
Salvador Dalí
Parole chiave: Ambiente, esame di realtà, umano, soggetto, disconoscimento
(In)attualità/4 Il mondo è finito. La Terra no
Manuale semiserio di sopravvivenza per chi ha capito troppo tardi che il mondo non è mai esistito davvero
Di Chiara Buoncristiani e Tommaso Romani
La retorica della fine del mondo ha ormai conquistato anche il pensiero teorico. O forse è sempre venuta da lì. Era inevitabile.
E se esagerare con il catastrofismo, come ci insegna il libro curato da Cosimo Schinaia (2025) può ostacolare risposte efficaci alla crisi ambientale, resta vero che non può esistere un mondo senza qualcuno che lo pensi, lo immagini, lo mitizzi, lo abiti col pensiero.
Eppure, oggi con un certo gusto apocalittico da ingegneri depressi, proliferano modelli sofisticatissimi per dirci che è ora di farla finita. Non solo col mondo, ma anche con la stessa idea di mondo. Almeno con questo concetto di mondo così convinto di essere l’unico possibile; davvero se finisce questo sistema-mondo finisce tutto? Siamo davvero fermi sull’idea che non ci sia niente in alternativa allo sfruttamento infinito della Terra previsto dalle nostre società capitalistiche? Secondo Bifo (2022) lo spazio psicologico sta divenendo coestensivo a quello ecologico nel senso della distanza tra la nostra capacità di immaginare il mondo e l’incapacità di immaginare la fine del capitalismo (Bifo).
In vista della Giornata Mondiale della Terra, le notizie che circolano confermano un orizzonte piuttosto cupo e di disconoscimento del fatto che il nostro Pianeta abbia risorse finite a fronte di brame di sfruttamento infinite.
Non c’è da stare allegri se, come spiega il Corriere della sera del 13 aprile “l’attuale Commissione europea, in carica fino al 2029, è l’ultima che potrà perseguire gli obiettivi per uno sviluppo eco-sostenibile”. Significa che dopo il tempo sarà scaduto. Almeno secondo gli scienziati.
La scienza manda segnali infatti d’allarme, ma l’economia e chi la guida pare voltarsi dall’altra parte. Un uragano di nome Helene, per fare un esempio apparso il 12 aprile sul Corriere della Sera, ha fatto chiudere il Centro Nazionale per le Informazioni Ambientali degli Stati Uniti, snodo chiave per l’accesso ai dati climatici (notizia del 12 aprile sul Corriere della sera) e nel frattempo, secondo l’indagine annuale che raccoglie le prospettive dei 4.701 amministratori delegati più influenti del mondo, il cambiamento climatico non rientra più tra le prime preoccupazioni delle multinazionali, finendo al penultimo posto, preceduto da volatilità macroeconomica, inflazione, rischi informatici. Dunque, la Terra ci sta dicendo qualcosa che non siamo in grado di riconoscere e ascoltare. La domanda che si impone è perciò semplice e un po’ brutale: uomo e mondo sono incompatibili? È questa la tragedia sommessa della modernità?
Alla fine, il sistema di pensiero occidentale ha prodotto se stesso, ma come un dispositivo autoreferenziale — un flusso di conoscenza che non riesce più a vedere con lucidità? Il nostro sistema di pensiero avrebbe inglobato a tal punto la realtà da aver cancellato in modo allucinatorio ogni segno che la Terra stia andando in una direzione diversa dalle nostre urgenze economiche immediate?
Lo avevano già detto i Sex Pistols nel 1977 con uno slogan: “No Future”. Tuttavia, non come slogan punk, ma come residenza psichica il “No Future” può essere interrogato, lasciando che ci apra ad alcuni cruciali interrogativi. Da psicoanalisti dobbiamo chiederci quali siano diventati gli organizzatori del senso in questo periodo che ha come orizzonte privilegiato l’Apocalisse. Il punto è infatti che questa fine del mondo, a livello psichico, consiste nella perdita dell’accordo tra il pensiero umano e l’essere della Terra. Un disaccordo che sancirebbe la fine di ogni possibilità di fare previsioni sensate e attendibili usando la nostra mente.
La domanda che ci poniamo è se questo disaccordo non sia esso stesso già diventato la condizione di possibilità di un nuovo pensare tipico di quest’epoca. Ci abitiamo già dentro? Ci pensiamo da lì, mentre la Terra sembra reagire alle nostre azioni mandandoci segnali di cataclisma?
Sta di fatto che il catastrofismo non è più un genere letterario, ma comincia a sgomitare nella semiosfera pretendendo attenzione, come se volesse configurarsi come l’unico spazio abitabile dell’immaginario.
