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 J. B. Pontalis, lo Scrittore oltre l’Analista di D. D’Alessandro. HuffPost, 31/12/2024

4/01/25
 J. B. Pontalis, lo Scrittore oltre l’Analista di D. D’Alessandro. HuffPost, 31/12/2024 1

Parole chiave: Pontalis, psicoanalisi, cura, scrittura

Jean-Bertrand Pontalis, lo scrittore oltre l’analista

di Davide D’Alessandro

Negli ultimi due libri tradotti da Alpes emerge la grandezza misurata, sobria, il passo corto e la vista lunga di un uomo molto intelligente

“Un’analisi non si racconta, un’analisi è destinata all’oralità e resiste alla scrittura. È una bocca che si apre”.

Non so quanto fosse bravo, Jean-Bertrand Pontalis, come psicoanalista, ma come scrittore era bravissimo. Quest’immagine dell’analisi che non si racconta, che resiste alla scrittura, una bocca che si apre, è efficace e mette a tacere quanti hanno pensato il contrario, dopo averci regalato pessime prove, libri al limite della temerarietà.

Se leggete gli ultimi due scritti di Pontalis, “A(l) margine dei giorni” e “Un uomo scompare”, editi da Alpes, con la puntuale introduzione di Nelly Cappelli, il primo tradotto da Silvia Anfilocchi e il secondo da Massimiliano Sommantico, recuperate l’amore per la lettura, per il passo corto e la vista lunga di un uomo molto intelligente, e siete persino in grado di suggerire agli analisti non soltanto di usare meno parole quando sono in seduta, ma anche quando scrivono o cercano di scrivere.

Si chiede Cappelli: “Quanto possiamo imparare della vita, leggendo un grande romanziere, un poeta? Possiamo uscire, grazie alla letteratura, dal nostro confinamento, dalla visione angusta, egocentrica, in cui rischiamo di restare intrappolati? Si possono aprire spazi psichici, prima inaccessibili o disabitati, o abbandonati? Si può creare movimento psichico, dare respiro alla mente; si possono riattivare memorie, parole, desideri?”.

E si risponde: “Letteratura e psicoanalisi tentano entrambe di sottrarre la parola al lutto, cercano di portarla in vita o di ridarle vita. Rimettono in movimento percorsi di senso bloccati, sciolgono fili che erano aggrovigliati, ne spezzano altri. Riallacciano fili con nuovi nodi, creano nuove possibili trame. Una serie di ‘rilanci’ potenzialmente interminabile. Per entrambe, psicoanalisi e letteratura, sia pure in modi diversi, l’immobilità non è l’eternità, è la morte”.

Pontalis, è vero, sottrae la parola al lutto, le ridà vita, ma è parola sobria, misurata, adeguata, precisa. Il tratto di penna non va mai oltre il dovuto, il tocco è lieve ma arriva magicamente a destinazione e penetra. Perché?

Perché Pontalis aveva saputo lasciarsi, abbandonarsi, rinunciare a sé. Ci consente di scoprirlo attraverso l’ascolto di uno dei suoi pazienti che gli parlava della morte, della finta angoscia della morte, di quella che ci fa dire: “Che cosa ne sarà dei miei cari senza di me che ero il loro unico sostegno? Crolleranno? Come potrò continuare a vivere senza di lui/lei? Non ne avrò il coraggio”. Poi, l’affondo del paziente: “Fesserie! Io lo so cosa mi angoscia, è la prospettiva, la certezza di essere per sempre separato da me stesso. La morte non è altro che questo ed è una cosa che trovo insopportabile: l’idea che mi lascerò, una volta per tutte”.

Ecco la chiosa di Pontalis: “Quell’uomo non ha tutti i torti. Per quanto noiosa, spiacevole, spesso penosa possa essere la nostra compagnia con noi stessi, non abbiamo davvero nessuna voglia di lasciarci da soli! Niente affatto”.

Chi ha scritto queste pagine era certamente riuscito a fare i conti con l’abbandono. Non degli altri, ma di sé. A lasciarsi da solo. A staccarsi da quella penosa compagnia. A scomparire. Come un fantasma.

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