SIMONE LEIGH
Parole chiave: pace, negativo, filosofia, Severino, armonia, verità
“Non c’è una via per la pace, la pace è la via”Huffpost 5/6/2022 Intervista a Tarca di D. D’Alessandro
A colloquio con l’accademico Luigi Vero Tarca, che ricorda le parole di Thich Nhat Hanh e spiega perché finora la filosofia e l’umanità non hanno centrato l’obiettivo di creare una società armonica e pacifica.
di Davide D’Alessandro
Huffpost 5 giugno 2022
Introduzione: Un’intervista al prof. Vero Tarca che ha elaborato un suo pensiero riguardo alla verità e alla sua relazione con la differenza e il negativo. Sottolinea, anche, come la filosofia può contribuire alla costruzione di una società pacifica ed armonica.(Maria Antoncecchi)
Davide D’Alessandro, saggista
Huffpost 5 giugno 2022
“Non c’è una via per la pace, la pace è la via”
Intervista a Luigi Vero Tarca di Davide D’Alessandro
A colloquio con l’accademico Luigi Vero Tarca, che ricorda le parole di Thich Nhat Hanh e spiega perché finora la filosofia e l’umanità non hanno centrato l’obiettivo di creare una società armonica e pacifica.
Da Treviso a Venezia, dal caffè della residenza all’aperitivo in Piazza San Marco, nella città dove il professore, allievo di Emanuele Severino, ha insegnato tanti anni. Nel 2018 studiosi di rilievo lo hanno omaggiato con “È tutto vero. Saggi e testimonianze in onore di Luigi Vero Tarca”, edito da Mimesis.
Chiamarsi Vero non può non avere una qualche relazione con la verità. Che cos’è la verità?
“La ringrazio per questa battuta iniziale che, essendo personale e scherzosa insieme, arriva al cuore della questione filosofica forse molto più direttamente di quanto lei stesso immagini. Ricordo un giorno in cui Raimon Panikkar – in Catalogna, dove ero andato a trovarlo – mi spiegava che in sanscrito “tarka” significa “ragionamento”, “ricerca”, quindi poi anche “sistema filosofico basato sulla logica”; io gli risposi scherzosamente che allora “Vero Tarca” significa “il vero sistema filosofico basato sulla logica”… (in quegli anni io insegnavo anche Logica). Ci siamo fatti una bella risata. Tengo a chiarire che “Vero” non è un nome d’arte ma è un nome vero: è il mio nome di battesimo, anche se all’anagrafe sono Luigi. La dimensione personale, dicevo, è un punto filosofico rilevante perché allude alla filosofia come un sapere che, lungi dal riguardare solo un contenuto oggettivo-esterno-impersonale, investe in pieno l’esistenza degli esseri umani, e si costituisce quindi come una forma di sapienza. In una battuta, di nuovo scherzosa, potrei dire che si tratta appunto di passare dalla verità al Vero, cioè dalla verità (neutra e oggettiva) alla sua vita effettiva (il vero), la quale si concretizza però nell’esistenza reale del singolo vivente (che nel mio caso è appunto “il Vero”…). Sto scherzando, naturalmente, raccogliendo lo spirito della sua battuta iniziale. Ed è appunto questo il secondo aspetto per il quale la sua domanda tocca di nuovo il cuore della filosofia. Voglio dire che il carattere scherzoso (pensiamo anche solo all’ironia socratica, naturalmente intesa in un senso profondamente diverso da ogni sfottò nei confronti dell’interlocutore) costituisce un tratto essenziale del dire filosofico. Una volta ho scritto che la formula della verità filosofica potrebbe essere: “Io scherzo sempre”. Questa è una variazione positiva del paradosso del Mentitore, che dice “Io mento sempre” (o, più rigorosamente: m = “m non è vera”); perché, mentre il Mentitore sprofonda nella contraddizione insanabile (se m è vera allora non è vera, e viceversa se non è vera allora è vera), lo “Scherzoso” (così potrei chiamare – scherzosamente… – il paradosso che propongo), pur effettuando anch’esso un certo distacco da tutte le affermazioni linguistiche (comprese le proprie), perde la carica negativa, giacché è diverso dalla negazione di ciò che viene detto. Le battute scherzose dicono pur sempre, in qualche modo, qualcosa di vero. Anzi, spesso esse sono l’unico modo per dire la verità, anche se la dicono in una maniera particolare che è ben lungi dall’esaurirla. In tal modo la verità resta sempre essenzialmente aperta, aperta in particolare all’interpretazione che ne dà l’interlocutore, e quindi pura alla condivisione del proprio contenuto. Comunque sia, è chiaro che anche il filosofo ‘scherzoso’ è davvero tale (cioè filosofo) solo se fa i conti fino in fondo con i problemi fondamentali della filosofia, a cominciare da quello, decisivo, che lei evoca: il problema della verità; e, mi permetto di aggiungere, della verità innegabile, quella di cui parla per esempio Emanuele Severino”.
