Introduzione: A Lavarone dal 13 al 18 luglio gli psicoanalisti hanno incontrato filosofi e musicisti “un coro di appassionati del silenzio” come definisce Alberto Schon i partecipanti relatori al Convegno che quest’anno affronta per “Le frontiere della psicoanalisi” il tema de “Il silenzio”. L’Unità ce ne offre un interessante assaggio pubblicando una parte del lavoro di Nicoletta Polla-Mattiot. (Silvia Vessella)
l’Unità 14.7.12
Il silenzio, lasciamolo parlare
Dire o non dire? Filosofi, musicisti e psicoanalisti a congresso
Anticipiamo un brano tratto dalla relazione di Nicoletta Polla-Mattiot per l’incontro di Lavarone: oggi soprattutto gli artisti ci insegnano la forza emotiva ed «ecologica» del tacere
di Nicoletta Polla-Mattiot
LAVARONE. AFFACCIARSI AL SILENZIO E TENTARE DI ESPRIMERLO (PARLARNE, CONDIVIDERNE L’ESPERIENZA) È UN PARADOSSO NELL’ESATTO SENSO ETIMOLOGICO: contrario all’opinione corrente, al buon senso e anche all’abitudine, alla prassi, al «così fan tutti» in un mondo che ha eletto la comunicazione a parametro dell’esistenza. Ciò che non è comunicato, semplicemente non è. Invece parliamo del silenzio, vuoto, nulla, assenza, sospensione (ed eccezione) dalle normali regole d’interazione. Facciamo di più: azzardiamo un paradosso sul paradosso, e cioè che il silenzio sia un’efficace forma di comunicazione e relazione. Uno strumento linguistico, espressivo e dialogico. Poiché il paradosso è la premessa, si comincia (e si finirà) con due esempi e due ipotesi paradossali.
Il primo è il visionario racconto di Douglas Coupland in Generazione A: la storia di un venditore di silenzi, che fonda un sito di «suonerie da camera delle celebrità». Per 4 dollari e 99, offre ai suoi clienti la possibilità di scaricare un’ora di silenzio, registrata nella camera di tutta una serie di personaggi, per lo più cantanti famosi, da Mick Jagger a Lou Reed. Intervistato sugli sviluppi del suo progetto, annuncia un grande ampliamento del business: il lancio di una nuova linea di suonerie, chiamata Notturni: panorami acustici serali. Perché spiega c’è differenza fra il silenzio diurno e il silenzio notturno. Immaginate di trovarvi in una stanza completamente buia con gli occhi chiusi. Poi aprite gli occhi. «È buio esattamente come quando hai gli occhi chiusi, eppure è un buio completamente diverso da quello di prima». Un meraviglioso imbroglione che però ci suggerisce, con la sua intuizione-truffa, che non c’è un solo silenzio, ce ne sono diversi, e possono essere diversamente percepiti. C’è un silenzio a occhi e orecchie chiuse e un silenzio a occhi e orecchie aperte.
Il secondo esempio è un’esperienza artistica. Protagonista Marina Abramovic e la sua performance al Moma di New York: The artist is present. L’assunto è semplicissimo: l’artista è presente, a disposizione del pubblico, totalmente affidata al suo sguardo e ai suoi tempi. Ciascuno può sedersi davanti a lei quanto vuole, tre minuti o tre ore, in silenzio. Abramovic, che pure è avvezza a lavorare con fuoco, lame, serpenti, sangue, brandelli di carne, lesioni autoinferte, dichiara: «Sarà la performance più radicale della mia vita». E per prepararsi si impone «una preparazione rigorosissima: non parlerò per tre mesi». La mostra ha un successo enorme, un fotografo documenta le reazioni della gente: moltissimi piangono. Un po’ come dentro un gioco rovesciato del silenzio, dove ci si guarda negli occhi e scappa da ridere. «Mentre hai lo sguardo fisso su di me spiega l’artista cominci a guardare te stesso. Io sono una scintilla, uno specchio: le persone prendono coscienza della loro vita, della loro vulnerabilità, del loro dolore… Piangono per se stesse».
Lacrime, emozione, risa. Difficilmente il silenzio lascia indifferenti, lasciarlo «parlare» significa lasciare le emozioni libere di affiorare.
