LUISA CERQUA: PSICOANALISI e VISIBILITA’ DELLA SPI
Sono contenta che si riparli di come la nostra autoreferenzialità sia un collo di bottiglia che ha relegato la Spi e la Psicoanalisi nella situazione di cui ci lamentiamo. Spoleto è una presenza all’esterno che obbliga al confronto e questo è bene. Vero è che intervistare uno di noi( in tempi giornalistici) è sempre stato pressoché impossibile per un giornalista televisivo o radiofonico, e non solo per la nostra difficoltà a farci ascoltare (spesso siamo noiosi e complicati anche al nostro interno).
Anni fa , facendo parte dell’ufficio stampa del CPDR, non riuscivo a trovare nessuno che volesse andare alla radio. Segnalai all’esecutivo di allora i consigli che mi aveva dato un amico responsabile dell’ufficio stampa di Confindustria . Mi faceva presente soprattutto le tempistiche con cui si lavora nelle redazioni (ancor più di radio o TV) molto difficili da far coincidere con quelle di uno psicoanalista legato dalle esigenze del setting, oltre alle resistenze comprensibili di altra natura.
La nostra mentalità era lontanissima dalle conseguenze future collegate a tutto ciò. Il mio amico definiva la situazione della VISIBILITA’ istituzionale in modo sintetico: “ Video ergo sum”.
Se si vuole risolvere questo nostro cruciale problema bisogna pensare, sempre meglio, alla consulenza di un ufficio stampa esterno, esperto di logiche del marketing istituzionale e che sappia indicare attraverso quali appropriati canali sia realizzabile qualcosa di efficace per “rendere visibile” una realtà, la nostra, che lo è sempre meno. Lo so che sono scandalosa a parlare liberamente in questi termini, Musatti ci ha insegnato però che “invecchiare conviene se si diventa più liberi”.
Oggi esiste un “ prodotto” SPi che in pochi eletti sanno cosa sia e dove sia, si sa solo che è difficile raggiungerlo, inaccessibile all’informazione comune, non prevedibile nella durata e assai costoso, per non dire della vexata questio del numero delle sedute!
Questo “prodotto” è inoltre sperso tra una marea di contraffazioni a buon mercato. Di fronte a questo si trova il potenziale nostro paziente.
I giornalisti non ci stanno insultando! fanno da specchio ad una nostra grande fragilità e non è facile accettarlo. Di sicuro non vale la pena difendersi dalla frustrazione proiettando su loro qualcosa che attiene ad un nostro modo di essere(nonostante il valore, la grande buona volontà e sacrificio di molti di noi per andare avanti). Sarebbe meglio però non confondere visibilità personale con visibilità della Psicoanalisi e della SPI. Magari sapessimo usare TV o radio al servizio della SPI ! anche pensando di proporre noi un qualcosa adatto per informare correttamente e con semplicità. Altro che esorcizzarla la TV! Mi sembra che rischiamo il discorso della volpe e l’uva.
Abbiamo colleghi brillanti e competenti di sicura rappresentatività, ma è però necessario tener presente che purtroppo , nonostante l’importanza della psicoanalisi italiana, non siamo più in grado di dettare condizioni a chicchessia, dalla posizione di autoemarginazione in cui socialmente ci siamo ficcati a forza di ritenerci al disopra e al difuori della realtà in cui siamo immersi . Voglio essere ancora più esplicita. Sarebbe bello dettare noi le condizioni nella comunicazione pubblica, ma è un’illusione. I media sono realtà governate da leggi interne consolidate, in particolare la TV, che da tempo ci ignora perché ha deciso di guardare altrove, a torto certamente, ma forse anche a ragione, dato il nostro pluriennale snobismo difensivo!!!
Bisognerebbe invece prepararsi in merito per essere sicuri di riuscire a saper usare almeno un po’ questi mezzi! Esistono molti contenitori per l’informazione e siamo noi a dover capire quali siano adatti al nostro scopo e come essere in grado di esserci.
Sono capacità che vanno imparate; ne vanno capite logiche e ” tempi”. E’ questo che permette a chi parla attraverso un media di ” arrivare a chi ascolta” e di non essere noioso, pedante o peggio ancora incomprensibile ai più.
