Repubblica.it – 03 Aprile 2017
Autismo e solitudine, l’esperta: “Incapsulati nel loro mondo? Luogo comune”
La psichiatra: “Si tratta di una visione “pseudo-schizoide” non vera. Gli autistici hanno una grossa difficoltà nella comunicazione, ma non sono isolati. Vivono in un mondo stereotipato e ripetitivo perché questo li consola e li rilassa”
INTRODUZIONE: Adelia Lucattini, psicoanalista della Società psicoanalitica italiana, in occasione della Giornata della consapevolezza sull’autismo, descrive i disturbi della sindrome dello spettro autistico e illustra i possibili interventi. (Silvia Vessella)
Repubblica.it – 03 Aprile 2017
Sara Ficocelli
ROMA. I bambini che soffrono di una “sindrome dello spettro autistico”, che include patologie e disturbi anche piuttosto diversi tra loro, da quelle di tipo genetico al funzionamento autistico da stress respiratorio perinatale, fino alla sofferenza cerebrale di varia natura, affrontano la vita immersi in una sensazione di sofferenza e dolore psichico, ma con una differenza fondamentale rispetto a noi: queste persone infatti non sanno cosa sia esattamente quel disagio, non riescono a riconoscerlo e dargli un nome, anche qualora siano in grado di parlare o dispongano di un “alto funzionamento” a livello cognitivo. Quanto è vero, dunque, che chi soffre di autismo, sindrome che riguarda circa 100 mila bambini e adolescenti italiani (un bambino su 100, con una frequenza 4 volte più alta fra i maschi) – vive in un mondo tutto proprio, senza percepire davvero la solitudine? Lo abbiamo chiesto a Adelia Lucattini, psichiatra e psicoanalista ordinario della Società Psicoanalitica Italiana.
Sfatare un luogo comune. “Rispetto al soffrire di solitudine così come lo intendiamo noi – spiega – qui siamo in presenza di una sensazione diversa: tale sensazione questi ragazzi la possono provare soltanto dopo essere entrati in una relazione umana significativa con qualcun altro, altrimenti si innesca solo un meccanismo in cui le fantasie e le fantasticherie suppliscono alla presenza di un’altra persona, tanto da non permettere di sentirne la mancanza. Va sfatato il luogo comune dell’autistico incapsulato nel proprio mondo: si tratta di una visione “pseudo-schizoide” non vera. Gli autistici hanno una grossa difficoltà nella comunicazione, ma non sono isolati. Vivono in un mondo stereotipato e ripetitivo perché questo li consola e li rilassa. Inoltre spesso hanno una ipersensibilità sensoriale, una suscettibilità a suoni, rumori, sensazioni tattili, per cui tendono a proteggersi attraverso l’isolamento. Non perché gli piaccia stare da soli”.
La paura dell’abbandono. Discorso diverso, continua l’esperta, riguarda il timore dell’abbandono, che riguarda l’istinto di sopravvivenza e dunque la possibilità di andare avanti anche senza la presenza di qualcun altro. “Certo che soffrono per l’abbandono – spiega Lucattini – e reagiscono anche violentemente a volte, qualora questo accentui l’isolamento, con comportamenti oppositivi o aggressivi. Ma la sensazione in questione non sempre viene percepita come tale se non viene fatto un percorso di psicoterapia analitica: solo allora le persone che soffrono di autismo sapranno che quello che succede è proprio un dolore da abbandono”. Una prova “indiretta” di questo meccanismo può derivare dal fatto che, per quanto possono dimostrarlo in modo del tutto personale, particolare e che necessiti anche di una decodifica e di un’interpretazione, solitamente le persone autistiche sono tranquille e talvolta mostrano felicità nello stare con i propri familiari. “Stringono buoni rapporti e stanno volentieri con le figure di riferimento con cui fanno la riabilitazione o con lo psicoterapeuta che li segue. La felicità di stare con qualcuno trova nella paura, nell’angoscia o nella sofferenza dell’abbandono il suo “reverso” “, precisa.
