letteratura.blogspot.com – 14 gennaio 2017
«Interno Esterno. Intervista a Cosimo Schinaia»
INTRODUZIONE : Una bella intervista di Doriano Fasoli a Cosimo Schinaia sul suo ultimo libro “Interno-esterno-sguardi-psicoanalitici-su-architettura-e-urbanistica”, alpes editore,Roma-2016. Gli interrogativi relativi alle implicazioni dell’ambiente non umano per il pensiero psicoanalitico abbracciano il rapporto con l’architettura, la costruzione del mondo, le migrazioni, il tema dei confini. (Silvia Vessella)
letteratura.blogspot.com – 14 gennaio 2017
DORIANO FASOLI
Cosimo Schinaia è psichiatra, già Primario Direttore presso il Dipartimento di Salute Mentale di Genova, psicoanalista, membro ordinario con funzioni di training della Società Psicoanalitica Italiana e Full Member dell’International Psychoanalytical Association. Ha scritto numerosi articoli scientifici su riviste italiane ed estere e saggi in raccolte. Tra i suoi libri ricordiamo: Dal manicomio alla città. «L’altro presepe» di Cogoleto, Laterza, Roma-Bari, 1997; Il cantiere delle idee, La Clessidra, Genova, 1998; Pedofilia pedofilie. La psicoanalisi e il mondo del pedofilo, Bollati Boringhieri, Torino 2001 (tradotto in inglese, spagnolo, portoghese, francese, polacco e tedesco); Il dentro e il fuori. Psicoanalisi e architettura, Il Melangolo, Genova 2014 (tradotto in inglese). Il suo ultimo libro Interno Esterno. Sguardi psicoanalitici su architettura e urbanistica, edito da Alpes Italia nel 2016, è attualmente in traduzione in spagnolo.
Doriano Fasoli: Dove e quando è nato questo raffronto fra psicoanalisi, architettura e urbanistica?
Cosimo Schinaia: La necessità di un contatto e di una contaminazione feconda delle discipline psicologiche, e specificamente la psicoanalisi, con l’architettura e l’urbanistica ha radici profonde e rimanda agli sguardi di me bambino a Taranto, rivolti alle abitazioni che direttamente davano sui vicoli della città vecchia, il luogo dove sono nato. In via Cava, una delle vie più antiche, dove si trovava l’asilo infantile che frequentavo, si potevano scorgere le stanze in cui vivevano, promiscuamente ammassate, famiglie numerose, e fin d’allora avvertivo la sconnessione tra l’intenso e orgoglioso anelito alla pulizia e all’ordine e all’armonia domestica degli abitanti, bambini compresi, e l’impossibilità di una loro accettabile realizzazione, a causa della ristrettezza e dell’inadeguatezza anche igienica degli spazi abitativi.
Quelle immagini mi sono tornate in mente quando, durante la mia esperienza come direttore di un ospedale psichiatrico (quello di Cogoleto e poi delle strutture residenziali di Quarto a Genova), quelle primitive e ingenue intuizioni hanno trovato conferma nel prendere atto delle contraddizioni tra spazi che avrebbero dovuto essere di contenimento emotivo ed affettivo e che invece sono diventati spazi di imprigionamento, di esclusione, di azzeramento della libertà. Una porta chiusa a chiave resta sempre una barriera obiettiva e invalicabile. Se una porta equivale a un muro e non a un varco comunicativo, ciò introduce una grave alterazione dei significati degli spazi e degli usi, un’ambiguità semantica che può caricarsi di significati negativi e distruttivi insospettabili.
Sono stato l’ultimo direttore dell’ospedale psichiatrico di Cogoleto e in un libro (Dal manicomio alla città. L’altro presepe di Cogoleto, Laterza, 1997) ho evidenziato specificamente come gli aspetti strutturali rendessero vane le intenzioni terapeutiche, per cui, quei falansteri potevano soltanto essere chiusi, facendo nascere, al loro posto, comunità terapeutiche adeguate allo scopo primario, quello della cura. Il modello che propongo per queste comunità è quello del convento con il percorso che va dalla cella, luogo massimamente privato e consacrato allo studio, al raccoglimento e al riposo notturno, al chiostro che, mettendo in contatto il coperto con lo scoperto, funge da deambulatorio e da riparo ed è luogo di conversazione sommessa e intima, di meditazione silenziosa ma collettiva. Quindi si giunge alla chiesa, luogo di comunicazione ritualizzata, poi al refettorio, luogo dello scambio ancora ritualizzato ma meno formalizzato, infine alla sala capitolare, dove si svolgono le assemblee dei monaci, uno spazio più libero, in un certo senso preludio di una socialità che prefiguri l’esterno, l’uscita mondana dal monastero verso l’aperto della piazza. Si tratta di utilizzare elasticamente diverse partizioni spaziali, in modo da permettere ai diversi linguaggi un’espressione non irrigidita, non irreggimentata a priori da ricettacoli privi di duttilità, consentendo potenzialità espressive e comunicative multiple e liberamente interscambiabili.