Stiamo parlando come se fossimo competenti di Media che invece non conosciamo affatto. Tanto per fare un esempio: la brillantezza di un oratore che parla in sala ad un pubblico presente non è detto che funzioni sul piccolo schermo. Va tarata perfino la lunghezza delle frasi usate per dire un concetto. Di sicuro noi ne saremmo capaci, abbiamo grande esperienza di sintesi attraverso l’arte dell’interpretazione, eppure quando parliamo di psicoanali ci imbarchiamo in raffinati funambolismi comprensibili solo tra di noi.
Ho usato non a caso l’espressione” tempi” ! chiave di successo di una comunicazione, come insegnano quelli del mestiere. Conta moltissimo anche la dote di simpatia naturale. Riflettere anche su questo non cozza con l’oro della psicoanalisi. Anzi!
Se veramente vogliamo andare avanti in questa direzione dobbiamo fare i conti con quello che la “situazione da affrontare” impone. Non basta più confrontarsi (più o meno idealisticamente) con quello che ci piacerebbe che la realtà fosse. Parlare di visibilità SPI è cosa diversa da quello che in molti stanno dicendo. Comunque non scordiamo che per essere psicoanalisti non basta il titolo astratto, bisogna avere pazienti in studio! esercitare il mestiere della cura (ogni giorno e con pazienti veri che se ne giovano) no? Nel passato si facevano analisi a 4 sedute( e grazie a Dio se ne fanno ancora) anche perché padri analitici come Musatti, Servadio, Bellanova etc. erano collegati al mondo esterno, all’arte e alla Cultura in generale, cinema , letteratura. La gente li conosceva e stimava, sentiva e capiva quello che erano capaci di proporre…..
ROSSELLA VALDRE’
Il 23 Aprile noto, sulla pagina facebook del sito, un interessante video su “Visionari”, trasmissione condotta da Augias andata in onda la sera prima, su Sigmund Freud, che giustamente Donatella Lisciotto segnala.
Lo avevo del tutto perso e ignorato (non amando particolarmente Augias, pur riconoscendogli una certa grazia ed eleganza, cosa non scontata nella televisione generalista). Credo che il primo commento ‘a caldo’, sulla ML, sia proprio il mio: “per essere un prodotto televisivo – scrivo – in quel poco tempo, non poteva fare di meglio: garbato, delicato, rispettoso, con delle curiosità, non troppo banalizzante. Bene le sintesi dei bravi commentatori….come penso tutti avrete notato, un unico neo che continua a dispiacere: nessuno di noi….”. Concludevo comunque dicendo essere sempre bene che si parlasse di psicoanalisi.
Una di quelle fortunate occasioni, questo spunto, che accendono subito un vivace e autentico dibattito il ML: sono piovute mail, da molti colleghi. Apparentemente partito da Augias, dall’evidente “scandalo”, come qualcuno l’ha chiamato, che a parlare di Freud non ci fosse nessuno di noi (!), il tema di fondo era la divulgazione: divulgazione sì, divulgazione ni (nessuno dice no), ma divulgazione come, con che linguaggio, perché abbiamo ancora così poco accesso (e come ho scritto, per ora limitatamente alla stampa, ma non alla televisione). Dire che ne sono seguite due linee di pensiero è forse eccessivo, ma sostanzialmente qualcuno, tra cui io (e forse i più) sostengono che la divulgazione (brutta parola, scrivo in un’altra mail, che associamo a banalizzazione, e andrebbe forse sostituita con diffusione delle idee) sia non solo necessaria ma doverosa, che paghiamo l’amaro scotto di anni d’isolazionismo forse snobistico e autoreferenzialità, che si stanno muovendo i primi passi ma si continua a essere poco conosciuti e consultati dai giornalisti soprattutto televisivi, più costretti, rispetto ai colleghi della carta stampata, a tempi ridotti, al rispetto dell’audience, a fornire prodotti che anche quando di qualità, come voleva essere questo, devono necessariamente parlare a un grande pubblico, e dunque semplificare il linguaggio e, soprattutto, cosa per noi difficile, essere sintetici.