Del resto, Günther Anders già nel 2007 scriveva serissimo: “l’assenza di futuro è già iniziata”.
Miti, narrazioni e superstizioni contemporanee
Visto che non siamo capaci di ascoltare l’allarme della scienza, sta tornando in primo piano un antico modo di dare senso al mondo: il Mito, con ha la sua versione moderna nella narrazione. Si tratta di quell’arte povera con cui ci arrangiamo a produrre significati quando la ragione, onestamente, alza bandiera bianca. Già Kant spiegava che la fine del mondo non sia pensabile dalla ragione, ma che al tempo stesso non sia possibile non pensarci.
E’ a questo punto che l’epistemologia comincia a travestirsi da storytelling, da mitopoiesi industriale, da industria culturale del senso temporaneo, facendo apparire Kant e le categorie che ci consentirebbero di usare la ragione per comprendere il mondo come teorie invecchiate male. E questo nonostante la filosofa Catherine Malabou stia provando a ringiovanirle rilanciandole attraverso il concetto di epigenesi delle forme del pensiero.
Dopo la morte del concetto di Dio nell’Ottocento, quello di Anima ha perso colpi nel XX secolo e si è portato dietro la crisi dell’idea di Uomo. Ora tocca a quella di Mondo. E così abbiamo chiuso con le tre idee trascendentali della critica della ragion pura. Dio, Uomo, Mondo.
Senza rimpianti.
Ma se il Mondo, il concetto di Mondo, muore come trascendenza, la terra rinasce come soggetto politico, che ha dei “tipping point”, che si afferma come “persona morale”, al limite anche come hashtag impegnato. Un famoso meteorologo, Luca Mercalli, ha scritto ultimamente nella prefazione di Gaia (Latour 2025): “Homo Sapiens: esperimento fallito. La geostoria riprende i comandi. Riproverà con gli scarafaggi: c’è ancora miliardo d’anni a disposizione” (p.9).
Nel frattempo, l’immaginario contemporaneo vive sospeso tra due horror vacui:
- Il mondo senza uomini.
- Gli uomini senza mondo.
Oggi, è finita così, riusciamo ad immaginare il futuro solo nella fantascienza: che poi è una versione pop della metafisica. Questo in sostanza il quadro che si apre per l’immaginario contemporaneo. Dal quale emergono ed emergeranno i nostri fantasmi, gli operatori semantici.
Da un lato abbiamo l’immagine potente di un mondo senza uomini e dall’altra l’immagine altrettanto potente di un’umanità senza mondo. Le storie sci-fi dell’immaginario collettivo negli ultimi anni non fanno altro che oscillare tra questi due universi possibili. Tutti quei film che immaginano la catastrofe nella quale l’umanità quasi si estingue e il mondo rinasce: il pianeta delle scimmie, è solo il primo esempio. E gli altri che raccontano di un umano senza mondo: da Mad Max, versione psicotica, ai viaggi nello spazio tipo Interstellar, versione disturbo schizoide.
Anche nei paradigmi filosofici contemporanei entrambe le versioni sono ben frequentate. Ne è un esempio la corrente del cosiddetto realismo speculativo che pensa ad un mondo senza uomini. Ma anche Bruno Latour, che nel suo ultimo importante e già citato lavoro ci parla di Gaia e prevede uno scontro tra due gruppi di umani: da una parte “i moderni” (i 4701 Ceo e i loro seguaci…), dall’altra “i terreni”, quelli che saranno riusciti a riadattarsi alla Terra. La guerra di Gaia secondo Latour non sarà un conflitto sullo stato presente o futuro del mondo ma sarà una guerra di mondi.
Un altro pensatore da mondo senza uomini è il Quentin Meillassoux di Dopo la finitudine. Dopo aver rotto con la filosofia del linguaggio, onnipresente nel Novecento, Meilassoux prova a pensare ad un reale non umano e ad una materialità pura e pone l’ipotesi epistemologica di un mondo anteriore all’umano, ad ogni esperienza umana e soprattutto alle nostre descrizioni. Il suo grande nemico è il correlazionismo, la correlazione pensata per così dire come “necessaria” tra mondo e categorie con cui lo comprendiamo: ovvero l’affermazione di una presupposizione reciproca tra essere e pensiero.
Altri pensatori, e la psicoanalisi sarebbe d’accordo con questa posizione, ritengono che noi abbiamo accesso alla co-relazione e non ad uno dei due termini (pensiero e mondo) presi isolatamente.
Il grande nemico di Meillassoux è Kant (che invece Catherine Malabou cerca di difendere, o resuscitare…). Kant avrebbe condotto la filosofia lontana dal “Fuori”, rinchiudendoci nella gabbia narcisistica del soggetto.