Nel mio ultimo libro Interno Esterno, cerco di far vedere come anche gli attuali servizi sanitari, ospedali civili, ambulatori, non rispondano architettonicamente e simbolicamente alle esigenze del cittadino malato e anzi spesso non le riconoscano e non le rispettino. Il discorso ovviamente si apre alle case, alle città, alle modalità di esistenza via via diventate più complesse, ma non sufficientemente riconosciute, interpretate e rispettate da un’architettura e un’urbanistica che dovrebbero avere a cuore il benessere delle donne e degli uomini e che invece troppo spesso propongono progetti sensazionalistici che devastano il territorio, invece che trasformarlo creativamente in relazione alle modificazioni storiche dei bisogni materiali e psicologici dell’uomo.
In particolare, grazie alla mia lunga esperienza di psicoanalista, mi soffermo sulla stanza di analisi, sulla partizione degli spazi, sulla luminosità, sugli arredi, sulla distanza tra lettino e poltrona, tutti elementi che entrano significativamente nella costruzione del setting analitico e, quindi, nella relazione analitica, evidenziando come attualmente la presenza di un arredamento certamente sobrio, ma che testimoni anche gli interessi estetico-culturali dell’analista, non rappresenti più una situazione da evitare accuratamente come in passato. Le mie annotazioni, ovviamente, non intendono proporre un modello architettonico di stanza d’analisi, perché mi rendo conto che si possa correre il rischio che eccessive semplificazioni mettano in secondo piano l’originalità, l’unicità di ciascuna stanza di analisi, così come l’integrazione dei dati spaziali e percettivi con il mondo interno del paziente e la specificità di quella relazione analizzando-analista.
Itaca, la mitica Itaca… Lei inizia da là, dalla sua esperienza di emigrante, per quanto privilegiato, da Taranto a Genova. Chi è il migrante?
Emigrare vuol dire entrare in contatto con il nuovo, con l’ignoto, con l’altro da sé, farsene attraversare senza farsi assimilare, senza farsi annichilire; vuol dire conservare ben salde le proprie radici senza farsi però risucchiare dall’identità originaria, senza evitare la fatica del lavoro di trasformazione che porta a separarsi dall’ovvio, dallo scontato di troppo facili e fisse appartenenze. Si tratta di mettere in atto le necessarie acrobazie per tollerare e magari valorizzare un’ambivalenza tanto insuperabile, quanto feconda, restando, come un funambulo, in equilibrio instabile sul crinale che separa sicurezza da insicurezza, noto da ignoto, riconoscimento da spaesamento, identificazione con l’origine da identificazione con lo straniero.
Il migrante è per sua natura eccentrico, munito di diverse appartenenze, ma non appartiene in verità a nessuno. È partecipe in contemporanea di diverse storie, diverse tradizioni, ma nessuna di queste lo identifica pienamente. Questo continuo andirivieni esistenziale lo rende forse più libero, ma si tratta di una libertà sofferta, sempre a rischio del ricatto di una sicurezza il cui prezzo possa essere la rinuncia a parti significative di sé per non sentirsi fuggitivo, esule, espatriato, privo di un’identità riconosciuta.
Una poesia di Jorge Luis Borges, «Il ritorno» (Fervore di Buenos Aires, 1923), descrive splendidamente le sensazioni del ritorno al paese di origine, dove alla persistenza di spazi esterni immutati si contrappone una realtà mutata nell’interiorità:
Alla fine degli anni dell’esilio
Tornai alla casa della mia infanzia
Ed ancora mi è estraneo il suo spazio.