Personalmente, se è lecita una piccola nota personale, sono una lettrice avida, ma amo ugualmente la televisione, non la trovo un mezzo di serie B: è diversa. Ma è stata la televisione, e non la stampa, non dimentichiamo a modificare gli stili di vita, persino il linguaggio degli italiani e a diffondere, sulle prime, la lingua italiana stessa rispetto ai dialetti, all’interno di quell’omologazione che si può ritenere odiosa, quella mutazione antropologica pasoliniana la cui analisi è acuta e condivisibilissima, ma di fatto tale mutazione è avvenuta. La televisione entra in tutte le case; nonostante il pubblico di rai3 sia già tra i più selezionati, i destinatari televisivi sono spesso le persone più semplici (lo dicono i sondaggi), che leggono meno, più passivi nella ricezione, che tendono a farsi condizionare e a non approfondire: ma anche a questi occorre saper parlare. Questa premessa, forse inutile, per dire insomma che dalla televisione, e oggi ancora meno dal web, non si può prescindere.
Venendo alla mia opinione, che raccolgo dalle mail di quei giorni, rispetto a qualcuno che ha accennato a una certa ‘malafede’ del giornalista in questione (ma come, non sapeva che esitiamo, dove vive?), io credo invece non vi sia alcuna malafede, o partito preso o nulla del genere: la cosa mi pare desolatamente più semplice, cioè non ci conoscono. Dalla mia poca, ma non pochissima in fondo, conoscenza dei giornalisti, ho notato che, a parte le eccezioni di quelli dedicati a un settore come fu nel nostro caso la scomparsa Luciana Sica, gli altri (e soprattutto quelli televisivi) sono sostanzialmente abitudinari e pigri, e hanno l’esigenza fortissima di andare sul sicuro: non possono permettersi di rischiare, tantomeno in programmi in prima serata nelle reti maggiori, e così chiamano quei due o tre nomi che hanno in rubrica, che sanno essere ‘prodotti sicuri’, ottimi divulgatori, noti al pubblico e anche un po’ amati, capaci di sintesi semplici e al tempo stesso non proprio vuote. Non tanto non conoscono la SPI, qualcuno saprà cos’è, ma non la associano a volti e voci di nessuno di noi, volti e voci che siano rassicuranti, poiché un’altra caratteristica del pubblico medio televisivo (ne esistono anche diversi studi) è che, al pari del giornalista, preferisce trovare ciò che conosce, facce note, di cui si riconosce subito la cifra, sene intuiscono bene o male le corde del pensiero. Non è il nostro caso.
Qui si particolarizza il dibattito in ML: chi è dell’idea che questo vada favorito e creato, non mollando la presa come ha fatto la brava Spadazzi, a mio parere, che ha direttamente parlato con Augias, continuando a farsi sentire, a ribattere quando in casi come questo veniamo scandalosamente ignorati lasciando come unico analista lo junghiano Galimberti (che, scrivo anche, ci sarebbe anche stato ma accanto, e non al posto, di uno di noi), ritenendo la divulgazione qualcosa che ci onora, che i nostri padri Freud prima, Winnicott poi facevano con i mezzi di allora e oggi farebbero, adattandosi forti del loro sapere e con la loro profonda umanità e intelligenza, senza perciò sentirsi sminuiti e ben lontani dal poter dettare condizioni. Chi, con sfumature diverse, sottolinea invece il pericolo che la psicoanalisi banalizzi così il suo pensiero, che volendo ci sono le fonti, nella stampa, in cui leggerci e conoscerci, e che insomma la cosiddetta divulgazione richieda un’attenzione estrema.
