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L’ Assassinio rimosso di Yitzhak Rabin di S.Thanopulos Huffpost, 21/02/2025 

24/02/25
L’ Assassinio rimosso di Yitzhak Rabin di S.Thanopulos Huffpost, 21/02/2025 

AMOS GITAI 2022

Parole chiave: Psicoanalisi, Ebraismo, Freud, Morte, Lutto

L’assassinio rimosso di Yitzhak Rabin

Sarantis Thanopulos

Alberto Stabile, storico corrispondente di “Repubblica” in Israele e in Medio Oriente, è uno dei più attendibili testimoni e conoscitori del conflitto tra israeliani e palestinesi che non sanato e sanguinante sta diventando insanabile e sanguinario. Ha pubblicato recentemente un libro, Il giardino e la cenere (Sellerio Editore). In esso racconta la sua esperienza giornalistica, scegliendo come centro della sua narrazione l’American Colony Hotel, residenza situata nella Jerusalem araba e favorita dai corrispondenti esteri, dove ha soggiornato per lunghi periodi. Il racconto parla di una terra bella, intensa e travagliata, dove il profumo dei fiori combatte con il rumore della guerra. Parla di persone che amano la vita, di persone che si amano, si cercano, si trovano e si perdono, poi si ritrovano per riperdersi ancora. Parla di un popolo, di due popoli, parla dei colleghi, donne e uomini, presi dalla nostalgia contemporanea della terrache hanno lasciato e della terra in cui si trovano, in esilio in entrambi i casi, liberi dalle prospettive opposte dell’Occidente e dell’Oriente, ammagliati dall’invisibile trama dei desideri che unisce queste prospettive nel sogno.
Lo sguardo di Stabile è lo sguardo nostalgico che riconosce il lutto, non crea un mondo ideale, mai esistito, sostitutivo della realtà. È consapevole di ciò che si è perso ma lo conserva vivo, come presagio di un futuro che non sia catastrofe definitiva e irrevocabile. Non è nostalgia consolatoria del futuro, ma sua memoria: ricordo vivente del passato che contiene dentro di sé un’altra vista del mondo, una prospettiva aperta, non ancora corrotta dalla cecità, che può, forse, farsi strada ancora in forme nuove. Qualcosa che non solo mantiene viva la speranza, ma mantiene vivi anche noi. In fondo cos’altro è il conflitto in Palestina se non uno scontro tra la vita e la morte e su cos’altro possiamo schierarci se non su questo?
La testimonianza è insieme sobria e coinvolta, lo scrittore è rispettoso di ogni sfumatura, di ogni dettaglio, non si interpone tra il lettore/spettatore e i fatti, le atmosfere e i paesaggi. Racconta attraverso di sé, non parla di sé. Il momento più “teso”, più tragico del libro, in cui ogni fatto che è accaduto prima e ogni fatto che accade dopo acquistano il loro significato più vero, e l’assassinio di Yitzhak Rabin, artefice con Yasser Arafat dell’accordo di pace che per un breve periodo sembrò di aver posto fine al conflitto e avviato due popoli a un destino di convivenza pacifica.
A distanza di un anno dall’assassinio di Rabin, l’indomani della vittoria elettorale, per un pugno di voti, di Netanyahu (sono passati trent’anni), migliaia di giovani si sono ritrovati davanti alla Knesset, avendo acceso un tappeto di candele, per ricordare l’assassinio. Scrive Stabile:
“Dagli altoparlanti arrivavano le note struggenti di un requiem laico, se così si può dire, composto dal grande sassofonista norvegese Jan Garbarek. Una corrente di dolore sincero e di angoscia per il futuro univa quelle migliaia di giovani. Ma Israele non avrebbe più fatto i conti con quel pezzo della storia”.
Rabin e Arafat sono due eroi tragici del nostro tempo, uniti in un unico destino di sconfitta, dopo che pur un attimo si era intravvisto l’orizzonte della vittoria. Separarli, per la diversità delle loro storie, delle loro ragioni e delle loro gesta, sarebbe ucciderli ancora. Si sono fatti carico degli errori commessi da sé stessi e dai loro popoli: errori tragici, preterintenzionali, che si commettono senza avere consapevolezza né presagio delle loro conseguenze drammatiche. Che senso ha che ognuno dei due popoli rivendichi le sue ragioni, quando le ragioni di entrambi, complesse e complicate (e in gran parte ostaggio di fattori esterni), sono valide? Che senso ha rivendicare la superiorità della tua ragione su quella dell’altro, se più l’affermi più distruggi la convivenza, ti ritrovi, come diceva Arendt, riprendendo Epitteto, nella condizione dell’uomo isolato e desolato, “eremos”?
L’assassinio di Rabin ha fatto uscire gradualmente Israele dalla scena tragica dove le catastrofi possono essere rimediate se si apprende dall’esperienza. Il conflitto tragico ci porta al punto oltre il quale non c’è più ritorno. Dove l’uccisione dell’altro rivela la sua ricaduta sull’uccisore: diventa uccisione di sé. La rivelazione sconvolge il nostro modo interno e attivando terrore, compassione e desiderio, trasforma il nostro assetto affettivo e mentale e ci porta a riaprire la relazione con l’altro nel punto in cui rischiava di chiudersi per sempre.
Rabin ha dato al suo popolo la possibilità di una pacificazione interiore e esterna. Gli ha fatto dono di una “catarsi”: non purificazione, ma liberazione dal fantasma persecutorio di un’altro diventato con i suoi atti il mostro anaffettivo nazista, un essere disumano. Un membro del suo popolo l’ha uccisa con lui. Netanyahu non ha armato la mano dell’assassino, ma l’ha legittimata di fatto. Rimossa dalle coscienze la soluzione “tragica” di Rabin, il conflitto rischia sempre di più di precipitare nell’abisso di uno spazio kafkiano, post-tragico. Nello spazio tragico l’altro ucciso come nemico, deve risorgere come amico. Nello spazio post-tragico l’altro deve sparire come nemico e come amico, non esistere.
Il popolo di Israele ha diritto a una terra e a un destino pacifico. Che nella terra di due popoli, terra di giardini e di ulivi, un vento buono, la brezza che viene dal mare, porti via l’odore di morte che emana dal cinismo di Netanyahu e dal nichilismo di Hamas. Che il desiderio rimosso con l’assassinio di Rabin torni a vivere nel sogno di tutti per insegnarci di amare e non odiare la realtà.

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