Ma come e con che cosa si ascolta il silenzio? Sarebbe bello fare come il pittore Plasson che dipinge il mare con il mare. Enormi tele bianche che conservano la memoria invisibile di pennellate d’acqua. Allo stesso modo poter evocare la consistenza acustica del silenzio per semplici associazioni. Riuscire a sentire la grana soffice di un silenzio ovattato, un po’ ottundente, un silenzio di culla e di sonno, di passi felpati e ambienti protetti. E mettergli a fianco un profondo silenzio, che già allude e si sporge sull’abisso, interno ed esterno, e lascia intravvedere l’eco di remoti, sovraumani silenzi. Ci sono silenzi pesanti e silenzi leggeri, silenzi irritanti e silenzi carezzevoli, silenzi avvolgenti e assordanti, silenzi densi (che sembrano potersi toccare) e silenzi rarefatti, silenzi taglienti (che attraversano, da parte a parte) e silenzi impenetrabili.
Come cogliere le differenze? Con quali strumenti? Esiste un organo del silenzio? Le orecchie non bastano. L’approccio è necessariamente sinestesico e ci riporta a un livello più profondo e insieme arcaico, a volte regressivo, di fusione dei sensi, a una dimensione pre-verbale, pre-razionale. Il silenzio ha un odore, un colore e un sapore oltre che un suono e un’immagine. Gli si possono prestare occhi, mani, tatto, palato. Quel che si ricerca è la percezione silenziosa dell’esserci e di tutto quel che ci sta intorno.
Dalla percezione all’emozione, qualsiasi stato di forte agitazione psichica, la passione, l’amore, la meraviglia, l’indignazione, la collera, la delusione cocente lasciano a bocca aperta, incapaci di esprimersi. Le emozioni forti agiscono da detonatore della congruenza grammaticale, la lingua si incespica, il pensiero si confonde, si finisce attoniti, ammutoliti, sopraffatti da quel che proviamo. Bello o brutto che sia, trascinante o devastante, esaltante o desolante. Ci sono regioni ineffabili per la loro profondità, positiva o negativa, dove le parole sono troppo strette, scomode, imperfette, logore, ripetitive per contenere «l’animo nostro informe».
PARMIGGIANI: UNA PAROLA SOVVERSIVA
Spesso possiamo solo dire con Montale «quello che non siamo, quello che non vogliamo». Racconta Pascoli che Ulisse, ormai vecchio, è colto dalla nostalgia del mare e riparte con i compagni antichi, lasciando Itaca ritrovata, per ripercorrere, a ritroso, l’itinerario dei suoi ricordi. Ascolterà di nuovo il canto delle Sirene, per riprovare il piacere terrifico della conoscenza e rifare la domanda che continua a guidare il suo errare senza fine: «Chi sono io?» Ma il passato mitico non torna e quando la barca raggiunge gli scogli desiderati e temuti, le Sirene restano mute e immobili. Ulisse è tutti noi e Ulisse è Nessuno. Eppure è proprio quel vuoto, quella perdita così umana di centralità e di senso, quell’interrogativo che resterà eternamente senza risposta, che ha la nostra forma: è il nostro essere nel cercare senza fine.
Chiudo con due riflessioni, paradossali. La prima di ecologia della mente. Si parla tanto di emergenza clima, risorse in esaurimento del pianeta. E se lo fosse anche il linguaggio? Se le parole, a forza di usarne e abusarne, nel continuo scialo verbale, si esaurissero? Come nel racconto di Jonathan Safran Foer e di Thomas, l’uomo che prima «parlava, parlava, parlava e non riusciva a tenere la bocca chiusa» e poi perde, via via, pronomi, aggettivi, congiunzioni, nomi, tutto. Ebbene la provocazione, l’esercizio di fantasia che vi chiedo è questo: se rischiassimo di esaurire il linguaggio, voi quale parola vi terreste cara, quale non sareste disposti a spendere tanto facilmente, quale vi terreste per ultima? Amore? Caro/cara? Voglio? Sì? No?
La seconda riflessione è che il paradosso è (anche) la strada della conoscenza. E ben lo spiega Claudio Parmiggiani come un’arma non è mai «un gesto di buona educazione, rassicurante, ottimista, salottiero, decorativo, ma un atto sovversivo». In questo sta la sua verità. Eversiva «perché non ha obiettivi, non serve a niente, non è in funzione di niente. È esistenza, pura esistenza. …Per la società è un assurdo, ma questo assurdo è dentro di noi e di questo assurdo noi abbiamo bisogno. Il termine sovversione oggi significa silenzio. Silenzio è una parola sovversiva ed è sovversiva perché è uno spazio meditativo».