il Tirreno Toscana – 5 nov 2015
Il dolore dell’analista. Chi aiuta chi sta male sta male più di tutti
INTRODUZIONE: intervista di Sara Ficocelli a Maria Adelaide Lupinacci e Adelia Lucattini, colleghe della Società Psicoanalitica Italiana, che per la casa editrice “Astrolabio” hanno scritto un saggio su un tema centrale analitico “Il dolore dell’analista. Dolore psichico e metodo analitico”. (Silvia Vessella)
IL TIRRENO TOSCANA- 5 nov 2015
di Sara Ficocelli
L’analista è una figura misteriosa, a tratti idealizzata, al punto da assumere connotati “mitici”. Eppure, lo psicologo o lo psichiatra che aiuta a uscire dal tunnel delle fobie o della depressione, a riallacciare i rapporti con una persona cara, a elaborare un lutto o una perdita, alla fine dei conti è una persona che, stando a contatto ogni giorno con la sofferenza, può soffrire, proprio come i pazienti che ha in cura. L’analista ha però la capacità di trasformare questa sofferenza “professionale” in uno strumento terapeutico. Abbiamo intervistato due delle autrici del primo libro italiano che affronta proprio questa forma particolare di dolore, spesso sottovalutato
È fresco di stampa, e aiuterà forse molti pazienti a guardare il proprio medico con occhi diversi, e molti medici a sentirsi meno soli. Il libro “Il dolore dell’analista. Dolore psichico e metodo psicoanalitico” edito da Astrolabio (ottobre 2015), con la prefazione del presidente della Società psicoanalitica italiana, Antonino Ferro, è il primo scritto in Italia sull’argomento.
Nella presentazione gli autori spiegano che, sebbene il dolore faccia parte della vita, ritrarsi da esso, ribellarsi contro la sofferenza propria e altrui è una reazione istintiva, naturale, quasi inevitabile. Anche nel setting psicoanalitico, luogo per antonomasia in cui il dolore viene espresso e ascoltato, c’è un’area di sofferenza che rimane poco esplorata e quasi completamente ignorata: il dolore che l’analista stesso prova per sé e per il paziente.
Il volume è frutto delle ricerche di un gruppo di lavoro appositamente costituito per approfondire questo tema e, al suo interno, prende in considerazione situazioni che riguardano bambini, adolescenti e adulti, perché il dolore riguarda tutti e ha bisogno e può essere affrontato in tutte le età della vita. Una sfida che coinvolge profondamente l’analista.
Ne abbiamo approfonditamente con Maria Adelaide Lupinacci, medico, psichiatra, psicoanalista didatta della Società psicoanalitica italiana e dell’International psychoanalytic association, e con Adelia Lucattini, medico, psichiatra psicoterapeuta, psicoanalista della Società psicoanalitica italiana e dell’International psychoanalytic association, coautrici del saggio.
Come è nata l’idea di questo libro?
Lupinacci: «L’idea iniziale sul ruolo e il modo di viverlo che il dolore ha per l’analista e il lavoro nell’analisi, è nata dal confronto tra le esperienze cliniche di alcuni psicoanalisti con me e fra di loro, e dall’osservazione dell’interesse che queste esperienze suscitavano in noi, e di cui avevamo continuamente riscontro nella pratica clinica e nel lavoro con i pazienti. In seguito a un primo lavoro presentato a un congresso con la dottoressa Lucattini, ho pensato di creare intorno a questo tema un gruppo di studio».
Qual è l’ “idea forte” di questo libro?
