Cultura e Società

“I test psicoattitudinali: la selezione impersonale dei magistrati” di S. Thanopulos. Questione Giustizia, 3/4/2024

8/04/24
“I test psicoattitudinali: la selezione impersonale dei magistrati” Questione Giustizia, 3/4/2024 di Sarantis Thanopulos

ANDY WARHOL, 1966

Parole chiave: magistratura, valutazione psicoattitudinale, idoneità.

Questione Giustizia, 3/4/2024. “I test psicoattitudinali: la selezione impersonale dei magistrati” di Sarantis Thanopulos

Introduzione: Il governo ha introdotto, a partire dal 2026, i test di valutazione psicoattitudinali nelle prove di accesso al concorso per i futuri magistrati. Una scelta che sta destando preoccupazione e contrarietà in quanto presuppone la possibilità di valutare le specifiche attitudini per una funzione estremamente complessa e non standardizzabile. In questo interessante articolo, Sarantis Thanopulos, Presidente della Società Psicoanalitica Italiana, riflette su questa scelta dal punto di vista psicologico, sociale e politico (Maria Antoncecchi)

Questione Giustizia, 3 aprile 2024

I test psicoattitudinali: la selezione impersonale dei magistrati

di Sarantis Thanopulos

Certamente il lavoro del magistrato è molto impegnativo sul piano fisico, mentale e affettivo e vi sono situazioni – presenti, del resto, in tutte le professioni – in cui una certa vulnerabilità psichica può diventare cedimento e impedire l’esercizio sereno della propria attività. Esse si risolvono con istituti già presenti nell’ordinamento come la “dispensa dal servizio” o il “collocamento in aspettativa d’ufficio per debolezza di mente o infermità”. Invece il progetto di introdurre test di valutazione psicoattitudinali per l’accesso alla funzione di magistrato è inopportuno sul piano del funzionamento democratico delle Istituzioni e inappropriato sul piano psicologico perché, da un lato, sposta l’attenzione dal funzionamento complessivo della Magistratura come istituzione all’“idoneità” del singolo soggetto e, dall’altra, non prende in considerazione il senso di responsabilità , la principale qualità che deve avere un magistrato e la sola che valorizza appieno la sua competenza e cultura giuridica. 

1. Il progetto di introdurre test di valutazione psicoattitudinali per l’accesso alla funzione di magistrato è inopportuno sul piano del funzionamento democratico delle Istituzioni e inappropriato sul piano psicologico. Da una parte sposta l’attenzione dal funzionamento complessivo della Magistratura come istituzione all’ “idoneità” del singolo soggetto e dall’altra fa coincidere il senso di responsabilità con l’assenza di sofferenza psichica (ansia, angoscia, umore depressivo).  

Il buon funzionamento del potere giudiziario riflette l’equilibrio del suo rapporto con gli altri due poteri, legislativo e esecutivo, con cui esso co-costituisce l’edificio dello Stato democratico. La Magistratura svolge bene il suo ruolo se rispetta le competenze degli altri poteri e difende l’autonomia delle proprie. Ciò le assegna una particolare responsabilità nel campo della comprensione dello “spirito” che ispira la “lettera” delle leggi e la abita. Tra lo “spirito” è la “lettera” non può e non deve esserci mai coincidenza: il primo è necessariamente più ampio della seconda, è lo spazio in cui la legge respira e si umanizza. Nella Polis democratica il testo della legge deve dare voce, espressione a un testo molto più largo, radicato nella società/cultura politica e civile e fatto di emozioni, immagini, discorsi, senza il quale non potrebbe prendere forma ed esistere.

2. Quello del giudice è un lavoro di interpretazione che coglie nessi di corrispondenza tra due testi, uno implicito e l’altro esplicito, il che a volte è più facile (per la vicinanza dei due testi) e a volte è molto difficile, rischiando di scivolare nell’arbitrio (l’appiattimento sul testo esplicito o l’invenzione di un testo implicito). Al rischio dell’arbitrio e dell’errore giudiziario si rimedia con la trasparenza, il pluralismo e la democrazia nell’istituzione giudiziaria: i diversi gradi di giudizio, la collettività delle decisioni, un sistema di pesi e contrappesi che articola tra di loro le istanze giudicanti, l’associazionismo dei magistrati e il loro autogoverno.

