il manifesto, 6 febbraio 2020
Alessandra Pigliaru intervista Lorena Preta
Mappe interiori della dislocazione
Introduzione: “Geografie della Psicoanalisi” interpreta le dislocazioni e formula mappe, tra i vari livelli della psiche, nel mondo di oggi, i cui confini progressivamente sono sottoposti a trasformazione. Lorena Preta, membro ordinario della Società Psicoanalitica Italiana e dell’I.P.A., responsabile del gruppo di ricerca SPI – Geografie della psicoanalisi-, nell’intervista di Alessandra Pigliaru approfondisce questi temi che sono stati anche oggetto del Convegno «L’inconscio post-coloniale. Geopolitica della psicoanalisi» che si è tenuto l’08/02/20 presso il Centro di Psicoanalisi Romano (Maria Naccari Carlizzi).
il manifesto, 6 febbraio 2020
Alessandra Pigliaru intervista Lorena Preta
Mappe interiori della dislocazione
Zone psichiche e luoghi sociali: Lorena Preta parla di «scienza del legame». Sabato mattina a Roma l’incontro «L’inconscio post-coloniale. Geopolitica della psicoanalisi»
In un presente complesso e di difficile decifrabilità, molti sono i possibili modi di lettura e i livelli di comprensione. Il dialogo tra diverse categorie critiche è certamente una risorsa capace, più di altre, di offrire congrue domande e ulteriori rilanci. In questa direzione fruttuosa è da intendere il convegno che si svolgerà sabato a Roma su L’inconscio post-coloniale. Geopolitica della psicoanalisi, (che porta il titolo del volume di Livio Boni, edito da Mimesis). L’evento si collega ad un progetto originale pensato e portato avanti da Lorena Preta, responsabile del gruppo di ricerca Spi «geografie della psicoanalisi» (tutti i dettagli nella scheda in calce, ndr). Autrice di numerosi saggi sul tema, abbiamo incontrato la psicoanalista nella sua casa romana per alcune domande.
Nel numero della rivista «Psiche» del 2008 compare l’espressione «geografia della psicoanalisi» con i relativi problemi della traduzione tra culture e tradizioni differenti e soprattutto gli effetti di questa intersezione, sia teorici che clinici. Come è cominciato questo progetto che sembra un esito ma è l’inizio di un nuovo percorso?
È cominciato da una specie di paradosso. La crisi della psicoanalisi in Occidente sembra avere diverse ragioni: sul piano clinico, per la presenza di tanti tipi di terapie e di altrettanti sviluppi teorici, e per un difficile dialogo con altre discipline. Nonostante questo, esistono luoghi in cui c’è una richiesta enorme di psicoanalisi, ci sono nuove scuole di formazione, come per esempio in Asia o nel mondo arabo e in quello maghrebino. Noi stessi con «Geografie della psicoanalisi» abbiamo tenuto un importante convegno in Iran. Mi sono chiesta come mai, nonostante il grande divario tra Oriente e Occidente, vi sia da parte di questi Paesi una così grande domanda di psicoanalisi. Sembra abbastanza evidente che da una parte abbiamo un soggetto occidentale frammentato, smarrito e disperso per il quale la domanda è essere aiutato a trovare qualche nucleo unificante; d’altra parte abbiamo invece un soggetto che soffre del controllo del gruppo sia famigliare che sociale o istituzionale e chiede un’emancipazione. Tutto questo fa pensare che la psicoanalisi sia ancora capace di interrogare il malessere sia individuale che sociale, sia pure non avendo più quell’elemento rivoluzionario del suo inizio storico, ovvero quando è riuscita a rovesciare l’idea stessa di sessualità, per la prima volta resa evidente anche nel mondo infantile, oppure quando ha ribaltato la convinzione di un Io sempre presente a se stesso di cui la coscienza sembrava padrona – mentre risulta solo una parte della dinamica psichica. Ciò per dire che, nonostante la trasformazione delle attuali condizioni, tali sommovimenti si sono depositati in maniera feconda per tutto il secolo scorso, lavorando anche dentro le discipline che all’apparenza non ne hanno tenuto conto. Il tipo di funzione non è più lo stesso e ha subito delle modificazioni anche il corpus teorico della psicoanalisi; eppure la domanda permane, ovvero quella di un aiuto ad affrontare ciò che Freud chiamava il disagio della civiltà. È importante il confronto con altre culture, altri miti fondativi, perché porta arricchimento alla psicoanalisi e alle culture stesse con cui entra in contatto. Si può definire la psicoanalisi come una «scienza del legame» sia tra i vari livelli della psiche che tra l’individuo e il sociale, l’individuo e il gruppo.