Lucattini: «Il dolore che all’analista può capitare di provare durante una seduta di psicoanalisi, perché il paziente soffre, può essere una risorsa e una ricchezza. Quando parliamo di “dolore” ci riferiamo a una forma specifica di sofferenza psichica: è il dolore per l’altro o per sé feriti, mancanti in qualche cosa, per una perdita. Il dolore del paziente riguarda la perdita, non la semplice paura di perdere qualcuno o qualcosa d’importante, ma la sensazione di averlo già perso. Anche l’analista soffre, deve poter soffrire per il paziente e esserne turbato. Ma un’approfondita formazione e la capacità di rimanere sensibile alle emozioni proprie e degli altri senza temerle, grazie a un metodologia di lavoro consolidata e validata nel tempo fin dall’epoca di Freud, permettono all’analista di stare veramente con il paziente e nello stesso tempo di non sprofondare con lui. Di attivare, valorizzandole, le risorse personali. Il dolore non ha un valore in sé, è purtroppo un fatto della vita; ma se è accompagnato e trattato da una persona esperta, sfuma e qualitativamente cambia, non è più un ostacolo al vivere».
Per quale motivo il libro rappresenta una novità nel panorama editoriale?
Lupinacci: «Perché di solito si parla piuttosto del dolore del paziente, non del dolore che la sofferenza del paziente suscita nell’analista e di come questa pena, se l’analista vi sfugge, può bloccarne la capacità clinica. Questo aspetto, che impegna molto la personalità del terapeuta, finora non era mai stato trattato in modo così approfondito. L’altra particolarità del libro è che, essendo frutto di esperienze individuali e delle riflessioni all’interno del gruppo di lavoro, ho tenuto e avuto molta cura che avesse, anche dal punto di vista della struttura letteraria ed editoriale, un forma “corale”. Non si tratta dell’abituale volume che raccoglie saggi di autori diversi su uno stesso argomento, ma di un libro organico su un tema portante. Usando una metafora letteraria si potrebbe dire che non è un insieme di racconti ma un romanzo. In realtà, le suggestioni che ci sono ci sono venute da musicisti, scrittori e poeti delle emozioni umane (Platone, Dante, De Filippo, Pirandello, De Andè, solo per citarne alcuni), e sono state d’ispirazione e d’aiuto a noi e ai nostri pazienti nel vivo del lavoro analitico e poi nel lavoro di traduzione di queste esperienze nel testo scritto».
Esistono analisti affetti da depressione?
Lucattini: «Occorre distinguere la depressione clinica dalla capacità di dispiacersi o soffrire. La tristezza e la malinconia sono sentimenti umani che anche gli analisti hanno ed è bene che abbiano. La depressione è un disturbo frequente ma di varia intensità e di diversa origine. Se a un’analista capita di soffrirne ha senz’altro gli strumenti per riconoscerla e provvedere a trattarla, rivolgendosi ad un altro collega senza timore. Del resto, però, tutti gli psicoanalisti debbono fare un’analisi personale per essere ammessi alla Società psicoanalitica italiana e internazionale, proprio per mettersi nell’assetto emotivo migliore per occuparsi e curare i problemi degli altri e, nel caso, intervenire preventivamente sulle proprie difficoltà e personali sofferenze».
È vero che spesso il paziente idealizza il proprio analista? Se sì, perché?
Lupinacci: «Spesso i pazienti hanno paura di fare un’analisi e di incontrare un analista. Uno dei motivi è perché temono di idealizzarlo e diventarne dipendenti. L’idea della dipendenza è più una fantasia che una realtà. Anzi, al contrario, l’analista cerca di aiutare il paziente a differenziarsi, cioè a maturare e a diventare un individuo autonomo, ritrovando se stesso, una persona capace di vivere la propria vita, seguendo le proprie inclinazioni, individualità e personalità, secondo le proprie possibilità».
Comprendere che l’analista è innanzitutto una persona può aiutare il paziente o danneggiarlo?
Lucattini: «Capire che è una persona, anche se come persona rimane in qualche modo non conosciuta nei suoi aspetti privati, è importante, ma si realizza di solito dopo un certo periodo di analisi. Inizialmente l’analista è avvolto da un “alone” che nasce anche dalle ansie e dalla curiosità, più o meno dichiarata, del paziente».