L’associazione tra errore giudiziario e instabilità psichica del giudice è pretestuosa e fuorviante. È decisamente smentita dalla realtà dei fatti. Mai una sentenza è stata determinata dall’insanità mentale di uno o più membri di un collegio giudicante. È anche se un caso simile si verificasse, la sentenza sarebbe facilmente impugnabile. Se si tolgono circostanze particolari (come prove documentarie sbagliate o mal interpretate o un impianto accusatorio indiziario apparentemente solido ma mai del tutto affidabile) le sentenze errate sono regolarmente il prodotto di un pregiudizio (politico, culturale o morale), di cattiva fede (che nessun test può mai preventivamente identificare) o di una non adeguata preparazione giuridica (alla quale una buona conoscenza del diritto costituzionale e della filosofia del diritto, nonché una buona cultura generale, non farebbero certo male). 

3. L’uso generalizzato dei test psicoattitudinali viene dal mondo delle imprese e risponde alla necessità di valutare l’adesione psicologica delle persone assunte ai principi regolatori del sistema di cui entrano a far parte. I test verificano il grado di conformazione alla mentalità performativa anonima che l’impresa pone a fondamento di un suo funzionamento efficace, produttivo e remunerativo. Che questa filosofia aziendale che assoggetta i lavoratori a dei principi di efficacia riflettenti il funzionamento delle macchine e dei dispositivi tecnologici sia davvero la migliore strada per produrre meglio e in accordo con i desideri e i bisogni dei cittadini è tutto da dimostrare. Si può ragionevolmente pensare che un pensiero normativo stia impossessandosi della cultura della valutazione professionale spostandola dall’apprezzamento della capacità critica e dell’originalità creativa alla premiazione delle attitudini conformiste (del sentire, pensare e agire secondo standard omologanti).

C’è da dire che al di là della validità dei test psicoattitudinali sul piano teorico, il loro effetto sul piano concreto prescinde dal loro reale valore diagnostico. Per ogni tipo di test ci sono testi o corsi di preparazione in grado di fornire preventivamente le risposte e l’approccio “giusto” ai partecipanti a un concorso. L’esistenza di un approccio giusto e memorizzabile delle risposte (che falsifica di fatto l’esito della prova) si accorda con il fatto che alla base della concezione e impostazione dei test c’è la configurazione di una personalità “normale” a cui nessuno di noi corrisponde veramente, perché essa è fatta di sentimenti, pensieri e comportamenti medi. Il confronto è dunque con un essere umano astratto a cui corrispondere assimilandolo interiormente come modello normativo. Che alla base delle risposte al test psicodiagnostico non ci sia alcuna “sincerità”, ma piuttosto una conveniente imitazione della mentalità richiesta, non fa dal punto di vista del risultato finale alcuna differenza: la cosa davvero importante è che si rinunci al proprio pensiero adottando un pensiero anonimo, che al posto dell’esercizio della critica subentri l’obbedienza. 

4. Una cultura di selezione che promuove la convenienza dell’obbedire acritico ai luoghi comuni di un’esistenza normativa non è cosa buona in nessun campo dell’attività umana, applicata alla magistratura diventa un pericolo per il futuro della democrazia. Il lavoro del magistrato non è tecnico. Non consiste nell’applicazione di formule predefinite e deve tenersi lontana da stereotipi attitudinali che restringono e sviliscono la sua componente interpretativa. È utile essere consapevoli del fatto che l’insistenza sull’equilibrio psichico dei singoli magistrati (e in generale dei servitori delle istituzioni democratiche), di per sé fuori luogo, è terreno fertile per la tendenza a usare la psicologia non come strumento di comprensione dell’essere umano, ma come dispositivo di controllo. Poiché alla base del disfunzionamento delle istituzioni non è mai il malessere individuale, ma il malessere collettivo, è meglio essere vigili nei confronti di tutte le procedure correttive perché sono dettate dalla mancanza di lucidità che il malessere comporta e portano “tragicamente” dalla buona alla cattiva sorte.

