OTTO DIX, 1918
Parole chiave: guerra, pulsione di morte, distruttività
Psicoanalisi della guerra. Huffpost 16/3/2022 di D.D’Alessandro
Davanti ad ogni cadavere, in guerra, c’è un uomo in piedi che lo osserva. Quella, che sembra appartenere a un altro, al caduto, appartiene anche a lui, a chi è rimasto in piedi, e dentro di lui comincia a scavare la voragine da cui rischia di essere inghiottito.
Huffpost 16 marzo 2022
Introduzione: La psicoanalisi si è a lungo interrogata sulla guerra e sui i suoi effetti sulla psiche a cominciare da Freud che nel ‘Disagio della civiltà’ nel riconoscere l’esistenza della distruttività si chiede se ‘l’Eros riuscirà ad affermarsi nella lotta con il suo avversario’. Su questo tema un articolo di Davide D’Alessandro.
Davide D’Alessandro, saggista
Huffpost 16 marzo 2022
Psicoanalisi della guerra
Perché gli uomini la fanno e che cosa resta nell’anima di chi resta
di Davide D’Alessandro
Esiste la guerra ed esiste il dopoguerra. Esiste il lutto ed esiste l’elaborazione del lutto, il confronto serrato con la morte dell’altro, soldato, figlio, madre, padre, fratello che sia.
La psicoanalisi si occupa, da tempo, di entrambe le fasi. Già nel lontano 1931 Sigmund Freud e Albert Einstein, non proprio due chiacchieroni che dominano le nostre serate televisive, si chiedono perché la guerra, perché il conflitto, perché lo scontro tra un uomo e l’altro, tra un Paese e l’altro, tra un colore della pelle e l’altro. Il grande scienziato chiede se mai si potrà arrivare un giorno a farne a meno, e il fondatore della psicoanalisi risponde di no, non con pessimismo ma con realismo, definitelo pure tragico, poiché l’uomo è abitato dalla pulsione di morte.
Penso a un libro di straordinario valore per efficacia d’indagine, Psicoanalisi della guerra di Franco Fornari, pubblicato nel 1966 da Feltrinelli, per André Green l’opera di psicoanalisi sociale più importante dopo Il disagio della civiltà. Penso ai testi dello stesso Freud, di Sándor Ferenczi, di Karl Abraham, di Ernst Simmel e Ernest Jones, raccolti da Mimesis in Psicoanalisi e guerra con prefazione di Silvia Vegetti Finzi.
Molti di noi sono abituati a concentrarsi sulle bombe e sui morti ma, dopo le bombe e dopo i morti, che cosa resta di chi resta, che cosa rimane impresso nell’anima di chi è sopravvissuto? Chi è sopravvissuto, per dirla con Elias Canetti, è destinato al senso e al delirio di onnipotenza, per essere riuscito a guardare i cadaveri dall’alto e a salvarsi, o è fagocitato dal senso di colpa che lo accompagnerà per tutta la vita, potendola chiamare ancora vita?
Interrogativi sensibili ai quali la psicoanalisi ha saputo rispondere con i testi e con alcuni maestri che l’hanno resa attenta e partecipe ai dolori dell’umanità. Occorre leggere Fornari per comprendere le ragioni che spingono gli uomini a fare la guerra, si può leggere Abraham per cogliere l’etiologia delle nevrosi traumatiche. Se lo psicoanalista piacentino pone l’accento sulla “paranoia primaria”, evento fondamentale per spiegare la violenza fantasmatica presente nel parto, ammortizzata poi da un terzo, il codice paterno, capace di assumere su di sé la morte e rilanciarla all’esterno, nel sociale, diremmo oggi, il fondatore dell’Istituto Psicoanalitico di Berlino, uno dei pionieri della psicoanalisi, scrive: “La totale debolezza di molti nevrotici di guerra, il loro disperato avvilimento, la loro propensione all’idea di morte trovano un’ulteriore spiegazione in un effetto particolare del trauma. Fino al momento in cui quest’ultimo non li ha sconvolti, molti dei predisposti alla nevrosi si sono tenuti in piedi solo grazie a un’illusione legata al loro narcisismo, cioè alla fede in una loro immortalità e invulnerabilità. Una fede che viene distrutta subitaneamente dagli effetti che hanno, su chi la nutre, un’esplosione, un ferimento o simili. La sicumera narcisistica cede il posto a un senso di impotenza, e ha inizio la nevrosi”.
Canetti scrive che in guerra si tratta di uccidere, ma l’unica guerra che ritiene giusta, sacrosanta, da combattere fino in fondo, whatever it takes, è contro la morte. Uccidere la morte con le parole, recuperare, attraverso le parole, la dignità di opporsi, di dire no, di rifiutare ogni compromesso, di evitare ogni contatto. La scrittura, per quanto ti maceri, per quanto possa spolparti fin dentro le viscere, ti collega alla vita, esprime la forza della vita, il suo non essere per la morte. La vita vuole vivere, non morire. I tanti che restano in piedi, pur non sapendo scrivere come Canetti, affideranno comunque alla parola, al racconto, al dialogo per immagini, la loro possibile salvezza.
Davanti a ogni cadavere, in guerra, c’è un uomo in piedi che lo osserva. Quella morte, che sembra appartenere a un altro, al caduto, appartiene anche a lui, a chi è rimasto in piedi, e dentro di lui comincia a scavare la voragine da cui rischia di essere inghiottito.
Basteranno le parole a salvarlo? La risposta della psicoanalisi è che non basteranno soltanto le parole, ma le parole curano, le parole lo aiuteranno certamente a riconsiderare e ricomprendere quanto è accaduto. Per lenire la pena e guardare avanti, alla vita che resta di chi resta.
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