Le mie mani hanno toccato gli alberi
come chi accarezza qualcuno che dorme
ed ho ripetuto antichi sentieri
come se recuperassi un verso dimenticato
[…].
Che caterva di cieli
abbraccerà tra le sue mura il patio,
[…]
e quanta friabile luna nuova
infonderà al giardino la sua tenerezza,
prima che torni a riconoscermi la casa
e di nuovo sia un’abitudine.
È probabile che la mia nascita a Taranto, città pugliese che fu capitale della Magna Grecia, e che dal centro del golfo guarda quella porzione di Mediterraneo che prende il nome di Mar Jonio, abbia favorito la costruzione di una vita professionale posta al crocicchio di differenti specializzazioni ed interessi. Ed è altrettanto probabile che Genova, dove sono giunto per interessi lavorativi, sia diventata la mia Itaca per una sorta di ritrovamento e riconoscimento delle mie radici. Genova è, infatti, anch’essa una città marinara, superbamente adagiata su un grande porto, posta al centro di un golfo bagnato dal Mar Ligure e all’interno di una stretta regione che confina con la Francia.
Identità, appartenenza, confini geografici, fughe necessarie. Come può l’individuo orientarsi nel suo cammino?
La stella polare credo che possa essere rappresentata dal sentire la propria identità non come un dato a priori, qualcosa di immutabile e fortemente determinato e determinante, ma come una struttura psicologica altamente plastica, che riesca a contenere in sé le esperienze originarie e si lasci modellare dalle nuove, in un continuo lavoro di elaborazione; una struttura che pur restando identica continui a cambiare. Identità e cambiamento vanno visti e vissuti come polarità, estremi di un continuo lavoro di tessitura e ritessitura che possa garantire la stabilità attraverso tutte le trasformazioni implicite nel vivere. Mi viene in mente che Plutarco nelle Vite parallele narra della vicenda della triremi, la nave Argo, con cui Teseo rientrò ad Atene, vittorioso sul Minotauro, salvando, con l’aiuto di Arianna, tanti giovani destinati al sacrificio. Gli Ateniesi, liberati dal pesante tributo di sangue, tributarono all’eroe i massimi onori e vollero mantenere la sua barca quale esempio delle più grandi virtù. Ma come conservare nel tempo qualcosa che inevitabilmente sarebbe deperito? Lasciarla andare in rovina pur di preservarne l’identità originaria? Farne una copia che ne avrebbe messo in discussione l’autenticità? La saggezza greca scelse di sostituire, una alla volta, quelle parti del legname che andavano invecchiando con nuovi assi, fino al punto che poco rimase dell’originale mitica triremi, ma per gli Ateniesi la barca era sempre la stessa perché la sua identità profonda si era mantenuta nonostante i cambiamenti, al punto di poter vivere gloriosamente fino ai tempi di Demetrio Falereo. Questa storia c’interroga su come noi tutti esseri viventi e le nostre costruzioni (anche scientifiche, teoriche) abbiamo bisogno, per sopravvivere e durare nel tempo, di un continuo e paziente lavoro di raccordo tra cambiamento e identità.
Ed è necessario camminare?
Il movimento è stato da sempre valutato come indice di vitalità, di evoluzione, di progresso. Dal pneuma di Aristotele, il soffio che identificava l’anima e metafisicamente l’anima con la vita, contenuto nello sperma e capace di indurre nel nascituro l’eidos, la forma, al panta rei di Eraclito, che affermava che: «Non si può discendere due volte nel medesimo fiume e non si può toccare due volte una sostanza mortale nel medesimo stato, ma a causa dell’impetuosità e della velocità del mutamento essa si disperde e si raccoglie, viene e va». Altrove tuttavia Eraclito sottolineava che v’è un logos, sottostante a questo continuo mutamento, un’armonia profonda che governa in modo oscuro e inconoscibile la perenne dialettica fra contrari, che provoca il divenire perpetuo degli enti sensibili. Ricordo che psiche per i Greci significa ‘soffio rinfrescante’ e che tale significato si ritrova anche presso gli Ebrei, come testimonia questo versetto della Genesi: «Il Dio eterno formò l’uomo dalla polvere della terra, egli soffiò nelle sue narici un respiro di vita e l’uomo divenne un essere vivente».