L’ossessione per i test mostra la sua reale natura nei test di accesso all’università e in particolare alla facoltà di medicina: fatti a risposte multiple richiedono la conoscenza di dati che spesso è inaccessibile anche ai laureati nella disciplina a cui si aspira accedere. La capacità di apprendere a memoria un insieme di nozioni è il vero criterio di selezione e la capacità di pensiero critico e di invenzione è ignorata. Al di là delle intenzioni consapevoli con cui ci si muove nell’impostazione di una professione ad alto grado di responsabilità sulla base di una pura combinatoria di dati conoscitivi predefiniti e memorizzati (piuttosto che interrogati e rielaborati sulla base di una ricerca clinica permanente), il rischio di un affidamento del lavoro di cura a dispositivi di Intelligenza Artificiale è alto (oggi questi dispositivi vengono sperimentati perfino nel campo della psicoterapia). 

La spinta a che uno strumento sofisticato di calcolo sostituisca i complessi processi di cura fondati sul pensiero creativo e inventivo che privilegiano la particolarità del caso (a rigor di termini non esiste la “malattia”, ma il singolo malato) è molto preoccupante. Il calcolo dovrebbe essere un servitore del pensiero ragionevole non il suo padrone. Non si è davvero ragionevoli quando si insegue un pensiero avulso dalle emozioni e dai desideri, estraneo alla convivialità umana. Il lavoro del magistrato ha un’importante componente di cura (nel campo della giustizia sanzione e cura sono indissociabili tra di loro) e selezionare per il suo esercizio personalità adattative e conformiste, supposte “sane” perché prevedibili e accordate al senso comune piuttosto che al buon senso, mina il rigore e la serietà di questo lavoro dalle sue fondamenta. 

5. Il test MMPI, già applicato nei concorsi per aspiranti piloti, poliziotti e militari, che dovrebbe servire come base per la valutazione dei futuri magistrati, mira all’individuazione di aree psicopatologiche (depressione, ipomaniacalità, paranoia, isteria, ipocondria) e di disturbi della personalità (riguardanti la stabilità emotiva, la sessualità, l’aggressività). Nel campo della clinica può integrare, ma non può sostituire il colloquio diagnostico. Più la sua applicazione si allontana dal campo della clinica, e dall’interesse del soggetto che si sottopone ad esso a collaborare con l’esaminatore per la definizione del suo malessere e della sua cura, più la sua attendibilità si riduce. La trasformazione di uno strumento utile per la diagnosi di una sofferenza psichica, ma niente affatto sufficiente per una sua approfondita comprensione, in uno strumento che decide il futuro lavorativo e sociale di un soggetto, altera il suo funzionamento.

Poco si sa veramente sulla reale efficacia della somministrazione di test psicoattitudinali nella prevenzione dei comportamenti impulsivi e aggressivi da parte di poliziotti e militari. Si può essere certi, tuttavia, che l’equiparazione di questi ultimi con i magistrati nel campo della valutazione psicologica è fallace. A parte l’evidente differenza delle loro funzioni istituzionali, di cui si meraviglia che non si tenga conto, la motivazione per cui si cerca di individuare la presenza di un’instabilità emotiva o di una vulnerabilità allo stress degli appartenenti alle forze dell’ordine o alle forze armate è il possesso e l’uso delle armi. La rapidità di tempo con cui un poliziotto può a volte trovarsi a dover decidere se sparare o meno (senza la possibilità di interventi esterni di mediazione tra lui e l’azione), o l’immediatezza con cui un alterato stato di coscienza può indurlo a compiere un atto distruttivo, in nulla è paragonabile con lo spazio che un magistrato ha a sua disposizione per riflettere e fare le sue valutazioni sull’imputabilità o sulla colpevolezza di una persona, né con la ricchezza di mediazioni con gli altri all’interno delle quali svolge il suo lavoro.