È stato allievo di Emanuele Severino e nel “castello” di Severino si è inoltrato. Trovandovi cosa?
“Beh, Severino lancia, a chi intende fare filosofia, la sfida fondamentale, consistente nel confronto con la verità innegabile (quella che “né uomini né dèi possono smentire”). Tale è il principio di opposizione (“Il positivo si oppone al negativo”); perché persino chi volesse contestarlo (negarlo) potrebbe fare ciò solo contrapponendosi ad esso, ma proprio opponendosi al principio egli lo confermerebbe (elenchos). Da tale incontrastabile principio scaturiscono poi tutte le altre verità severiniane: l’eternità del tutto, la destinazione alla Gioia e alle Gloria, e così via. Chi non raccoglie questa sfida si tiene al di fuori dell’autentica esperienza filosofica. Chi – come tutti noi, oggi – è costretto a giurare, prima di prendere la parola in pubblico, che non dirà la verità, perché la verità non esiste, dovrà pur fare i conti con il fatto che in tal modo egli assume la verità (almeno) di questa sua affermazione. Ma perché noi tutti siamo costretti, oggi, a ‘rinnegare’, sotto giuramento, la verità? Perché nel mondo degli umani-mortali la verità assume il volto della prepotenza: chi pretende di dire la verità è un uomo dogmatico, prepotente e quindi alla fine violento. Ora, il filosofo, se da un lato deve fare i conti fino in fondo con la sfida della verità, dall’altro lato deve prendere sul serio anche questa istanza antidogmatica, ed ha dunque il dovere di mostrare in che senso il ‘dire la verità’ si differenzi da ogni forma di prepotenza. In una battuta potrei dire che la verità, ciò che pretende di avere valore universale (cioè di valere per tutti), diventa prepotenza nella misura in cui si presenta come negazione della posizione altrui. Ma è proprio qui che si manifesta la difficoltà fondamentale, quella che io chiamo “la trappola del negativo”, consistente nel fatto che la negazione pare inevitabile, perché persino chi tenta di sfuggirle è costretto a riproporla. In effetti, “La negazione della negazione è negazione”. In tal modo la negazione viene ad essere insuperabile. Ma la negazione equivale al negativo (perché chi nega viene a sua volta negato da ciò che egli nega), sicché il negativo (ciò che patisce i danni della negazione) viene ad essere innegabile e quindi insuperabile (“Il negativo del negativo è negativo”). Ecco la radice del nichilismo compiuto; ed ecco la trappola del negativo: anche il non‑negativo (in quanto negativo del negativo) è negativo. Insomma, in‑negabile pare essere proprio la negazione, dal momento che questa sembra essere l’unica cosa che risulta confermata anche da chi la nega. In tal modo la verità in‑negabile si presenta come negativa (quindi prepotente etc.) ma nello stesso tempo necessaria (inevitabile). Così il negativo si presenta come l’orizzonte ultimo della vita umana. E capiamo davvero che cosa questo significa solo se cogliamo il fatto che il “negativo”, lungi dall’essere una nozione meramente logico-gnoseologica, nomina innanzitutto il dolore (ciò che implica il proprio rifiuto) e la morte, che è la negazione, cioè la “necazione” (da nex, necis) totale. Solo sfuggendo a questa trappola si può accedere a un’esperienza salva/libera rispetto al negativo e quindi rispetto al dolore e alla morte”.
Qual è il modo per sfuggire a questa trappola; ovvero: che cosa vuol dire superare il dominio del negativo?