Secondo Meilassoux, Kant avrebbe “psicotizzato” la metafisica, trasformandola in una sorta di allucinazione autistica.
Inutile dire però che proprio questa operazione kantiana abbia avuto fortuna tra i figli e nipoti del linguistic turn, più o meno lacaniani, che hanno attribuito una grande attenzione al “Fuori”, proprio in quanto escluso.
L’argomento di Meillassoux è quello dello statuto di verità degli enunciati che derivano da stati di cose prodotti prima dell’arrivo della specie umana. I cosiddetti “archifossili”. Quello che c’era prima che l’uomo arrivasse sulla terra. Qui la Malabou ha ragione però, rispetto alla questione dell’origine, quando nota come in Dopo la finitudine non si faccia riferimento alcuno alle argomentazioni di Derrida, che da decostruzionista farebbe scacco matto a ogni ipotesi sull’origine e le “architracce”. Effettivamente imbarazzante il silenzio.
Il punto è però che questo Grand Dehors sembra, senza uomini, una landa desolata, una terra glaciale sostanzialmente morta.
Anche Shaviro osserva che la materia per poter esistere in sé (fuori correlazione) deve per forza essere “morta”, il che finisce per reintrodurre proprio quell’eccezionalismo umano che Meillassoux pensava di eliminare. Ovvero: la negazione del punto di vista umano sarebbe il prerequisito di cui il mondo avrebbe bisogno per esistere. L’esperienza umana che si vorrebbe eliminare, sembra essere super valorizzata proprio dalla stessa operazione che vorrebbe eliminarla. Detto altrimenti: un antropocentrismo al contrario è comunque un antropocentrismo.
Fin qui la prima ipotesi apocalittica. Uomo scompare, Terra resta.
Nella seconda versione prende la forma di un uomo senza più bisogno di negoziare con la Terra. Una correlazione tra essere e pensiero che si sta oggettivando in una mega macchina di impatto planetario e che vede nell’Intelligenza artificiale sola la prima delle sue figure. La fine probabilmente non arriverà con un mondo senza di noi, piuttosto l’entropia e il caos finiranno con il portare la frammentazione fin dentro al reale. Facendo con ciò saltare verità, spazio-tempo, limiti. Noi senza mondo.
Alla fine, non rimarrà più niente oltre gli esseri umani?
Dentro questa seconda versione c’è infatti la cosiddetta singolarità, teorizzata dai guru della Silycon Valley. È la discontinuità antropologica. Biologia e tecnologia si fonderanno creando un super organismo, una sorta di coscienza globale macchinica. È una versione quest’ultima degli uomini senza mondo, nella quale però la tecnologia ci avrà, a crederci, salvato. Diverremo infine configuratori di mondi?
In questo spazio intergalattico ci chiediamo se l’umanità potrà essere pensata come virtualità umana, conservata sotto varie forme. L’antropomorfismo in questa partita è importante. Che facciamo? Immaginiamo che un’arcaica tendenza a inciampare della psiche umanoide minacci ancora di fare irruzione nei sogni, nelle malattie, nei lapsus del sistema? Non sarebbe una sorta di inconscio? Ancora. Attraverso gli strappi che ad esempio non smettono di aprirsi nel tessuto quotidiano, filato o meno dall’intelligenza artificiale, composto o meno di algoritmi.
Non smette di tornare quel sostrato pre-cosmologico di tutte le differenze che continuano a comunicare tra loro in modo caotico. Cosa farà “buco” in futuro tra i nuovi concatenamenti socio-tecnici?
Che ne sarà di quell’oscura latenza antropomorfa che continua a strisciare nelle libere connessioni, nei sintomi, nei glitch degli algoritmi?
Non sarà forse l’ultimo inconscio a cui non potremo sfuggire? Forse che il mondo non sia mai esistito davvero. Che l’idea di mondo sia stato solo il nostro più riuscito prodotto di marketing metafisico. Un brand ontologico fragile, esposto alle intemperie del tempo e della tecnica?
E adesso?
Un finale apocalittico, solo per dare un’idea della spaventosa potenza di fuoco di questi toni: adesso, forse resteremo qui, a guardare il cielo nero dei server spenti, a chiederci se tutto questo sia stato solo un sogno di cattiva qualità. Forse la vera fine del mondo è scoprire che non c’è mai stato nessun mondo da finire. Solo noi. Solo i nostri fantasmi. Solo la nostra ostinazione a voler chiamare “mondo” ciò che non è mai stato altro che un gigantesco errore di comunicazione.
Potere dello storytelling.