6. Sfortunatamente c’è un grande fraintendimento sull’associazione tra sofferenza psichica e comportamenti distruttivi. Bisognerebbe partire dal fatto che ci sono due forme di sofferenza psichica. Nella prima forma il dolore è riconosciuto dal soggetto e si estrinseca in modo “positivo” (ansia, depressione, angoscia destrutturante). Il dolore, anche nelle sue forme più laceranti, è espressione di vita: travaglio psichico e domanda di cura. Nella seconda forma il soggetto stabilisce con il dolore un rapporto “negativo”: lo rifiuta e si difende riducendo drasticamente la profondità e l’intensità delle sue emozioni. Si svuota psichicamente e si divide in una parte di sé desoggettivata che agisce automaticamente e una parte della sua soggettività che sopravvive ed è l’unico suo ancoraggio con la realtà.

La persona vive in un costante conflitto tra le sue due parti e quando la tensione diventa insopportabile la parte desoggettivata può prevalere. Può identificarsi con la morte psichica che la abita (il che procura un senso di onnipotenza) e agire come suo emissario. Compiuto l’atto distruttivo, non riesce di realizzare veramente quello che ha fatto. 

Gli omicidi più efferati (femminicidi, assassini seriali o di massa, genocidi) che hanno sempre il carattere di sterminio, sono compiuti da individui abitati dalla morte (non in grado di vivere e di elaborare la loro sofferenza). Sono capaci di “volere” e di perseguire efficacemente la loro azione, spesso con lucida determinazione, ma sono incapaci di “intendere”. Il loro agire fa parte della “banalità del male” che Hannah Arendt ha descritto in modo inimitabile: la distruzione dell’altro effettuata in modo anafettivo, come puro fatto “amministrativo”.

Gli automi che uccidono in modo impersonale vivono in gran parte in modo “mimetico”. Aderiscono agli stereotipi mentali e comportamentali che costituiscono la struttura impersonale, omeostatica (volta all’evitamento delle tensioni) della vita sociale e si allontanano da ogni forma di coinvolgimento reale nelle relazioni con gli altri. A causa della loro grande abilità imitativa sfuggono alla loro individuazione attraverso test diagnostici. Che qualcosa che non vada bene in loro lo si può comprendere solo attraverso un contatto ravvicinato a cui non si offrono.      

Esiste un pericolo che le istituzioni democratiche non possono ignorare: a un estremo il mimetismo dei soggetti che agiscono distruttivamente in modo asintomatico tende a incontrarsi con la componente di conformismo che fa parte dell’uso dei test psicoattitudinali come strumento predittivo dei comportamenti professionali. Nelle forze armate italiane, e in particolare nei carabinieri, si usa in ambito normativo per operazioni ad alto rischio all’estero il Training di Inoculazione dello Stress, una procedura di trattamento cognitivo-comportamentale raccomandata dalla NATO. Vale la pena citare due dei suoi obiettivi: 

– modificare il comportamento manifesto, identificandolo e sostituendo i comportamenti disadattivi con quelli adattivi; 

– conoscere e modificare le aspettative e le cognizioni inadeguate del soggetto, sostituendole con cognizioni e pensieri efficaci 

Questi obiettivi, che riflettono una logica e tecnica militare, sono rappresentativi della filosofia con cui cui le forze armate selezionano e formano il loro personale. Applicare questa filosofia alla selezione e formazione professionale dei cittadini, e in particolare dei magistrati che svolgono una funzione di garanzia cruciale nell’ordinamento democratico della Polis, sarebbe tutt’altra cosa. Privilegiare il comportamento manifesto dei soggetti e modularlo secondo standard di efficacia derivanti dalle operazioni militari (dove spesso bisogna agire senza aver tempo di riflettere), significherebbe andare insidiosamente verso la costruzione di individui deresponsabilizzati che agiscono come ingranaggi di una macchina sociale impersonale.