Molto più tardi Lamarck concepì la vita come l’accumulo e l’interiorizzazione continui e progressivi dei movimenti dei fluidi nei solidi, sotto la forma iniziale di un tessuto cellulare. D’altronde, se pensiamo a come i futuri genitori avvertano l’attività motoria spontanea del feto attraverso la parete uterina come sinonimo di vita e di benessere, che va di pari passo con il giudizio di sanità che viene dato dai medici e a come, al momento del parto, sia il pianto del neonato conseguente ai primi movimenti respiratori a segnalare l’inizio della vita sociale del lattante, ci rendiamo conto dell’enorme significato non solo organico, ma simbolico e culturale che il movimento viene ad assumere.
Il piccolo animale, il bambino, ha organicamente tanto bisogno di movimento in termini assoluti e profondi, quanto del dormire e del mangiare. È necessario che si agiti, che gridi, che respiri violentemente, che si lasci andare alle attività esplosive del gioco. Essenzialmente libera e priva di obiettivi specifici, l’attività motoria spontanea non è sostituibile con un corso di ginnastica o con l’allenamento a uno sport, perché è la sola che precisamente riesca a mettere in gioco tutti i muscoli del corpo in un utilissimo disordine. I primi uomini, partiti dalla Rift Valley, sono andati poi ad abitare l’universo intero e lo hanno fatto camminando. Il bambino mostra tutta la sua felicità quando dal gattonare passa al correre le prime volte dalle braccia della mamma a quelle del papà e ritorno.
Una volta che comincia a correre, non smetterebbe più, tanto il movimento gli dà gioia, sicurezza, sensazione di controllo del mondo esterno. Scrive Duccio Demetrio in Filosofia del camminare. Mettersi ed essere in cammino: «Non vi è un’espressione più facile da intendere. Più evocativa e simbolica, persino più sacra di questa. Nessuna è in grado, con la stessa immediatezza, di rappresentare la vita. In ogni suo manifestarsi. Nelle forme biologiche o storiche, in quelle collettive e, ancor più, nelle sfumature più intime e individuali della condizione umana».
In che modo l’architettura può farsi carico delle fantasie dell’uomo?
Il compito precipuo dell’architettura dovrebbe essere proprio quello di farsi carico delle fantasie, dei bisogni e dei desideri dell’uomo, che possa accoglierli e, proprio a partire da questi, possa progettare luoghi abitabili, siano essi case private, edifici pubblici, quartieri, intere città. Psicoanalisi e architettura possono incontrarsi nel pensare e progettare le strutture abitative quotidiane private e pubbliche in modo che la cura della sofferenza mentale, da parte degli psicoanalisti, e la ricerca sull’ambiente, da parte di architetti e urbanisti, collaborino, convergendo in una visione comune di quella dimensione abitativa in cui si situa il complesso e articolato intreccio di bisogni biologici e funzioni simboliche che dà origine a una determinata disposizione e utilizzazione degli spazi in relazione con un ambiente costruito sostenibile in una visone generale della relazione tra risorse, individuo e territorio.
L’ottica dell’esperto dovrebbe essere più attenta al lavoro sul campo, alla fenomenologia territoriale, all’immanenza degli insediamenti, alla lettura dei contesti, muovendosi elasticamente e delicatamente tra gli aspetti funzionali, estetici, simbolici, antropologici, ponendosi tra continuità e innovazione, evitando lo straordinario e il meraviglioso a tutti i costi e, quindi, l’indifferenza dell’oggetto architettonico rispetto al disegno urbano, e accostandosi creativamente all’ordinario, all’utile, al discreto.
Costruire in inglese si dice building, la desinenza ing indica un’attività progressiva. Le case non sono solo costruite, ma costruende. Nonostante l’atto concreto del costruire sia in un certo senso irreversibile, con il tempo cambiano; talvolta diventano più belle, talvolta si degradano. In ogni caso, però, i cambiamenti hanno conseguenze durature sui vissuti e i comportamenti di chi le abita. E ciò non dipende soltanto dall’intervento dell’architetto e dai materiali usati, ma anche dallo sguardo delle generazioni che si susseguono, dagli interessi che mutano. L’immenso cantiere dei nostri sguardi, che riflettono l’incompletezza che ci costituisce, costruisce, e decostruisce quanto è stato approntato dagli architetti e gli sguardi risente dell’influsso dell’ambiente, della cultura, della storia.
Doriano Fasoli
Vedi anche in Spiweb:
Cure per il creato – Dicembre 2015