INTRODUZIONE: Un’intervista a Stefano Bolognini, neo eletto Presidente dell’IPA, la Società internazionale di psicoanalisi.
PARLA LO PSICOANALISTA ITALIANO ELETTO AL VERTICE DEGLI STUDIOSI FREUDIANI DI TUTTO IL MONDO
Una «casa comune» per gli psicoanalisti appassionati di Freud che si allunga da un continente all’altro e, di recente, ha inglobato la Cina e la Corea ed è arrivata fino in Iran. È la complessa e articolata realtà dell’Ipa, la Società psicoanalitica internazionale, fondata da Sigmund Freud nel 1910 a Norimberga, con più di 12 mila iscritti, riuniti da oggi in congresso a Praga. Appuntamento che ci riguarda da vicino perché la new administration dell’associazione per la prima volta vede alla presidenza un italiano, Stefano Bolognini, 64 anni, emiliano, laureato in medicina, psichiatra, psicoanalista dal 1980 (vicepresidente la svedese Alexandra Billinghurst). Pressoché sconosciuto al grande pubblico nel nostro Paese, ma notissimo all’estero grazie ai suoi 160 lavori scientifici e ai manuali per gli addetti ai lavori tradotti in varie lingue, iraniano compreso (editi in Italia da Bollati Boringhieri), lo psichiatra, sposato con tre figli (e già nonno) di casa a Bologna ma sempre in giro per il mondo, raggiunto telefonicamente a Praga, non nasconde la soddisfazione.
Professore un riconoscimento importante, ma la scelta di un italiano è una sorta di cattedrale nel deserto, l’eccezione in un panorama mediocre o, al contrario, esprime l’eccellenza dell’Italia in questo campo?
«È assolutamente vera la seconda ipotesi: noi per la ricerca non possiamo contare su fondi statali (pochi per tutti, in realtà) né, meno che mai, sugli sponsor (le case farmaceutiche ci ignorano perché le nostre cure riducono il ricorso agli psicofarmaci, o rischiano di ridurlo). Gli studi che realizziamo sono finanziati da noi stessi, dall’attività clinica, nascono dal “lettino”. Una ricerca indipendente e fruttifera: abbiamo pubblicato molto su riviste nazionali e internazionali. E per evitare che quanto edito in italiano sia penalizzato dalla barriera linguistica, ora pubblichiamo anche un Annual, un estratto in inglese degli studi più significativi usciti nel corso dell’anno sulla Rivista italiana di psicoanalisi. Iniziativa che ha avuto un grande successo all’estero. Insomma, l’Italia in questo campo è una voce autorevole».
Come vede l’evoluzione delle varie scuole psicoanalitiche nel mondo nei prossimi anni? Continuerà il predominio di quella americana?
«Il prossimo congresso dell’Ipa (acronimo di International Psychoanalytical Association, ndr) nel 2015 sarà a Boston; l’America conta ancora tanto in questo campo, è vero, ma non dimentichiamo che alle quattro grandi scuole psicoanalitiche del mondo, l’inglese, la francese, la nordamericana e l’argentina, a partire dagli anni Ottanta si sono aggiunte l’italiana, la brasiliana e la tedesca, che hanno espresso e stanno esprimendo una grande creatività. È un mondo in fermento dove cresce la certezza che la nostra epoca offra opportunità positive straordinarie, ma esponga anche a rischi evidenti di confusione identitaria; basta pensare ai vissuti di onnipotenza favoriti dalla dimensione virtuale. Sono inoltre convinto che bisogna investire molte energie nella riapertura di un dialogo fra psicoanalisi e psichiatria; ancora oggi a livello di insegnamenti universitari la presenza psicoanalitica è ignorata».
Lei in Italia è quasi sconosciuto, mentre gode di chiara fama una «rosa» di suoi colleghi che hanno scritto libri divulgativi e sono ospiti fissi di talk-show. Ma questi psicoanalisti televisivi svolgono una funzione positiva?
«Credo che si tratti di buoni divulgatori, più “commestibili” dello psicoanalista classico che fa clinica e ricerca, ma utili perché aiutano a capire che esiste una vita psichica, che una visione psicodinamica degli eventi è necessaria. Sembra un banalità, ma una consapevolezza di questo genere non è ancora diffusa. Il rischio è l’inflazione, l’eccesso di “psicanalizzazione” che diventa banalità: basterebbe imitare l’ottimo lavoro di divulgazione fatto alla fine degli anni Sessanta da personaggi come Antonio Miotto (psicologo, scomparso nel 1997 che collaborò a lungo con il Corriere e con Oggi, ndr)».
Lei ha scritto diversi libri «tecnici» rivolti a chi fa il suo lavoro, tra questi «L’empatia psicoanalitica» e «Passaggi segreti», ma anche due racconti, l’ultimo, «Lo Zen e l’arte di non sapere cosa dire», uscito nel 2010 ancora per Bollati Boringhieri. Che cosa lo ha spinto a diventare scrittore?
«Mi piaceva l’idea di aggirarmi in argomenti della vita quotidiana. Sono racconti che scaturiscono dalla mia attività di analista e che parlano di gente comune. Di una normalità che è sempre più complessa di come ci appare. Prendiamo l’esempio del bar, luogo che tutti noi frequentiamo, apparentemente con indifferenza. Ma l’ingresso nel bar non è mai un evento neutro sotto il profilo psichico: c’è l’incontro con il barista che, se funziona, si rivela un vero e proprio micro-transfert, c’è la scelta della postazione, più meno lontana da certe persone, che è spia dei nostri desideri di relazione e di molto altro ancora».
Che cosa cambierà nella sua vita con questa nuova carica?
«Senza dubbio viaggerò più di quanto abbia fatto finora anche perché la realtà dell’International Psychoanalytical Association è sempre più globalizzata: in grande ascesa nel mondo asiatico e nel Nord Africa, soprattutto in paesi di lingua francese, come la Tunisia e il Marocco. Trovarsi a capo di un’istituzione in buona salute non è facile di questi tempi e mi dà una grande carica. Ma al centro del mio lavoro resta l’attività clinica, a contatto con la vita interna dei pazienti e la mia. Con i “passaggi segreti” della psicoanalisi che aprono porte interne e consentono trasformazioni altrimenti impossibili».
Riesce a coltivare qualche interesse al di fuori della psicoanalisi?
«Oltre all’amore sconfinato per i cani, purtroppo adesso non posso averne perché sono spesso via, colleziono disegni antichi, per la precisione dal Cinquecento all’Ottocento. Una autentica passione che è andata crescendo negli anni. La mia raccolta personale oggi ha una certa consistenza e, appena posso, cerco di incrementarla».
Stefano Bolognini rimarrà presidente dell’Ipa, carica ricoperta anche da Carl Gustav Jung, insieme alla vicepresidente Alexandra Billinghurst.
Porciani Franca