Claudia Spadazzi. (SPI – Società psicoanalitica italiana)
“Captain, what are you doing?”
Il disastro aereo recentemente avvenuto in Provenza- il volo di Germanwings schiantatosi contro le Alpi francesi- pone numerosi interrogativi sul tema dell’affidamento, che inevitabilmente ogni passeggero affronta salendo a bordo di un aereo. Grandi o piccole dimensioni dell’aeromobile, tratta lunga o breve, numerose o anche una sola ora di volo, gli interrogativi riguardano tanti elementi: lo stato del velivolo, le condizioni atmosferiche, eventuali imprevisti o guasti, preparazione e capacità dell’equipaggio. Ma l’ affidabilità psichica di chi ci conduce in una condizione- la sospensione nell’aria- così innaturale per l’ essere umano? Nella storia dell’aviazione altri rarissimi episodi hanno fatto ipotizzare il suicidio del pilota come causa di disastri aerei. In aviazione la attentissima disamina degli incidenti di volo costituisce una delle metodiche più efficaci di massimizzare la sicurezza. Tuttavia, in tali casi, seppure con la registrazione del Voice Recorder in cabina di pilotaggio e gli altri dispositivi di registrazione dei dati di volo, la ricostruzione è stata sempre approssimativa e la prova definitiva del suicidio come causa dell’incidente non è stata dimostrata. Oltre agli episodi riguardanti Air Marocco (1994), Silk Air (Indonesia, 1997) , Egypt Air (1999) anche sulla recente scomparsa dell’aereo della Malaysian Airlines, disperso con 239 passeggeri a bordo, pesa anche questo sospetto, seppure senza nessuna ragionevole indicazione. Oltre a questi casi, esiste però un precedente poco conosciuto, che risale al 9 Febbraio 1982, la cui ricostruzione potrebbe offrire alcune analogie con la vicenda di Germanwings. In tale data un DC8 della Jal ebbe un gravissimo incidente vicino all’aeroporto di Haneda a Tokyo, in cui perirono 24 persone e 150 rimasero ferite. Non soltanto l’incidente fu dimostrato essere causato dalla deliberata intenzione di schiantarsi del comandante Seiji Katagiri, ma sia lo stesso comandante che il co-pilota si salvarono e furono sottoposti ad inchiesta. Da tale inchiesta emerse che il comandante aveva messo in atto una manovra per precipitare, manovra contrastata in parte ma non in modo sufficientemente efficace dal secondo pilota. La registrazione riporta la sua voce atterrita:”Captain, what are you doing?”. L’interessante intervista al sopravvissuto ex comandante della JAL, riportata alcuni mesi dopo sulla rivista Flight International, metteva in luce alcuni elementi clinici che consentivano di identificare aspetti psicotici, vale a dire di grave disfunzionamento dell’Io, con distorsione della realtà e percezioni allucinatorie. Il comandante affermava infatti di “aver sentito una pressione esterna insopportabile” e che “qualcosa gli intimava gettarsi verso il suolo per lasciarsi alle spalle un’angoscia intollerabile”. La qualità dell’angoscia descritta e la descrizione del comportamento da parte del co-pilota (agitazione psicomotoria, grida, parole prive di senso) farebbero ipotizzare dunque un breakdown psicotico, non sappiamo se di esordio o forse pregresso, visto che il comandante era stato giudicato inidoneo al volo per oltre un anno. E’ da chiedersi anche se, in questo specifico caso, stiamo parlando di “suicidio”, nel senso letterale del termine, nel senso di cosciente intenzione di togliersi la vita: ma certamente non di un “suicidio depressivo”. Nel caso del pilota di Germanwings, giovane (27 anni) e inesperto (soltanto 600 ore di volo ), non sapremo probabilmente mai la esatta dinamica degli eventi, essendo tutti i protagonisti tragicamente deceduti. Ricostruire la personalità e la psicopatologia di una persona su indizi ed elementi incerti è certamente deficitario e comunque arbitrario. E’ importante però sottolineare che la definizione di “depressione” come causa di un gesto drammatico come quello di Andreas Lubitz è inesatta e può indurre a molteplici equivoci, e di generare inutili angosce nella vasta fascia di popolazione affetta, in modo più o meno grave, da sindrome depressiva. I piloti sentono in genere fortemente la responsabilità verso i loro passeggeri: il loro SuperIo ( cioè l’istanza psichica che genera il senso del dovere) e il lungo addestramento ne garantiscono l’affidabilità. E’ doloroso immaginare gli otto lunghissimi minuti della spaventosa agonia del comandante Patrick Sonderheimer, trascinato verso la morte sua e dei suoi passeggeri in una condizione di totale impotenza di fronte alla follia del suo secondo. E anche se è più facile identificarsi in un inerme passeggero, tuttavia un pensiero di pietà lo merita anche il giovane pilota, non “assassino” come alcuni giornali lo hanno definito, ma spaventosamente solo nel suo “forsennato” ( nel senso letterale-fuori di senno”) tentativo di fuggire una condizione psichica di angoscia non pensabile e non rappresentabile.