Corriere Veneto 14 marzo 2020
Il senso della sofferenza
Corriere del Veneto, 14 marzo 2020
Introduzione: E’ sempre più evidente come la pandemia ci abbia colto disarmati, privi di una protezione immunitaria sul piano fisico e impreparati, sul piano emotivo, ad affrontare l’idea di un pericolo così importante per noi e i nostri cari. Il dottor Semi, in questa intervista, ci aiuta a capire come l’idea della sofferenza e della morte devono ritrovare uno spazio costruttivo all’interno di noi stessi. ( Maria Antoncecchi)
Antonio Alberto Semi
Psichiatra e Psicoanalista Membro Ordinario e AFT della Società Psicoanalitica Italiana
Corriere del Veneto, 14 marzo 2020
Il senso della sofferenza
Nella situazione tragica che stiamo vivendo, due sono i fattori che sembrano difficili da condividere e ancor prima da pensare: la morte e la sofferenza. Se ci pensiamo, è abbastanza incredibile che una realtà comune come la morte possa essere di fatto rifiutata, eppure è così: si ‘sa’ che si muore ma questo sapere non ha le caratteristiche di quella che chiamiamo consapevolezza, non è un sapere filtrato ed elaborato tramite l’esperienza emotiva significativa, quella che per così dire ci attraversa, ci fa rileggere la nostra storia e la storia dei nostri rapporti con gli altri. Vediamo oggi che questa consapevolezza non è frequente, anche se ci aiuterebbe molto ad affrontare la realtà con modi umani evoluti, quelli propri degli adulti maturi. Certo, occorre tempo e occorrono esperienze per acquisirla, per cui è più facile che ne siano detentori degli adulti avanti con gli anni. E lo dico perché troppe volte, in questi giorni, ho sentito deprecare ragazzini e adolescenti e giovani adulti che si comportano come se il pericolo di morire non ci fosse, mentre dovremmo chiederci quali strumenti adoperare per rendere fattivi i messaggi necessari e utili in questi frangenti (tipo “non uscite di casa”). I giovani spesso non sanno davvero cosa sia la morte, negano l’importanza della cosa perché non ne hanno una rappresentazione affettivamente adeguata. Del resto, tutti i genitori che hanno dovuto comunicare ai figli la scomparsa di una persona cara, si sono trovati di fronte a questa difficoltà: come dirlo in modo da non traumatizzare il figlio ma anche in modo da trasmettergli la realtà della scomparsa e l’impatto emotivo che essa ha? La risposta tipica riguarda l’aldilà (tipo: il nonno è in cielo, ti guarda; l’amico è andato via ma sta con gli angeli ecc.) non perché i genitori ci credano (qualcuno sì e qualcuno no) ma perché in questo modo forniscono al figlio una rappresentazione alternativa della persona scomparsa e, cosa che è ancor più importante, comunicano la persistenza del ricordo dello scomparso nel proprio mondo interiore. Il morto non ci sarà più ma, in altro senso, ci sarà sempre dentro di noi. Questo messaggio è difficilissimo da accettare, diciamolo chiaramente. Ci si impiega anni e anni non solo a tollerarlo ma anche a sentirlo come una parte costitutiva della nostra umanità, perché implica il riconoscimento dell’importanza dell’altro nella nostra attività di pensiero. Spesso, attualmente, accade che questa attività venga difesa puntando tutto su sé stessi: è il trionfo del narcisismo. Ma, come ci insegnò già Ovidio, amare sé stessi senza riconoscere gli altri porta al fallimento fino alla morte. Però noi oggi ci troviamo di fronte a questa situazione, dobbiamo riconoscere che una parte (per fortuna minoritaria, credo) dei giovani non sa né vuol sapere cosa sia la morte propria e altrui. È inutile condannarli moralmente.
E la sofferenza? Anch’essa è un’esperienza difficile e tutti vorremmo poterla evitare. Spesso cerchiamo di relegare la sofferenza nell’ambito del dolore e per di più nell’ambito del dolore fisico, troviamo così una causa e una spiegazione. La sofferenza è però un’altra cosa, è lo stato d’animo che deriva dal sentire che il dolore fisico o il dolore altrui ci piega, minaccia di travolgerci ma è “nostro”, di tutto noi stessi. Ci fa sentire la nostra sensibilità, consente una vera solidarietà e una ricerca realistica di lenirla. Con il dolore abbiamo a che fare fin da piccoli ed è importante che fin da piccoli sentiamo quanto può essere diverso sentire che gli altri capiscono la nostra sofferenza. Se un bimbo piange perché si è sbucciato un ginocchio, dobbiamo fargli sentire che comprendiamo che piange non solo per il dolore fisico (trascurabile) ma perché soffre per essersi sentito fragile, incapace di evitare l’ostacolo, bisognoso di aiuto mentre magari sperimentava la sua autonomia. Allora il fatto di sentirsi inteso rende accettabile il dolore e anche la sofferenza e anzi stabilisce un rapporto tollerabile tra dolore e sofferenza.
Penso che solo se questo rapporto umano tra dolore e sofferenza diventa un tratto caratteristico del diventare adulti diventa possibile anche sperimentare la morte altrui senza negarla, in modo dunque non distruttivo. È molto importante che ciò avvenga, anche perché separare il dolore dalla sofferenza diventa facilmente un modo di trattare tutte le esperienze, ad esempio separando l’effetto liberatorio del rapporto sessuale dal piacere sessuale, che è invece un’esperienza che coinvolge tutto l’individuo. Allora si rischia di perdere il gusto della vita.
Se riuscissimo a vivere la tragica esperienza dell’epidemia come un’occasione per ripensare a come ciascuno di noi ha stabilito il rapporto tra dolore e sofferenza e tra questi due e la morte, potremmo ricavare anche qualcosa di positivo da un evento terribile, come sempre per fortuna ha fatto l’umanità.
Antonio Alberto Semi