa e interiorizzata. La dimensione temporale della crisi climatica comporta per noi un’ulteriore sfida psicologica. Non solo stiamo soffrendo per una perdita che non è ancora avvenuta, ma lo stesso cambiamento climatico avviene, in un certo senso, al rallentatore. Tutto avviene troppo lentamente per allertare la nostra attenzione. Questo stato cronicamente nebuloso delle cose ci rende vulnerabili verso l’assimilazione di informazioni che tendono a confermare le nostre valutazioni e le nostre credenze. Come punto di partenza dovremmo riconoscere le nostre sofferenze e ambivalenze collettive nei riguardi dei cambiamenti climatici.
Lertzman si oppone al cosiddetto “mito dell’apatia”, allo sbarramento emotivo, all’anestesia affettiva presunta dalla maggior parte delle campagne ecologiste, secondo cui la gente non si dà da fare perché non se ne cura. Non solo non è assente la preoccupazione, ma anzi essa è presente talvolta in eccesso e connessa a complesse difese inconsce. Non si tratta più di essere preoccupati e di pensare alla nostra finitezza in rapporto a un ambiente considerato immutabile e indistruttibile, ma di pensare al rischio di scomparire noi con esso a causa nostra, per cui l’ambivalenza e i sentimenti angosciosi di perdita vanno integrati e non evitati per rapportarci autenticamente con un mondo dinamico e incerto.
Un altro aspetto da prendere in considerazione è che l’avveramento di grandi catastrofi e il conseguente angoscioso vissuto di rovina – di volta in volta le guerre, la catastrofe nucleare, oggi gli tsunami, le alluvioni, le frane, le valanghe – molto spesso si costituiscono come la cornice scenografica in cui trovano rappresentazione onirica vissuti di precarietà psichica, di azzeramento di progetti esistenziali, di depressione e angoscia di morte, di paura del futuro, di interruzione di relazioni affettive significative, di lutti e perdite irrisarcibili.
In più bisogna aggiungere uno specifico rischio di induzione da parte delle impressionanti immagini dei disastri ambientali diffuse a getto continuo dai media sulla costituzione dello scenario onirico, che sicuramente ha un’origine personale e individuale, ma che è al contempo inducibile. Le successive fasi di eventi catastrofici, cioè, si possono porre come uno strumento di visualizzazione degli aspetti più oscuri e meno integrati della personalità del singolo. Un’immagine esterna, un ‘paesaggio disastroso’ proposto a livello iconico, può talvolta assumere una funzione organizzativa, fornire rappresentabilità specifica a disegni interni disorganizzati in cerca di un’aggregazione rappresentativa.
Credo che la metafora di Gregory Bateson (1972) dell’acrobata sul filo teso nel vuoto che, per non cadere, ha bisogno della massima libertà per spostarsi da una posizione di instabilità a un’altra, possa rappresentare bene la condizione emotiva ed esistenziale dell’uomo moderno.
Le nostre identità e il nostro status sono strettamente legati al nostro stile di vita. Nelle attuali società consumistiche siamo attivamente incoraggiati ad esprimere il nostro senso di identità attraverso il possesso materiale, tralasciando tutto quanto possa mettere in discussione il nostro sentimento di identità. Eppure sappiamo che, portando avanti un insostenibile stile di vita consumistico, stiamo minacciando l’identità che proviene da quella parte di noi stessi, di cui da un lato non siamo pienamente consapevoli, ma che da un altro lato tendiamo a proteggere con le unghie e con i denti.
La psicoanalisi non può dare risposte preconfezionate e consolatorie a problematiche così complesse e che implicano sguardi e decisioni di ordine politico, economico, sociale, ma può aiutarci a riflettere sulle domande che vengono poste dagli individui e dalle comunità, evitando scorciatoie semplicistiche e rassicuranti. Grazie alla psicoanalisi sappiamo che aspetti perversi e distruttivi della natura umana non sono rinvenibili soltanto nei criminali, negli uomini cattivi oppure nei negazionisti climatici più incalliti, ma sono presenti in ognuno di noi. La ricerca della verità necessita di un intenso lavoro non solo politico-sociale, ma anche emotivo, in quanto si tratta di far fronte al dubbio e all’incertezza, che producono anche profonde angosce con il corteo di paura, sospetto, senso di persecuzione, che le esperienze nei gruppi tendono ad incrementare.