“Vuol dire aprire la mente all’esperienza del pensiero che io chiamo “puramente positivo” perché è differente da quello (negativo) che pretende di dire la verità operando delle negazioni. Il pensiero puramente positivo richiede però che si distingua la differenza dalla negazione (questo è il cuore della mia proposta filosofica). Perché, se si assume che la differenza equivale alla negazione (ogni negazione è una differenza e ogni differenza è una negazione), allora qualsiasi spazio intenda porsi come differente da quello negativo si ripresenta inevitabilmente come a sua volta negativo. Uno spazio davvero differente da quello negativo può darsi solo mediante quella che io chiamo “la pura differenza”, cioè la differenza che differisce da ogni negativo perché è positiva persino rispetto al negativo. La verità è dunque puro positivo, il quale si differenzia dalla totalità del negativo com‑ponendosi con esso in maniera puramente positiva. Ma positivo nei confronti del negativo in toto può essere solo il pensiero che pone il tutto (inteso come ciò che si com‑pone di/con ogni essente), e appunto per questo si rapporta positivamente rispetto a ogni cosa, compresi dunque ogni negazione e ogni negativo. È decisivo osservare, a questo proposito, che in tal modo la verità assoluta si distingue pure dall’in‑negabile, nella misura in cui questo resta pur sempre (in quanto negazione del negabile) qualcosa di negante e quindi di negativo. E tuttavia la verità puramente positiva conserva il pregio della ‘innegabilità’ (sia pure intesa nel senso purificato di ciò che è salvo rispetto al negativo in quanto è confermato persino da questo); perché anche il tutto‑positivo, che costituisce il contenuto della verità, resta confermato da ogni determinazione e quindi persino da ogni negazione. Ma, nello stesso tempo, differendo da ogni essente (differenza ontologica), differisce puramente anche da ogni negazione/negativo; quindi – ecco il punto – pure dall’in‑negabile. La verità filosofica differisce dall’in‑negabile; ma se ne differenzia rapportandosi positivamente persino rispetto ad esso. Questo è possibile solo grazie al fatto che tale pensiero filosofico costituisce l’integrazione puramente positiva del negativo (e quindi dell’in‑negabile): ciò per cui (rispetto a cui) persino il negativo (compreso l’in‑negabile) si presenta come un (puro) positivo. Del resto, come il non‑negativo è negativo, così anche il negativo è non‑negativo (perché è necessariamente a sua volta negativo di un negativo), quindi è in qualche senso positivo (giacché il negativo del negativo è, appunto per questo, positivo), però risulta davvero tale nella misura in cui la determinazione non‑negativa resta purificata da ogni sua valenza negativa/necativa. In mancanza di questa integrazione puramente positiva (cioè di questa purificazione) ogni mossa che facciamo per liberarci dalla trappola del negativo finisce per imprigionarci sempre più inestricabilmente in essa. Perché “il negativo del negativo è negativo”, quindi anche il positivo, in quanto è non‑negativo (negativo del negativo), è negativo. Da questa ‘maledizione’ si può uscire solo mediante l’integrazione puramente positiva determinata dalla com‑posizione totale per la quale anche il negativo è positivo, pur differendo essenzialmente da questo.
La filosofia cura, salva, tiene compagnia, solleva e risolve problemi? Insomma, qual è il suo compito?
“Proprio perché il compito della filosofia è quello di determinare il contesto onnicompositivo grazie al quale anche ogni negativo si presenta come un positivo, essa è la cura del vivente. E lo è in quanto, essendo l’integrazione puramente positiva del non‑negativo, fa sì che il danno comunque insito nella eliminazione del male (la negazione del negativo) si costituisca come un positivo. Cosa che è particolarmente evidente in medicina, dove l’intervento medico, che comunque danneggia il corpo (con l’intervento farmacologico o chirurgico), si costituisce come un beneficio nella misura in cui accade all’interno di un contesto davvero positivo, cioè a ben determinate condizioni: il consenso del paziente, l’esito positivo dell’intervento, il miglioramento (in senso proprio) della salute/benessere del corpo. La “cura” filosofica, insomma, tiene insieme l’aspetto negativo insito nella eliminazione del negativo con quello puramente positivo che promuove il bene di ogni determinazione. La filosofia è la promozione (‘cura’ in senso positivo) della verità (valore universale) che consente anche alla non‑verità di presentarsi come un positivo. Più concretamente, la filosofia è la cura dell’infelicità (sofferenza/dolore) mediante l’integrazione puramente positiva costituita dalla consapevolezza della semplice felicità in cui consiste la vita: “La vita è felicità; per questo i mortali vivono infelici”. In quanto cura del dolore originario della vita la filosofia è sapientia. Il rischio (particolarmente evidente oggi nella cultura occidentale) è che il sapere filosofico venga ridotto a culto dell’in‑negabile (cioè dell’incontrastabile in‑vincibile); in‑negabile che oggi assume fondamentalmente il volto del pensiero calcolante e quindi della tecnologia. La bene-dizione della verità si capovolge allora nella ‘maledizione’ per la quale la filosofia, cioè la consapevolezza della felicità, viene ridotta a logica+tecnica (tecno‑logia), rovesciandosi così in una forma estrema di dogmatismo/prepotenza/violenza. Un esempio paradigmatico: identificare la pace con la non‑guerra comporta il rischio di confondere la vera pace (gli avversari che depongono le armi e si chiedono reciprocamente perdono perché finalmente hanno incominciato a comprendersi) con l’orrore nel quale non c’è più guerra, cioè le ostilità cessano, ma solo perché uno dei due contendenti ha completamente sconfitto e assoggettato l’altro.
