Pignon – Pasolini, Pietà – Roma, 2015
Parole chiave: Pasolini, critica letteraria, corpo
“Io e PPP, una questione privata” Huffpost 18/4/2022. Intervista di D. D’Alessandro
A colloquio con Walter Siti, che pubblica “Quindici riprese. Cinquant’anni di studi su Pasolini” e spiega: “A contagiarmi era stato il desiderio. A quarantasei anni guardava il corpo maschile come lo guardavo io ventunenne. Il punto di contatto era l’omosessualità di entrambi”.
Hufffpost, 18 aprile 2022
Introduzione: Walter Siti, uno dei maggiori critici letterari, studioso di Pier Paolo Pasolini, dialoga con Davide D’Alessandro sul complesso rapporto che lo lega all’intellettuale italiano in occasione del centenario della sua nascita. ( Maria Antoncecchi)
Davide D’Alessandro, saggista
Huffpost 18 aprile 2022
“Io e PPP, una questione privata”
A colloquio con Walter Siti, che pubblica “Quindici riprese. Cinquant’anni di studi su Pasolini” e spiega: “A contagiarmi era stato il desiderio. A quarantasei anni guardava il corpo maschile come lo guardavo io ventunenne. Il punto di contatto era l’omosessualità di entrambi”.
di Davide D’Alessandro
“Se vuoi parlare sul serio di Pier Paolo Pasolini”, mi ha intimato una cara amica, “devi chiamare o Dacia Maraini o Walter Siti”. Lettore attento e da sempre di entrambi, ho deciso di chiamare il secondo. Prima, però, ho terminato “Quindici riprese. Cinquant’anni di studi su Pasolini”, edito da Rizzoli, il libro che Siti ha partorito come atto liberatorio per porre fine a una lunghissima frequentazione. È un libro corposo e straordinario, un libro per dire che cosa è stato e che cosa ha rappresentato Pasolini per l’autore, un libro per riscoprire un’opera importante e la critica, l’arte della critica.
Ha dedicato il libro alla memoria di Franco Fortini, “severo e affettuoso antidoto”. Antidoto a cosa?
“Antidoto rispetto al vitalismo, perché il vitalismo era la principale caratteristica di Pasolini. Un giorno Fortini gli scrisse una lettera per consigliarlo di trasferirsi da Roma in un paese freddo. Siccome il vitalismo appartiene anche a me e talvolta mi prende un po’ la mano, mi spinge verso cose irrazionali, la visione storica e di sistema di Fortini può servire da antidoto, raffreddando la mente”.
Cinquant’anni di studi su Pier Paolo Pasolini in quindici riprese. L’incontro è finito pari o uno dei due è andato al tappeto?
“Nessuno dei due è andato al tappeto. Ha vinto Pasolini ai punti. Io ho sempre sentito il rapporto e il confronto come qualcosa di più e di meno dell’approccio critico. Erano tante le cose che mi attraevano e respingevano. Quando, dopo la morte, divenne un fenomeno mediatico, mi ritrassi. La mia questione con lui era personale e privata. Non ho partecipato al coro celebrativo. Non ero interessato”.
Ha scritto la voce “Pasolini” per Treccani. Se dovesse scrivere una riga qui, diciamo una vocina, cosa scriverebbe?
“Uno scrittore italiano che ha contato molto di più come intellettuale che come scrittore”.
Com’è spuntata la febbre per Pasolini?
“Nel 1968, in un cinema di Corso Italia a Pisa, dove proiettavano Teorema. A contagiarmi era stato il desiderio: quello scrittore e regista di cui sapevo pochissimo, e che aveva quarantasei anni, guardava il corpo maschile come lo guardavo io ventunenne. Ecco perché dicevo di questione privata e personale. Il punto di contatto era l’omosessualità di entrambi”.
Le risulta più importante l’uomo, l’intellettuale, il poeta, lo scrittore o il regista?
