LA STAMPA, 14 aprile 2014
FREUD RINASCE A TEHERAN. Incontro con l’iraniana Gohar Homayounpour tornata in patria per portarvi la “peste” psicoanalitica.
INTRODUZIONE: Ghoar Homayounpour, psicoanalista di origine iraniana formatasi negli USA, conversa con Silvia Ronchey nella sede della Società Psicoanalitica Italiana a Roma, dove è stata ospite nell’ambito del progetto ‘Geografie della psicoanalisi’ coordinato da Lorena Preta,dell’incontro Una psiconalista a Teheran al quale hanno partecipato anche Giancarlo Bosetti e Tiziana Bastianini. La Homayounpour ci parla in modo avvincente dell’ambiente che ha trovato a Teheran, dell’importanza di “trovare un linguaggio” che superi le contraddizioni ideologiche e sovrestrutturali e riscopra invece aspetti essenziali della cultura iraniana, nella quale individua tante assonanze con la psicoanalisi. Ci descrive una cultura “del qui ed ora, avvolta nella fantasia e nel sogno”, profondamente recettiva a quella generativa “peste” che Freud pensò di diffondere. (Giuliana Rocchetti)
La Stampa, 14 aprile 2014
Silvia Ronchey
L’Iran ha una popolazione di 73 milioni di abitanti e 28 milioni di utenti Internet. La sola Teheran conta 13 milioni di persone. Il 38% di questa popolazione è al di sotto dei 18 anni ed è tra le più politicamente attive di tutto l’Islam. Secondo le statistiche dell’Unicef, tra le 57 nazioni islamiche del mondo l’Iran è quella che ha il maggior numero di blogger. Ci sono solo dieci psicoanalisti in Iran, di cui due sono donne. Una di loro è Gohar Homayounpour, una giovane minuta dai lunghi capelli neri, un’antica miniatura persiana dall’accento universitario bostoniano. Nata a Parigi, vissuta in esilio, passata negli Usa per la dura formazione prescritta dalla disciplina freudiana, due anni fa è tornata in Iran per riportare il contagio di quella «peste» psicoanalitica che un secolo prima il padre fondatore Freud aveva portato dal vecchio al nuovo mondo, e che da allora non ha cessato di propagarsi dall’uno all’altro capo del globo, come addita il progetto scientifico sulle «Geografie della psicoanalisi» che l’ha portata alla Società psicoanalitica italiana di Roma, dove l’abbiamo incontrata. A richiamarla a Teheran sono stati, confessa, «il desiderio e la sete di psicoanalisi» che ha trovato nella patria dei suoi avi. È rimasta nonostante le difficoltà e le lotte quotidiane, una battaglia che si ostina a definire anzitutto come paradosso: fare psicoanalisi nella repubblica islamica iraniana degli ayatollah, farlo oltretutto essendo una donna, è per lei una provocazione psichica prima ancora che politica. Per riuscirci «bisogna disinnescare le contraddizioni ideologiche», spiega, «trovare un linguaggio che non minacci l’ideologia fondamentale» della teocrazia. Le domandiamo se questo linguaggio esiste nella cultura iraniana. «Non dobbiamo confondere l’attuale sistema politico dell’Iran con la sua cultura», risponde. «Quella iraniana è una cultura più libidica che aggressiva. È anche una cultura del qui e ora, avvolta nella fantasia e nel sogno. La visione del mondo persiana è poetica, filosofica e introspettiva. Anche se abbiamo i nostri momenti paranoico-schizoidi, siamo fondamentalmente dei depressi. Mentre la modalità di espressione del malessere psichico americano è più spesso l’ansia». Se le chiediamo perché, parafrasa Kundera: «Potrei dire che mentre l’Occidente soffre di un’insostenibile leggerezza dell’essere, in Oriente è la pesantezza dell’essere a diventare insostenibile». Ma l’opposizione Oriente/Occidente è a sua volta una sovrastruttura psicologica, forse patologica: «L’Altro esotico, orientale, affascina l’uomo occidentale, ma lo sguardo rende l’Altro inferiore», spiega, citando Edward Said e i suoi concetti di orientalismo e di esotizzazione. «Possiamo erotizzare il chador o parlare di “‘rossetto jihad” o raccontare che gli uomini iraniani picchiano le donne: gli orientali eccitano il desiderio in ragione dei piaceri ”inferiori” che evocano». La sessualità della Teheran di oggi «somiglia molto più a quella della Vienna di Freud che a quella dell’America contemporanea». Cita un grande freudiano francese: «Dov’è finita la sessualità della psicoanalisi?, domandava André Green. Posso rispondere: a Teheran». Nei casi clinici raccontati dal suo libro, uscito in Italia con una penetrante postfazione di Lorena Preta (Una psicoanalista a Teheran, Cortina, pp. 147, € 13,50), convivono tradizionalismo orientale e sfrenata disinibizione occidentale, e si affollano storie femminili in cui con naturalezza le libertà private travolgono le pubbliche virtù dell’osservanza politica o religiosa. Chiunque a Teheran abbia un divano disponibile ha lo studio pieno di pazienti, spiega. Ma è un vero divano orientale-occidentale, quello di Gohar. Negli ultimi sei anni non solo ha costituito il «gruppo freudiano di Teheran», ha anche messo al lavoro un’équipe parallela di analisti europei e americani disposti ad alzarsi a ore impossibili e a restare svegli fino a tarda notte per fare analisi e supervisioni via skype. Sentirla parlare di «divani» fa sorridere. Vengono in mente lequartine di Khayyam, i suoi trasognati triclìni, la sua malinconia scettica da teologo ateo, il fiorire su sé stessa della sua lingua «de aves y de rosas», come la definì Borges. Forse è questo l’antico spirito persiano che riemerge nella psicoanalisi del gruppo di Teheran: un ateismo con un’ortodossia, una teologia atea dell’interpretazione. Forse il fare psicoanalisi a Teheran riprende e riflette una millenaria tradizione di quieta e privata disobbedienza, là dove la fantasia collettiva «è ancorata a un desiderio di assoluta obbedienza»; di oralità del racconto, della conversazione e dell’ascolto; di sensualità e malinconia. Una garbata e stoica indifferenza ai decreti e ai dogmi della teocrazia.””