Quella che leggerete è una lettera immaginaria scritta per dialogare con una persona che non conosco, il dottor Carlo Verdelli, giornalista de La Repubblica, autore di una nota toccante su un problema molto serio ed attuale che prende spunto dal caso di una bambina di origine africana, Farisa, affidata da un giudice illuminato ad una coppia di affettuosi e responsabili padri gay, con l’accordo della madre naturale.
È proprio vero, dottor Verdelli (ipotizzo che lei sia un dottore, ma in ogni caso io non attribuisco molta importanza ai titoli, anche ai miei), oggi i gay, malgrado le recenti modifiche legislative e i movimenti di stampa e di protesta, sono ancora discriminati, soprattutto quando si tratta di adozioni e perfino affidamenti familiari.
Gran parte dei ben pensanti sono apparentemente disponibili verso i gay, ma guardano con grande sospetto alla loro possibile funzione genitoriale.
Non è però su questo che voglio scriverle, dottor Verdelli, ma su un piccolo frammento della sua lettera, lì dove scrive che dobbiamo guardare con favore la genitorialità gay perché «i piccoli hanno diritto alla felicità, al di là delle convinzioni profonde e anche in buona fede di un Paese o di una cultura, al di là dei fondamenti della psicoanalisi o della religione.»
Io sono d’accordo su tutto, ma mi sono chiesta: “cosa vorrà dire «al di là dei fondamenti della psicoanalisi o della religione»?”.
Ecco, caro dottore, mi sento confusa. Sono una psicoanalista da più di trenta anni e in particolare lavoro con bambini, adolescenti e genitori e mi sono sempre sforzata nel mio lavoro di aiutare il paziente a trasformarsi, a crescere, ad essere se stesso, a contenere ed elaborare la sofferenza mentale che tanto spesso lo blocca, al di là delle dimensioni di giudizio, personale, giuridico e culturale. E perciò non capisco bene a quale psicoanalisi lei si riferisca, assimilandoci perfino alla religione, che Freud considerava un’illusione.
Sicuramente, nel tragitto centenario di questa disciplina, gli psicoanalisti hanno molto dibattuto i temi dell’omosessualità a volte favorendo posizioni confuse o ambivalenti, a volte invece raggiungendo profonde comprensioni e straordinarie aperture. Centinaia di libri e articoli sono stati scritti sull’argomento e migliaia di pazienti, con i più svariati problemi, sono stati osservati e curati. Si è capito ad esempio che non si può parlare di una omosessualità, ma bisogna parlarne al plurale perché di tante e diverse forme si tratta, alcune fisiologiche e altre no. Un recente libro di due colleghi napoletani ne tratta con grande ricchezza. Non c’è dubbio che alcuni dei primi epigoni di Freud per certi aspetti non gli resero un buon servizio a questo proposito. Ne derivò la concezione dell’omosessualità come fissazione ad uno stadio pregenitale o regressione ad esso, oppure come incapacità di superare ed elaborare l’Edipo o ancora legata ad una rivalità fraterna insuperabile, ad esempio. Ma Freud era stato abbastanza lungimirante. Ad una madre americana che nel 1935 gli chiedeva consiglio, rispondeva: «Certamente l’omosessualità non è un vantaggio, ma non è nulla di cui vergognarsi, né un vizio né una degradazione, né può essere considerata come una malattia». Egli propendeva che fosse piuttosto «una variante della funzione sessuale prodotta da un certo arresto dello sviluppo» e, considerata l’epoca in cui faceva queste affermazioni, potremmo anche perdonargli il suo considerarla un arresto dello sviluppo, anche perché un tale arresto può essere presente sia per certe forme di omosessualità che per certe altre di eterosessualità. Non possiamo dimenticare poi che Freud pensava che la bisessualità psichica è una legge biologica naturale e questa intuizione ha una portata clinica e culturale rilevante. È proprio grazie alla bisessualità che siamo capaci di amare ciascuno dei nostri genitori, i nostri figli, amici, etc… Grazie alla bisessualità tracce di omosessualità sono presenti secondo Freud in ognuno di noi. Potrei continuare citandole come per molti psicoanalisti è una fase dello sviluppo della persona e altri per i quali invece omosessualità e eterosessualità sono scelte oggettuali possibili che ogni persona organizzerà secondo il proprio funzionamento corporeo, ambientale, personale. Ma questa è naturalmente la complessità della natura umana e questo è l’inevitabile cammino tortuoso e a singhiozzo di ogni approccio scientifico.
Il secondo punto su cui vorrei discutere con lei, dottor Verdelli, è quello che tratta dell’omoparentalità. Naturalmente la maggior parte dei suoi lettori, me compresa, è ben lieta che la piccola Farisa abbia trovato, con l’aiuto di mamma, due genitori affidatari (e perché non adottivi?) sensibili e affettuosi e che ci sia stato un giudice non retrivo e illuminato. Ma non vorrei che attraverso una o più storie, che sono felici soluzioni a sofferenze o drammi umani, si semplificassero problemi culturali, psicologici, antropologici e giuridici immensi.