CONCLUSIONI
La nostra biosfera è il contenitore fecondo, la cui stabilità dovrebbe assicurare la base nutritiva, narcisistica, identitaria della nostra personalità e delle nostre collettività. Se per millenni la Terra si è presa cura dei suoi figli, fornendo loro in abbondanza ciò di cui loro necessitavano, oggi sono i figli a doversi prendere cura della loro madre–Terra, prendendo atto della senescenza del nostro habitat, come del resto avviene quando i nostri genitori invecchiano.
Dobbiamo sapere ascoltare il grido d’aiuto sempre più forte che proviene dalla Natura e, quindi dare ascolto oggi alle esigenze delle persone, delle specie e degli ecosistemi, anche quelli più lontani, da cui la nostra esistenza dipende, e contemporaneamente tendere l’orecchio alle esigenze delle generazioni future e alla preservazione dei beni comuni, come l’atmosfera e gli oceani, la cui esistenza, domani, dipenderà dai nostri stili di vita.
Nonostante l’orizzonte temporale per intraprendere un’azione efficace sia molto ristretto, per il bene dell’umanità, prendiamo atto sia che siamo parte del problema, sia che siamo parte della soluzione, che nell’epoca dell’Antropocene dobbiamo farci carico di una nuova presa di coscienza e di una nuova etica, evitando pericolose razionalizzazioni. Non si può fare a meno di un approccio critico alla crisi suscitata da questi cambiamenti, ma bisogna purgarlo delle sue tentazioni pessimistiche, come la novità non deve essere a priori ottimistica.
Italo Calvino fa dire a Marco Polo a conclusione di Le città invisibili (1972, p. 164):
“L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.”
“Riconoscere che cosa non è inferno e dargli spazio” è un’esortazione alla riparazione delle ferite inferte al pianeta, alla manutenzione, all’impegnativo esercizio dell’aggiustamento e della sutura dei guasti prodotti dal tempo e dall’uomo, all’opposizione all’obsolescenza programmata delle merci. L’ambiente è un bene collettivo, patrimonio di tutta l’umanità e la responsabilità è di tutti, nessuno escluso.
Credo che per quanto riguarda i rischi di catastrofe ecologica, determinata da uno sviluppo senza regole e senza memoria, quindi “cannibalistico”, sia necessario esplorare le dinamiche individuali e i conflitti sottostanti, nonché le dinamiche e gli stili di vita familiari che vengono appresi e fatti propri. Questa ricognizione è il punto di partenza per modificare le dinamiche e gli stili di vita individuali e familiari, la volatilità delle esigenze indotte dalla pubblicità, e per permettere, in una ritrovata dimensione di collaborazione fraterna, che ogni singola azione sostenibile sia creativa, rispettosamente riparativa e diventi parte di un rinnovamento globale attraverso una riassunzione di responsabilità individuale, in un orizzonte di senso che faccia riferimento rigorosamente al principio di realtà, ma opponendosi allo scetticismo di chi pensa che il singolo sia condannato all’impotenza, rinchiuso in una sorta di melanconia ambientale suicida.
Concludo, ricordando i versi tratti dalla raccolta “La rosa e i boschi in fiamme” (Londra, 1941) della poetessa polacca Maria Pawlikowska–Jasnorzewska (1891-1945):
Non è tempo di piangere la rosa,
quando ardono le foreste,
non è tempo di piangere le foreste,
quando brucia il mondo,
quando l’intera superficie della terra
diventa un solo Sahara…
…….
Eppure piango la rosa e piango me stessa…
BIBLIOGRAFIA
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https://www.spiweb.it/cultura-e-societa/linconscio-e-lambiente-di-c-schinaia-recensione-di-s-vessella/