Le tappe di insorgenza del “dopo di noi”. La legge italiana prevede programmi e cure per chi soffre di autismo ma solo fino al compimento del diciottesimo anno di età, e non contempla il caso di persone autistiche maggiorenni. Un problema, il “dopo di noi”, che angoscia le famiglie: cosa accadrà ai figli dopo la morte dei genitori? Molte associazioni propongono la costituzione di case famiglia e di comunità alloggio capaci di garantire una buona qualità della vita dopo la scomparsa di padre e madre. “Questo tipo di preoccupazione – spiega Lucattini – segue tappe di insorgenza piuttosto precise: la prima, grande, è quella del compimento della maggiore età, che diventa un discrimine tra la possibilità di un recupero e di una vita “normale”, secondo quelli che sono i canoni comuni, intesi come scolarizzazione efficace, lavoro, possibilità farsi una famiglia. Un altro momento cruciale in cui il problema si pone in modo importante si ha quando uno dei due genitori si ammala. Altra tappa nota, probabilmente per la situazione esistenziale del genitore stesso, la si incontra quando il padre o la madre si avvicina o supera i 70 anni”.
L’importanza di “fare rete”. Come arginare, dunque, queste preoccupazioni? Sicuramente – da un punto di vista organizzativo – attraverso una rete che metta in relazione tra loro associazioni di familiari e pazienti e strutture del Sistema Sanitario Nazionale. Dal punto di vista psicologico, invece, è sempre importante che anche i genitori possono ricevere un sostegno personale. “Avere un figlio con disabilità o malato – precisa l’esperta – è sempre un dolore grandissimo che può essere sopportato per molti anni con la speranza di un miglioramento e grazie alla forza che i familiari hanno in gioventù. Col passare degli anni e con il diminuire delle energie sia psicologiche che fisiche possono subentrare però dinamiche depressive importanti”.
Il sostegno psicologico. A prescindere da questo tipo di evoluzione, un supporto alla genitorialità in un primo momento e una psicoterapia personale quando ne viene percepita la necessità è sempre indicato. Una psicoterapia analitica che permetta di lavorare non soltanto sulle emozioni e sul loro funzionamento ma anche sull’elaborazione del lutto o sulla convinzione di aver perduto “un figlio sano” è necessaria. “Nei genitori – spiega l’esperta – non sempre c’è una consapevolezza profonda, anche inconscia, e una convinzione che il figlio sia in qualche modo disabile. Accade anche con i familiari di figli che hanno malattie fisiche o disturbi minori, come quelli Specifici dell’Apprendimento o depressivi, e ancora di più per i genitori che hanno figli con “sindromi dello spettro autistico”. Anche i figli vanno preparati alla possibile perdita dei genitori, e il fatto che possono non avere reazioni apparenti o congrue con l’avvenimento non significa che non se ne accorgano”.
È fondamentale parlare. Il fatto che gli autistici non riescano a esprimere quello che sentono perché non hanno gli strumenti per poterlo fare o perché non sanno definirlo, non significa nulla. È sempre importante parlare con i ragazzi con disabilità di quello che accade ai genitori, senza anticipare quello che accadrà, ma comunicando apertamente, con delicatezza e garbo, affrontando la realtà per quello che è. Il fatto stesso di sentire parlare da qualcuno di quello che accade è un elemento tranquillizzante. Dipenderà poi dal grado di maturità o dalla severità della patologia avere delle reazioni di un certo tipo o di un altro. Ma da un punto di vista sia psicologico che umano è sempre essenziale intavolare un discorso comprensibile per i figli portatori di disabilità, in modo da poterli aiutare a transitare attraverso gli avvenimenti nel modo meno doloroso e traumatico possibile.
“Non è escluso che in molti casi sia necessario anche l’utilizzo di farmaci – conclude l’esperta – e questo vale sia per genitori che per i figli. Le indicazione in questi casi sono sempre e comunque quelle che lo specialista prescriverà, e se li riterrà necessari”.