PUNTI DI VISTA: a proposito di
Mamme Medea
Jones De Luca,
psicoanalista SPI
Responsabile del Sito Spiweb (www.spiweb.it)
Di nuovo in questi giorni si impone alla cronaca la storia di Medea: una donna straniera che, lasciata dal marito, uccide le sue figlie.
Su “la Repubblica” di venerdì 14 marzo vi sono tre pagine dedicate al tema dal titolo “Mamme Medea”
Gli articoli sono firmati da Concita De Gregorio e Massimo Recalcati.
Cominciamo dal secondo autore.
Egli parla di “complesso di Medea” e, in questo momento in cui l’orrore del gesto chiama in causa gli aspetti più terribili della natura umana, chiede conto alle donne dei moti più oscuri della loro anima.
L’autore si chiede se queste donne sono veramente madri o se rifiutano i figli quando sono imperfetti; se vogliono rimanere figlie loro stesse o se, invidiose della potenza maschile, fanno i figli per sentirsi ugualmente potenti. Perciò queste donne, quando scoprono che avere figli non le rende “falliche” come i maschi, se ne liberano: i figli appaiono loro inutili o imperfetti.
Può essere davvero questo il motivo di tutto ciò?
Il mito di Medea è un mito antichissimo, forse 5.000 anni, ed è stato riscritto e ripreso in maniera quasi ininterrotta nei secoli: il testo più conosciuto è la tragedia di Euripide, l’unica giunta ai giorni nostri delle tre tragedie scritte da questo autore su Medea.
Dopo di lui il mito è stato ripreso da Apollonio Rodio poi da Seneca fino a Christa Wolf, solo per citare i più famosi.
Questa storia interessa profondamente l’umanità. Lo studio di questo mito è stato oggetto di molte ricerche, soprattutto da parte delle donne.
L’attenzione viene in primo luogo richiamata dal fatto che Medea, come la donna che agisce e patisce questa tragedia, è straniera.
Il momento di massima vulnerabilità per le donne migranti è infatti quello della maternità. Lo scarto culturale tra il mondo che le circonda e il mondo in cui sono state allevate, in un momento così delicato, è drammatico: la cosiddetta globalizzazione non tocca gli elementi profondi dell’identità che vengono messi in gioco nel diventare madre.
Le coordinate del nuovo mondo non sono ancora utilizzabili, le coordinate del mondo lasciato alle spalle possono essere perdute.
Lo sradicamento, la perdita della terra-madre, la rottura a volte violenta dei legami familiari determina grandi fratture nel profondo dell’anima, vi è una specie di esilio dentro, un esilio non solo geografico, un esilio dai propri legami e dalla propria storia. La solitudine di molte donne nel momento in cui diventano madri, ben espressa dalla loro condizione sociale di straniere è anche e prima di tutto una solitudine interna.
La maternità non nasce dalla rottura del legame con la propria madre ma dalla continuità di questo legame, cioè non è smettendo di essere figlia che una donna può farcela ad essere madre, ma continuando ad esserlo nel momento delle sua più grande fragilità.
Il lavoro di Marie Rose Moro, recentemente a Roma per una giornata di studio (di cui vi proponiamo il report), è uno degli innumerevoli contributi su questo tema Migranti e loro destini ( Moro , migranti e loro destini).
Concita De Gregorio, e questo è interessante, ci ricorda che non sono solo le donne straniere ad attraversare queste tragiche vicende e ci esorta a pensare a tutte le donne.
La lettura del suo articolo arricchisce e amplia il campo: del resto l’autrice si è più volte interessata a questo tema con acume e precisione.
Questo sradicamento interno può verificarsi dunque anche per le donne che non sono migranti.
Insieme all’autrice, ci chiediamo perché fatti così tremendi possano generare tanta curiosità.
Questa curiosità è sollecitata ma anche autorizzata dagli indici di ascolto televisivi.
La gente vuole sapere; si dice che ha diritto di sapere.
Anche se questo “sapere”, alla gente, fa più male che bene.
Allora facciamo un passo indietro.
Torniamo a Medea.
Possiamo utilizzare un’immagine tratta da un film. Qualcuno certamente ricorda la Medea di Pasolini.
La Callas, che né è la protagonista, è negli anni del suo precoce tramonto. E’ stata una delle più grandi interpreti dell’opera di Medea, ma non può più cantare, privata della sua voce, ha solo occhi.
Verso la fine del film, quando ci si sta avvicinando all’epilogo della tragedia, il suo sguardo si posa sul coltello di fianco a lei. Sembra quasi che succeda per caso, sta cullando il suo bambino, ed è come se in quello sguardo si potesse vedere l’intensità del pensiero che le si affaccia alla mente: si tratta di un pensiero tremendo, di un pensiero che, una volta pensato, non può più essere dimenticato.
Credo che molti medici di famiglia, operatori della salute mentale, psicologi, psichiatri, educatori, assistenti sociali, e naturalmente, psicoanalisti, abbiano ascoltato spesso le madri formulare pensieri di questo tipo.
Se queste persone sono dotate di coraggio, pazienza, umiltà ed umanità, possono vedere come il dolore delle donne per questi pensieri può assumere proporzioni immani, difficili da immaginare. Coloro che hanno approfondito meglio la complessità di questo tema hanno capito che tutto ciò ha spesso conseguenze tragiche e importanti.
Guardare un coltello e pensare di poter rischiare di uccidere è infernale ma è molto più comune di quello che si possa immaginare.
Per questo le persone vogliono sapere, perché si tratta di pensieri molto frequenti e “la gente” vuole vedere come succede, cosa succede, che cosa fa scattare il gesto irreparabile.
Il fatto è che in queste situazioni tali pensieri, risollecitati dal nuovo evento terribile, sono riportati alla ribalta: il dolore si ripresenta ed è acuto.
Chiediamoci ancora qualcosa su questo.
Sui gesti estremi forse i “media” possono fare poco e spesso possono fare danni;
di più e meglio possono fare le cure quotidiane e l’esperienza approfondita degli operatori del campo.
Quello che c’è da sapere subito è che le informazioni hanno un effetto immediato su tutte/ tutti quelli che hanno avuto brutti pensieri e che le conseguenze di questo dolore spesso possono paralizzare, possono portare ad abbandonare i figli in mano ad altri ritenuti più affidabili e comunque, in vari modi, danno avvio ad un grande lavoro e tormento della mente.
Tornando alle parole dell’ “esperto”, pensiamo davvero che un concetto come quello di “invidia del pene” possa esserci di aiuto quando affrontiamo tutto questo?
Abbiamo il timore che questo svilisca le ricerche e il lavoro di tutti.
Vi proponiamo di tornare al “dossier”, presente da tempo nel nostro sito, intitolato donne/madri/ cattivi pensieri:
Concludendo, prima di tutto dobbiamo distinguere.
Pensare non vuol dire fare.
Molti pensieri omicidi possono attraversare la nostra mente senza che diventiamo e mai diventeremo assassini.
Il lavoro che la mente fa quando si presenta un pensiero di questo tipo è molto complesso e articolato: non si presta a generalizzazioni ma va approfondito.
Jones De Luca