“Direi l’intellettuale, perché ha provocato un terremoto nella cultura italiana, portando insoddisfazione permanente e coraggio nel dire ciò che poteva metterlo soltanto nei guai. Non ha mai cercato il consenso, ma lo scontro, la provocazione, lo scandalo. Aveva facilità a scrivere versi, un’autentica vocazione poetica, anche se ha scritto molti versi brutti e non ha lasciato eredi. Non esiste una generazione pasoliniana, mentre esiste una generazione montaliana. Non credo che avesse eguale vocazione per il romanzo. I più belli o non sono finiti oppure una hanno una forma diaristica. Gli stessi racconti dei Ragazzi di vita sono tenuti insieme da un filo molto fragile. Quando Riccetto va in carcere, ed esce dopo tre anni completamente cambiato, non c’è una sola parola né sul carcere né su questo cambiamento. Nei grandi romanzieri, penso a Balzac o a Tolstoj, sarebbe stato impossibile. Se un personaggio va in carcere, lo si segue, se ne scrive, perché si ha il senso del tempo. Ecco, non credo che Pasolini lo avesse”.
Qual è stato il suo miglior film?
“Come regista ha contato un po’, anche a livello internazionale. Alcuni ne hanno ripreso lo stile ieratico, fatto di canto e controcanto. Ma mi è sempre parso uno stile un po’ artefatto. Continuo a preferire i primissimi. Se dovessi sceglierne uno, direi La ricotta”.
E il suo miglior libro?
“Direi Scritti corsari, perché hanno un grande spessore letterario e mostrano il personaggio nel suo momento migliore, quello della polemica e dell’intuizione di ciò che accadeva, mentre altri intellettuali non si accorgevano di nulla. È il primo libro da consigliare a un giovane che volesse approcciare l’opera pasoliniana”
Ho chiesto a Ferdinando Camon se anche lui, come Pasolini, avrebbe dato tutta la Montedison per una lucciola. Mi ha risposto che i contadini avrebbero bruciato tutte le lucciole per un posto alla Montedison. Concorda?
“Non c’è dubbio e penso che sarebbe stato d’accordo anche Pasolini, il quale sapeva che i contadini, e non solo, avevano come sogno di diventare anche loro dei piccoli borghesi”.
Che cosa vuol dire mettere il corpo in ciò che si fa e in ciò che si scrive?
“Pasolini l’ha messo a partire da un certo momento. Prima aveva delle remore. Atti impuri e Amado mio non li ha mai voluti pubblicare. Ci teneva ad avere e conservare un profilo non attaccabile. A partire dalla metà dei Sessanta ha pensato che il corpo potesse integrare, in senso figurato, i suoi testi. Quando pubblica Alì dagli occhi azzurri ritiene che il suo corpo possa diventare un significante che sta dentro i testi. Vede, ciò lo differenzia da altri grandi scrittori. Sa che in questo 2022 ricorre anche il centenario della nascita di La Capria, Fenoglio e Bianciardi. Se prendiamo i loro tre libri più belli (Ferito a morte, Una questione privata e La vita agra), in nessuno dei tre la figura dell’autore è così presente. Sono testi autonomi. Invece, non c’è un romanzo di Pasolini, tranne Una vita violenta, che non abbia bisogno di essere integrato dalla figura di Pasolini. Pensi a Petrolio. Senza l’autore quasi non esiste”.
Una delle quindici riprese è dedicata alla seconda vittoria di Pasolini. Quale fu la prima?
“La prima fu quella del successo, la seconda dell’autenticità, del ritrovare le proprie radici più profonde. Si ha una sola vittoria nella vita, scrive nella poesia Aneddoto dei vecchi re. Lui la cercava nella letteratura, ma si sentiva sconfitto perché sempre impotente nei confronti della realtà. Letterato al cento per cento, legato per tutta la vita alla letteratura, ma sentendone l’insufficienza e l’impotenza”.