La cultura dei test predittivi applicata al campo del lavoro privilegia necessariamente il conformismo dei comportamenti contro la creatività di un pensiero critico (alleato e non nemico delle emozioni) capace di elaborare il rapporto con la realtà e di apprendere dall’esperienza. Esportarla dal campo delle forze armate e dell’ordine pubblico al campo della magistratura, sulla base di un inesistente contiguità mentale tra i due campi, è del tutto incongruo.

7. La qualità principale che deve avere un magistrato – la sola che valorizza appieno la sua competenza e cultura giuridica- è il senso di responsabilità. Senso di responsabilità nei confronti degli altri: il rispetto profondo della comunità dei cittadini di cui fa parte e delle sue regole (che difendono l’interesse comune), il rispetto delle vittime dei crimini ma anche dei diritti dei loro autori, il rispetto dei sentimenti altrui. Sentimento di responsabilità ne confronti di sé: la difesa della propria dignità professionale, la difesa della propria indipendenza di giudizio, la difesa della passione civile che motiva nel modo più autentico il proprio lavoro. Phobos (il timore che la giustizia deve incutere in chi compie un’hubris) e Eleos (la compassione nei confronti dell’umanità ferita nella vittima e nel prevaricatore) devono ispirare il suo pensiero e le sue azioni.

Certamente il lavoro del magistrato è molto impegnativo sul piano fisico, mentale e affettivo. Ci sono situazioni in cui una certa vulnerabilità psichica può diventare cedimento e impedire l’esercizio sereno della propria attività. Sono situazioni presenti in tutte le professioni, soprattutto in quelle più responsabilizzanti. Nessuno studio attribuisce una loro più elevata frequenza tra i magistrati e in ogni caso non hanno un effetto negativo statisticamente significativo sulla vita comune (sono ben altre le cause dei nostri problemi). Si risolvono senza danni con la “dispensa dal servizio” o con il “collocamento in aspettativa d’ufficio per debolezza di mente o infermità”. È importante che ciò avvenga con attenzione e cura nei confronti delle persone sofferenti, che il momentaneo o duraturo allontanamento dal servizio attivo non le escluda dalla loro partecipazione in altre forme meno impegnative nella loro comunità di appartenenza professionale. 

La presenza di una sofferenza psichica vera, in cui il dolore è riconosciuto e non denegato, in una persona che ha un delicato ruolo istituzionale non è affatto incompatibile con la serietà, il rigore e l’equilibrio del suo svolgimento. La sofferenza quando non diventa destrutturante (evento la cui predizione normativa ha un significato repressivo) può favorire il senso di responsabilità, perché aiuta a capire le ragioni degli altri. Usare un pregiudizio sulla stabilità mentale dei magistrati, un luogo comune che nulla giustifica e legittima, per condizionare in senso normativo la loro selezione e di conseguenza la loro funzione, disturba l’equilibrio democratico delle istituzioni e favorisce la diffusione tra di noi di un pensiero impersonale e acritico.

La diffusa ambivalenza nei confronti della magistratura, che tende a far di tutta l’erba un fascio, l’insofferenza inevitabile nei confronti di chi deve far rispettare i limiti legali necessari per la comune convivenza (a volte rigidi e riflettenti il diritto del più forte piuttosto che un vero e proprio senso di giustizia) va affrontata favorendo la selezione di persone libere e indipendenti, con un profondo amore e rispetto per gli altri e per la democrazia. Lo strumento migliore sarebbe una formazione permanente dei magistrati in grado di assicurare una conoscenza aggiornata delle questioni giuridiche e il loro approfondimento critico ma anche di garantire un arricchimento culturale, una conoscenza buona dell’essere umano e un’apertura alla vita che liberi la mente dai pregiudizi.       

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