Se intesa come pratica, mai neutra, la psicoanalisi riesce a parlare al presente perché capace di attagliarsi ai diversi contesti materiali. Il termine «geografico» indicherebbe tuttavia confini territoriali.
I confini sono territoriali e culturali allo stesso tempo e la domanda è se trasferendosi in culture dissimili dalla nostra non possa succedere che la psicoanalisi stessa compia un’opera di colonizzazione, trapiantandosi nei diversi Paesi con tutto il retaggio filosofico e culturale della Vienna di fine Ottocento.
Per evitare il rischio di uno sguardo esotizzante, il lavoro deve essere allora di scambio, di reciprocità?
Certo, nei limiti in cui questo è possibile, oltretutto perché altrimenti l’incontro non risulterebbe fecondo e generativo. La visione geografica è in qualche modo più libera di quella storica, legata principalmente agli eventi, perché ridefinisce continuamente i confini. E la psicoanalisi lavora proprio su questi spazi tra le cose, sui margini. Non avvengono ai bordi tra conscio e inconscio per esempio le irruzioni nella vita quotidiana dei lapsus o nella vita notturna quelle dei sogni?. In questo senso uso il termine «cartografare» che risponde all’utilizzo di un modello. Bisognerebbe essere avvertiti che si utilizzano sempre dei modelli specifici quando descriviamo una situazione, e che i fenomeni subiscono delle continue trascrizioni e ritrascrizioni.
La ridefinizione mobile tiene conto dello statuto di una soggettività dislocata più che franta. In un suo saggio del 2018 che si intitola appunto «Dislocazioni» lei pone l’accento su questo. A differenza della rottura, la dislocazione prevede che le parti abbiano spostamenti di energie e di punti di intensità? Se sì, come si giocano queste istanze nell’epoca di una loro rideterminazione?
Nell’epoca del globalismo, la crisi non riguarda solo il soggetto occidentale ma è ormai trasversale. Si vive in una sorta di spaesamento che riguarda non solo la nostra percezione di noi stessi e della realtà esterna ma proprio i nostri corpi. Sono loro che subiscono attraverso le tecnologie le mutazioni più importanti. Siamo degli esseri protesici ormai, cioè pieni di apparecchi artificiali che fanno parte di noi e di cui non possiamo più fare a meno. Telefonini, trapianti di parti meccaniche nel corpo, la comunicazione virtuale che ci abitua ad un altro modo di metterci in relazione. La percezione stessa del nostro corpo risulta alterata, a volte il corpo è distante come nelle comunicazioni virtuali, oppure allo stesso tempo prepotentemente sulla scena. Questo eccesso di presenza compromette la capacità simbolica. Siamo confrontati continuamente con dei fatti senza avere il tempo di riflettere e assorbire quello che avviene. La metafora della dislocazione allo stesso tempo sembra possa descrivere il movimento che caratterizza queste nuove esperienze. Non descrive dunque solo disagio bensì una possibilità, una tensione.
«L’inconscio post-coloniale» – titolo del volume di Livio Boni che andrete a discutere – è al centro dell’appuntamento di sabato. Che cosa ha prodotto in termini di irriducibilità dell’esperienza e che altro si può fare?
Boni descrive con grande accuratezza storica i rapporti della psicoanalisi con il mondo post-coloniale, indagando sulla questione dell’interiorizzazione dei modelli coloniali nei paesi e nelle culture colonizzate. Questione che non è ancora chiusa e trova nuovi aspetti nella situazione attuale. Infatti le dinamiche indotte dal colonialismo sono ancora presenti e determinanti, basti pensare al fenomeno del terrorismo. Servendosi di un modello di indagine che fa interagire tra loro i testi o i contenuti delle diverse culture, intendendo non solo le varie mitologie fondative, gli aspetti culturali codificati, ma anche le mutevoli espressioni di ogni cultura nella contemporaneità, Livio Boni compone un quadro inedito che restituisce al colonizzato ma anche al colonizzatore la drammaticità della percezione di sé e dell’altro che possono aver sperimentato a quei tempi e tutt’ora, indagando sulla problematica più che mai attuale del nostro rapporto con la diversità. Gli autori e i Paesi che prende in considerazione dall’India di Bose e del contemporaneo Sudhir Kakar, alle analisi sul colonialismo in Algeria di Octave Mannoni, allo stesso Franz Fanon, alle analisi del mondo islamico di Fethi Benslama, compongono un quadro complesso che ridisegna non solo la mappa del mondo post-coloniale ma ne traccia percorsi e interconnessioni inedite.