Si è aperto all’incontro con buddhismo, induismo e, più in genere, con la dimensione orientale. Che cosa ne ha ricavato?
“Quando, come dicevo, si comprende che la parola “negativo” (ciò che implica la propria negazione), che costituisce il fulcro della verità in‑negabile, è il nome concettuale del dolore (ciò che implica il proprio rifiuto), si capisce che la sapienza filosofica e quella classica/tradizionale (per esempio quella buddhista) si realizzano compiutamente solo attingendo il punto magico, comune a entrambe, nel quale la parola vera è quella che ri‑sana il dolore e ri‑crea la salute; e nel quale d’altro canto salvezza autentica si dà solo laddove tale liberazione accade secondo verità. Allora la civiltà-cultura orientale (ma naturalmente bisognerebbe distinguere accuratamente almeno India, Cina e Giappone), lungi dall’apparire come una soteriologia estranea o addirittura ostile alla nostra civiltà, si presenta come una fonte di sapienza capace di fornire contributi fondamentali per la cura dei ‘nostri’ (occidentali) problemi. Anche qui è stata per me fondamentale la frequentazione di Panikkar, che parlava di (e praticava la) “mutua fecondazione”, l’“inter‑in‑dipendenza”, il “dialogo dialogale”. In una prospettiva, come la mia, che intende riproporre la filosofia come sophia, cioè come sapientia a tutto tondo – sia pure, naturalmente, nella forma dell’“amore” per la sapienza, cioè della coltivazione di essa (cioè della ‘ricerca’ che però può darsi davvero solo perché è già, in qualche modo, sapienza) – il rapporto con l’Oriente è fondamentale. Pensiamo, oltre al già citato tema del dolore (il dukkha del buddhismo), al pensiero aduale dell’advaita induista (dove io intendo il prefisso “a” come uno specificativo piuttosto che come un negativo), o ancora al vuoto (śūnyatā), che indica qualcosa di diverso dal nostro non essere”.
Nel complicato tempo presente, la filosofia, attraverso alcuni studiosi, è entrata a far parte del salotto televisivo. È più ciò che perde o ciò che guadagna? Inoltre, nel nostro Paese sono spuntati come funghi i Festival di filosofia. Quali sono i pregi e i difetti che recano in sé?
“In verità, ogni cosa è bene; ma ogni cosa, in quanto è diversa dall’assoluto positivo, può essere male. La partecipazione ai ‘salotti’ esprime l’esigenza di una parola filosofica che sia “viva”, cioè di una verità che investa l’intera vita umana e tutti gli esseri umani. Il problema è che, cadendo nello spazio pubblico – che è originariamente e definitoriamente menzognero perché, accadendo nello spazio del potere, e quindi del segreto, è essenzialmente basato sull’inganno – il discorso filosofico diventa a sua volta inevitabilmente menzognero/ingannevole (al di là delle intenzioni soggettive di chi parla). Sicché a rigore quello che il filosofo potrebbe dire nello spazio pubblico è appunto solo che tutto quello che viene detto in pubblico è menzogna, compreso quindi quello che egli stesso sto dicendo, perciò pure quello che anch’io sto dicendo in questo momento (come vede, continuo a scherzare…). Ma per comprendere davvero tutto questo ci vorrebbe una riflessione più ampia, che affrontasse a fondo il problema del linguaggio, e qui il riferimento a Wittgenstein (un altro maestro per me decisivo, anche se ovviamente non l’ho conosciuto personalmente), con particolare riferimento alla fase matura e ultima del suo pensiero. Lo stesso vale per i Festival della filosofia (io stesso sono Direttore scientifico di un Festival). Se essi si consacrano allo spazio pubblico trascurando la dimensione propriamente/puramente filosofica, vanno incontro a quel rovesciamento per il quale proprio dicendo la verità si comunica il falso”.
