AMOS GITAI
Parole chiave: Shoah, Psicoanalisi , memoria
Il lutto mancato della Shoah
Sarantis Thanopulos
Liliana Segre ha espresso recentemente la sua convinzione che tra non molto, con la scomparsa di tutti i sopravvissuti, il ricordo della Shoah sparirà dalla memoria collettiva e resterà confinato nei libri. Il rischio reale è che la Shoah diventi per gli gli ebrei un segno della loro solitudine. Un altro rischio, non meno importante, è che nella coscienza ebraica la Shoah da catastrofe avvenuta diventi sempre di più una minaccia terribile che viene dal futuro. La memoria di un evento passato richiede il suo lutto. Se è stato positivo per il fatto che non c’è più, se è stato negativo per le cose buone che ha danneggiato o distrutto (diversamente resta come fitta dolorosa nell’anima da cui bisogna distrarsi). L’elaborazione del lutto mantiene vivi dentro di noi l’evento positivo o le cose buone che un evento negativo ha colpito, li fa tornare in forme nuove nel presente, proiettandoli nel futuro. La memoria è sempre “vivente”: è passato che vive nel presente altrimenti non è memoria, ma un deposito di dati privi in sé di un significato soggettivo. Poiché nel suo nucleo centrale la Shoah è stata tanto disumanizzante da aprire un buco nella tela della nostra rappresentazione affettiva e mentale della realtà, ogni sua documentazione ha un effetto eccedente la nostra capacità di sconvolgimento affettivo catartico di fronte all’orrore. Una parte del dolore è restata senza alloggio in noi ed è diventata forza oscura estremamente destabilizzante. Per ritrovare un assetto di equilibrio psichico cerchiamo di significare impropriamente l’eccesso irrappresentabile di questa catastrofe attraverso altre catastrofi a cui riusciamo a dare un senso. Per questo quando parliamo della Shoah c’è sempre qualcosa nel nostro discorso che non torna. Un evento insensato resta sempre insensato, taglia fuori i sentimenti e il pensiero e in sé non può essere rappresentato e ricordato. Perché non continui a abitare dentro di noi come buco che ci minaccia e dal quale dobbiamo difenderci, col rischio ricorrente di deragliare, bisogna eliminare le condizioni che l’hanno determinato e colmare il vuoto erotico, affettivo e mentale che ha creato in noi. Più di ogni altro evento negativo nella storia umana la Shoah aveva bisogno, perché potesse far parte della nostra memoria, in modo non formale o rituale, di essere collegata al lutto delle cose importanti, irrinunciabili che ha cancellato. Solo la consapevolezza di ciò che si era perso, il riconoscimento del suo valore che restava vivo e la sofferenza per la sua mancanza ci avrebbero permesso di comprendere il nostro cadere nell’abisso. Di modo che, sopravvissuti, potessimo veramente riprendere a vivere. Il lutto per ciò che è stato distrutto con la Shoah non è stato mai compiuto.
L’Europa non è mai riuscita a vedere nello sterminio la sua automutilazione e a sentirla nella carne viva della sua esistenza. Vive da allora senza una parte di sé trapiantata (deportata) in Palestina. Avendo obliato emotivamente il trapianto, tratta l’Israele come altro da sé che ha sfortunatamente, colpevolmente danneggiato e con il quale la lega un obbligo di riparazione permanente. La riparazione dell’altro ha oscurato la riparazione di sé (la reintegrazione nel proprio senso di identità della componente ebraica). Ha girato pagina e ha creduto di vedere in Israele la prova vivente di una restituzione all’integrità dell’altro e di sé. Così che sul piano psichico nel suo desiderio di difendere Israele se sopravvive la ragione sanguinante dell’eros, è presente silenziosamente e fortemente anche un autoinganno: la convinzione che la mutilazione non ci sia mai stata, che tutto è tornato ad essere come prima. La tragedia continua del conflitto tra ebrei e palestinesi dimostra che così non è. Con la protezione dell’esistenza di Israele, l’Europa pretende di curare anche la sua integrità identitaria mutilata. Perciò la sua critica alla politica dei governi israeliani (spesso ragionevole e necessaria) è priva di tensione etica (perché non riconosce che dovrebbe essere rivolta in primo luogo a sé) e ambivalente. Gli ebrei di Israele, da parte loro, non sono mai riusciti a riconoscere, in modo sufficientemente profondo, che, indipendentemente dalle loro disparate provenienze, il nucleo originario della loro costituzione in uno Stato è la loro mutilazione dall’Europa. Non hanno, di conseguenza, potuto elaborare il lutto di una patria perduta in cui per tanti secoli sono stati (nonostante e anche attraverso le persecuzioni) parte importante del pensiero critico e della libertà culturale. Hanno sostituito l’elaborazione della loro condizione di orfani con il ritorno alla “terra promessa”, perduta millenni prima. Scelta umana, molto umana, ma problematica. Il lutto non elaborato ha contribuito a una decisione dalle conseguenze nefaste: processare Eichmann in Israele definendo la Shoah come un crimine contro gli Ebrei e non contro l’umanità, come aveva suggerito, invece, Hanna Arendt (trattata, una delle grandi ingiustizie del secolo scorso, come nemica del suo popolo). Si è persa l’occasione di vedere nella Shoah un atto di autodistruzione della civiltà, un suicidio dell’umano nato dall’identificazione con la morte. Un atto che impegnava tutti gli esseri umani nel lutto della loro umanità perduta: dopo la Shoah nessuno è “innocente”, immune al virus nazista della desertificazione psichica. La distruzione di sé attraverso la distruzione dell’altro, l’espulsione della nostra umanità fuori di noi per poterla calpestare e eliminare, non può trovare nella strage dei civili e dei bambini in Gaza una sua significazione. Perché la eccede. Tuttavia, attraverso Gaza la ferita di Auschwitz (l’orlo del vuoto che lo sterminio ha aperto nel tessuto vivo della nostra vita) rinsanguina. Se l’anestesia delle emozioni prevalesse sul dolore e la ferita, non curata, smettesse di sanguinare, lo spettro della Shoah potrebbe materializzarsi e colpire ancora giusti e ingiusti, ebrei e arabi, cristiani e musulmani, atei e religiosi.