Per la parte che riguarda uno psicoanalista (che non è l’adepto ad una setta iniziatica, ma uno psicologo o uno psichiatra specializzato in un settore della psicoterapia) il problema è abbastanza più complesso. Le nuove famiglie che caratterizzano oggi il nostro panorama sono, anche e in misura crescente, uniparentali, ricostituite, con figli nati da fecondazioni assistite anche eterologhe, miste, con bambini provenienti da adozioni internazionali e in fine anche omoparentali. Abbiamo perciò oltre alla genitorialità più consueta, situazioni di uni genitorialità, omogenitorialità, plurigenitorielità
Tutte queste diverse forme ci appartengono. Levi Strauss sosteneva una grande varietà della forma famiglia, anche se di una famiglia tutti hanno bisogno.
Ognuna di queste famiglie può crescere bene dei bambini, ma sono innegabilmente diverse le une dalle altre. Affermarne la diversità e studiarne le caratteristiche non significa condannare le une o assolvere le altre. A proposito dell’omoparentalità che può essere un’ottima soluzione come nel caso di Farisa, non basta dire che le ricerche affermano che non c’è differenza nello sviluppo tra bambini nati in famiglie omoparentali da quelli cresciuti in ambito etero. Probabilmente non ci sono danni di sviluppo, patologie emergenti etc.., ma ci saranno sicuramente differenze, come vi sono differenze tra le famiglie uniparentali e le famiglie allargate. Se una donna rimane vedova e cresce il proprio figlio, anche se la funzione paterna può essere svolta efficacemente da un nonno o uno zio o da lei stessa, può perfettamente essere che il bambino cresca sano, ma quell’esperienza lo avrà formato e differenziato, rispetto ad un bambino il cui padre non sia morto. Così avere due genitori dello stesso sesso è diverso da avere una mamma e un papà. Noi ci organizziamo in base a sensazioni molto primitive connesse con il nostro sé corporeo e le sensazioni cutanee del bambino, “l’io pelle” che si forma è organizzato anche sulla base delle sensazioni cutanee generate dal contatto con il morbido della madre e il duro del padre, con il suono della loro voce, con la diversità del loro odore etc…. Questo contatto può essere fornito anche da persone fuori della coppia parentale, ma anche questo avrà un significato.
C’è un elemento cruciale che accomuna l’omogenitorialità e, per esempio, l’adozione o i figli nati da fecondazione assistita, ed è il fatto che questi bambini non provengono dall’atto generativo sessuale dei loro genitori come coppia. Il rapporto con il corpo ed il corporeo è fondante l’organizzazione della nostra personalità. Quanto e come essi porteranno i segni di questa assenza iniziale? Come si organizzeranno successivamente? Al momento non lo sappiamo. Potrà interessarla l’esperienza che come analisti di adolescenti abbiamo, di moltissimi adolescenti adottivi, pur felici con i loro genitori, che arrivati alla soglia dell’età adulta, cerca di trovare il loro genitore biologico e a volte partono per andare molto lontano, Brasile, Russia etc.. A volte essi conservano un ricordo collocato in un suono o in un odore.
Poiché c’è una grande differenza tra possedere un bambino ed essere genitori, mi interrogo sia su tutte le coppie che vorrebbero un figlio a tutti i costi, usando cioè dei metodi che eccedono lo spontaneo naturale concepimento e sono tuttavia consapevole che ci sono situazioni dove tale spontaneo concepimento può non essere disgiunto da fattori molto problematici. Ma non dobbiamo forse interrogarci sul bisogno di possedere un figlio a tutti i costi, un figlio che diverrà poi il contenitore di tutte le nostre proiezioni o rivalse o rivincite, senza poter essere se stesso? Ma questo vale naturalmente per ogni genitore che concepisca così l’avere un figlio e non solo per la coppia omosessuale..
Non vorrei essere fraintesa: non affermo che l’unico modo accettabile di avere figli è la coppia eterosessuale. Sarebbe questa una posizione antistorica, normativa che una persona nella mia posizione non potrebbe mai concepire.
Dico piuttosto che dobbiamo studiare con cura tutte questi nuovi aspetti che caratterizzano l’attuale società, senza dogmatismi e senza facili trionfalismi.
Ecco, caro dottor Verdelli, lo psicoanalista non esprime giudizi, ma giorno dopo giorno con i suoi pazienti è presente, aiuta a comprendere e superare difficoltà evolutive. I nostri studi sono pieni di donne single che chiedono aiuto nel crescere il bambino che hanno avuto, di coppie omosessuali, adottive,etc.. Le nostre ricerche, come quelle di ogni buon metodo scientifico, sono variegate e talora contraddittorie ma sono migliaia in tutte le parti del mondo. Riconosco però che per un profano potrebbe essere difficile leggerle e comprenderne appieno le ricadute.
Il nostro metodo è condividere con il paziente e aiutarlo a pensare, pensare anche l’importanza della differenza, comunque essa si manifesti, accettare l’estraneo fuori e dentro di noi. È per questo che non ho capito la sua affermazione: «al di là dei fondamenti della psicoanalisi». Ma di quale psicoanalisi parla?