Come si insegna allora la filosofia?
“D’istinto mi verrebbe da dire che, se la filosofia è sapienza, non può venire né insegnata (come una disciplina) né tanto meno imposta (come una legge). La filosofia – potrei dire, paradossalmente – è una cosa che si deve imparare ma che non si può insegnare. Però, volendo convertire in positivo questa formulazione negativa (“non può”), potrei dire che la filosofia la insegna davvero solo chi comprende, e riconosce, il valore e la verità di quello che dice l’altro, chiunque altro; perché in verità “tutte le proposizioni sono vere” (onnialetismo). Ebbene, questa verità io la posso insegnare all’altro solo mostrandogli nei fatti che so riconoscere la verità di quello che egli dice. La filosofia è dunque innanzitutto un gesto, quindi una pratica. Quella che realizza la coerenza tra il suo contenuto (l’armonia universale) e il gesto in cui essa consiste. Mi riferisco alla coerenza tra il contenuto che il discorso filosofico esprime (in particolare, appunto, il valore positivo di tutto) e il gesto mediante il quale il filosofo comunica tale contenuto. Perché se io parlo di armonia universale con un gesto che lacera i nostri rapporti, nel momento stesso in cui affermo l’armonia universale la contraddico; come colui che in una situazione di perfetto silenzio esclama: “Che bello trovarsi in un perfetto silenzio!”. Così dicendo egli ha detto la verità, ma proprio questo suo gesto ha reso falso il suo dire. Naturalmente una pratica di questo genere esige la creazione di spazi ad hoc, appositamente pensati e costruiti; spazi nei quali sia possibile dire davvero, e con sincerità, tutto quello che si pensa senza che ciò porti a uno scontro insanabile con gli altri, come quasi inevitabilmente accade quando le differenti opinioni assumono la forma della negazione reciproca, e il dialogo si presenta perciò come lo spazio della negazione reciproca, cioè della contrapposizione”.
Quando un discorso è filosoficamente corretto?
“La parola “corretto” qui è importante; perché evoca la circostanza che il gesto filosofico è quello che “rende di nuovo giusto (retto)” il comportamento degli umani. Vera filosofia è il gesto/parola che “(ri‑)aggiusta” la vita e l’esperienza degli umani. Questo vuol dire che il discorso filosofico è ‘vero’ solo nella misura in cui costituisce un atto che coinvolge, in tutta la propria esperienza/natura, la persona che sta parlando. Riprendendo lo scherzo iniziale, potrei dire che il discorso filosofico è corretto nella misura in cui passa dalla verità (un contenuto oggettivo e in qualche modo indipendente dall’atteggiamento esistenziale e quindi dalle relazioni che esso genera) al vero/Vero, cioè a una persona in carne e ossa, quella appunto che sta parlando; la quale viene dunque ad essere, nello stesso tempo, anche ciò di cui sta parlando. Quella filosofica è, potrei dire, una parola ‘sacramentale’. Intendendo però questo termine religioso in un senso anche pienamente laico: una parola che, con il suo stesso darsi, realizza ciò di cui parla. Come accade per esempio con la dichiarazione d’amore di colui che, affermando “Noi ci amiamo”, rende vero il contenuto che propone (naturalmente sappiamo che le cose vanno anche molto diversamente, e che dicendo una cosa del genere qualcuno si può beccare anche una bella sberla; ma, chissà, a volte anche certe sberle sono messaggi d’amore (come vede, continuo a scherzare…). La pratica filosofica è dunque la creazione, l’invenzione e la cura di azioni ‘magiche’ di questo tipo; la filosofia è “la scienza dei miracoli”…. E si tratta di pratiche che riguardano non sole le relazioni individuali o di gruppo, ma anche quelle relative alla dimensione pubblica, quindi pure etica e politica.