Perché avrebbe preferito andare a cena con Pavese a Torino piuttosto che partecipare a una tavolata romana con Pasolini?
“Perché a me piacciono le persone che parlano poco e che, quando parlano, lo fanno con un certo pudore. Suppongo che quella romana fosse di puro esibizionismo a chi le sparava più grosse. C’è l’aneddoto di Gadda, a cena con Pasolini, Morante e Moravia. Fervevano i dibattiti sulla bomba atomica. Chiesero a Gadda, il giorno dopo, come fosse andata la cena. Rispose che la signora aveva urlato parecchio. Gadda era milanese e non avrà gradito. Io sono padano e ugualmente non gradirei”.
C’è chi sostiene che senza il suicidio, l’opera di Pavese non si sarebbe affermata. Senza la morte che ebbe Pasolini, senza quella morte, la sua opera sarebbe ancora tra noi?
“Certamente sì. È un poligrafo che si è sperimentato, come D’Annunzio, in tutti i campi. Se c’è una Rassegna cinematografica su quei decenni, non può mancare un film di Pasolini. Le ceneri di Gramsci restano eccome. Forse, senza quella morte, non sarebbe diventato un fenomeno mediatico, sarebbe mancato il lato pop”.
Nessuno può dire di avere prove inconfutabili, ma lei ha un’idea su quella notte? Potrebbe dire anche lei: so, ma non ho le prove?
“No, perché in effetti non so; però, come ebbe a dire anche l’avvocato Marazzita, una persona sa come sono andate le cose quella sera ed è Johnny lo zingaro, l’unico ancora in vita. La cosa certa, acclarata, è che non c’era soltanto Pelosi, ma c’erano molte persone; per cui si configura quanto meno come un agguato”.
Perché scrive di essere stato, come critico, obnubilato da fantasmi personali?
“Per via di quella questione privata e personale. Non credo che si possa fare critica in modo totalmente oggettivo. Conviene confessarlo con onestà. Comunque, ritengo di averlo studiato e criticato senza cedere né al servo encomio né al codardo oltraggio”.
È giusto chiedersi cosa farebbe oggi Pasolini, cosa direbbe oggi Pasolini o è soltanto un esercizio inutile?
“È una stupidata. Per due buone ragioni. Intanto perché il mondo, in questi cinquant’anni, è cambiato enormemente e radicalmente. Poi, perché ci aveva abituati a capriole, abiure, contraddizioni. Come si può trasferirne il pensiero sulle questioni di oggi?”.
Le sue contraddizioni sono state un punto di forza o di debolezza?
“Tutte e due. Di forza, perché lo hanno reso scrittore con una esibizione di sincerità. Di debolezza, perché nessuna opera si presenta compiuta e conclusa. Pasolini è il contrario di un classico. Un classico, ricorda Calvino, è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire. Se la sfera è chiusa, gli interpreti dei secoli successivi ci possono trovare sempre qualcosa di nuovo. L’opera aperta, e quella di Pasolini lo è, invecchia più facilmente”.
Dopo cinquant’anni, è davvero finita con Pasolini?
“Sì, su Pasolini a mai più risentirci. Lo dico illudendomi che sia un gesto coraggioso, ma forse è solo il senile volermi allontanare da qualcuno che ancora mi rimprovera, che mi sventola in faccia la mia rassegnazione a tacere; e dunque è un’ultima prova di viltà”.
Che cosa bolle in pentola?
“Scrivo un nuovo romanzo. Non accetto inviti per presentare il libro su Pasolini proprio per lavorare a questa nuova storia”.
Può anticipare qualcosa?
“È la storia di un’amicizia tra un vecchio di settantacinque anni e un ragazzo di venti. Di un giovane vero, nato dopo il duemila, non di un adulto che fa il giovane. Mi sono sempre tenuto distante dal mondo giovanile. Ora sento la necessità di scoprirlo, di coglierne le sfumature per cercare di raccontarlo”.