Se la filosofia, come ha detto più volte, dovrebbe contribuire a creare una società pacifica e armonica, finora non ha centrato il suo obiettivo? Che implicazioni ha, questa sua filosofia, dal punto di vista dell’azione sociale e politica?
“Una volta, nel corso di una tavola rotonda con Panikkar, gli ho chiesto: “Come facciamo a far sì che … [poi non ricordo esattamente cosa ho aggiunto, comunque qualcosa di questo tipo] … gli uomini entrino davvero in un rapporto dialogico tra di loro?”. Raimon – come sempre con un sorriso scherzoso ma insieme benevolo – mi ha risposto: “La domanda è sbagliata: non c’è “come”….”. Grande insegnamento! Nelle cose essenziali (quindi anche in quelle filosofiche) non c’è “come”! Non c’è (al netto del carattere negativo di questo “non”…) un mezzo che sia separato dal fine. Thich Nhat Hanh ha scritto un libro intitolato “Essere pace” [Being Peace]: la pace la può fare solo chi è pace. Il motto di un suo ritiro del 2005 a Castelfusano, al quale ho partecipato, diceva: “Non c’è una via per la pace, la pace è la via”. Potrei allora rispondere, con una battuta, che la filosofia, e in generale l’umanità, non hanno finora centrato l’obiettivo di creare una società armonica e pacifica proprio perché l’hanno posta come un obiettivo, cioè come un fine rispetto al quale i mezzi potevano in qualche modo essere svincolati, mentre essa può realizzarsi davvero solo nella dimensione in cui mezzo e fine coincidono, cioè quando la parola che invoca la pace costituisce essa stessa un gesto di pace. Così, “filosofico” un discorso lo è solo nella misura in cui di fatto riesce a creare pace e armonia tra gli umani. Non vorrei però, con queste battute, dare l’impressione che io stia invitando il pensiero occidentale a trasferirsi a Oriente abbandonando il sapere filosofico. Perché anche la sapienza filosofica occidentale giunge al proprio compimento attingendo quel punto magico nel quale la verità si dà solo se essa è già sempre compiuta pure nel semplice gesto che la testimonia. In fondo anche l’insegnamento teoretico tipicamente filosofico-occidentale coglie questo aspetto, per esempio quando dice (con Severino) che la verità, se la stai cercando, non la potrai mai raggiungere; perché la verità è definita dal fatto di essere ciò che sta a fondamento di tutto quello che dici e fai, quindi anche di ogni tua ricerca. Direi allora: la verità la puoi solo riconoscere, testimoniandola quindi con un gesto di ri‑conoscenza”.
Ma che cosa significa un’indicazione di questo genere, apparentemente del tutto ‘mistica’, per la situazione attuale dell’umanità? Quale lettura del tempo presente essa consente, e a quale azione ci spinge?
“Domanda, questa, davvero ‘impossibile’… E rispetto alla quale qui posso dare solo un cenno di risposta. Nella civiltà attuale l’in‑negabile (l’in‑vincibile) assume la forma della tecno‑demo‑crazia: il potere incontrastabile dei soggetti tecnologici che tramite la democrazia non si limitano a sostituire la realtà naturale con degli artefatti (macchine e strumenti artificiali), ma si propongono di ricostruire ex nihilo l’umano in toto, comprese quindi la sfera mentale, quella spirituale, quella affettiva etc. Nella misura in cui tale incontrastabile potere resta privo dell’integrazione puramente positiva di cui ho detto, l’opera divina (cioè la creazione della vita umana) si rovescia nella realizzazione dell’inferno in terra. Nella nostra epoca, filosofia vera si dà nella misura in cui si danno pratiche ‘miracolose’ (esistenziali-personali ma immediatamente insieme anche pubbliche-politiche) capaci di portare alla luce il contesto ‘interale’ puramente positivo capace di aggiustare (rendere giusta) persino quella forma incontrastabile di pre‑potere che si esprime nella tecno‑demo‑crazia. Nella misura in cui manca tale ‘aggiustamento’ continuo e completo, la tecno‑demo‑crazia si rivela come l’in‑negabile che si rovescia nella superstizione e quindi nell’idolatria del potere e del negativo. Ma naturalmente capire in che cosa consista tale ‘aggiustamento’ è cosa che richiede, oltre a una profonda metanoia spirituale, anche la disponibilità ad avviarsi per un percorso che qui posso soltanto evocare”.