Sono stati ovviamente citati i ‘sicuri’ Galimberti e Recalcati, ormai omnipresenti, e sui quali ritengo non aver nulla da dire; non è la loro presenza il problema, ma la nostra assenza: la loro voce, in fondo qualificata (a mio avviso, soprattutto nel secondo), dovrebbe stare accanto alla nostra mostrando così al pubblico, semmai, le complessità e le differenze tra i tre pensatori da cui deriviamo e su abbiamo comunque la priorità, il senso delle scissioni e via dicendo, di modo da fornire, in parole semplici, quello che è oggi una nostra ricchezza: la pluralità dei linguaggi che spesso citiamo ai congressi, i tentativi d’integrazione con altri saperi pur mantenendo la nostra specificità (cui, personalmente, tengo moltissimo). Non vedo il rischio di confondersi, appiattirsi, banalizzare, o altro; ho fiducia, trovando i portavoce giusti in chi è portato a parlare al pubblico o nelle nostre figure rappresentative, che come appunto fecero Freud e Winnicott, in bocca ad alcuni la divulgazione diventerebbe diffusione di un sapere. Che valore ha in fondo un sapere, scrivevo in un’altra mail, se non è almeno un po’ diffuso?
Concludendo la sintesi del contenuto delle mail che sono stata, con molto piacere, invitata con altri a fare (è importante che tutto ciò resti, che lo si lavori al di là della immediatezza), torneei su ciò che scrissi a conclusione di una mail: che la buona divulgazione, ossia il comunicare con parole semplici concetti complessi, non è da tutti, non è prodotto di scarto: è un’arte.
CLAUDIA PEREGRINI
Noi, le Neuroscienze e altri
Con il premio Nobel E. Kandel, sappiamo in modo incontrovertibile che le esperienze diventano strutture biologiche: l’attivazione continua di cellule neuronali (‘barriere di contatto’, le chiamava Freud) innesca meccanismi genetici cellulari che promuovono la crescita di altre sinapsi. L’esperienza dell’imparare e del ricordare, esplicitamente e implicitamente (la terapia analitica!) e il suo grado di intensità, ha effetto trofico di per se stessa. Sappiamo quindi che la parola ha la possibilità di operare come stimolo particolare, che modifica in modo duraturo l’anatomia e la funzionalità delle aree nervose interessate.
La moderna neurobiologia (ci spiegano importanti neuro scienziati, oggi) ha la stessa idea di memoria di Freud. Freud aveva immaginato che le barriere di contatto avessero una plasticità, si modificassero con l’apprendimento, nel senso che l’immagazzinamento in memoria comportava una crescente permeabilità delle ‘barriere’ tra i neuroni del sistema memoria. Oggi, quella modificazione si chiama ‘Plasticità sinaptica’.
A noi psicoanalisti serve nella clinica tenere in mente queste cose?
Sapere oscillare tra i vari livelli percettivo descrittivi della realtà e le rispettive lingue (medicina e psicoanalisi, che sono solo due sistemi esplicativi diversi della stessa realtà e hanno uguale importanza e dignità) serve a entrare in una prospettiva di coesistenza, che allarga il nostro modo di vedere e ci porta lontano da ogni totalitarismo ermeneutico, da ogni riduzionismo che può operare il realismo tout court, da ogni forma di narratologia a oltranza e pure dall’enfasi eccessiva data alla ricerca (neuro scientifica, ecc). Una ricerca che, pur essendo indiscutibilmente il nostro presente e il futuro, dovrebbe non essere usata in modo ideologico.
Da un punto di vista clinico, conoscere i ‘dati di realtà’, sapere oscillare tra le due forme di conoscenza, psicoanalitica e medica, apre prospettive di pensiero e di contatto con i pazienti assolutamente nuove.
Da decenni siamo al lavoro, psicologi, psicoanalisti, neuro scienziati e altri scienziati di campi diversi (basta pensare al modello multidimensionale della relazione ambiente/struttura/funzione, per esempio il modello dell’Attaccamento in Bowlby) per avvicinarci a una parziale comprensione dello sviluppo emotivo umano e ci siamo riusciti.
Il lavoro insieme ad altri scienziati, con lo stesso oggetto di ricerca e le diverse lingue, e’ l’unico futuro possibile.
Esiste una divisione ‘assurda’ tra gli psicoanalisti che stanno con le Neuroscienze e la ricerca (e in esse a volte sembrano trovare la sola vita possibile) e gli psicoanalisti che si schierano contro (o se ne disinteressano), dicendo che i piani logici sono incompatibili e la psicoanalisi verrà rovinata. Un atteggiamento, In entrambi i casi, che mi pare quasi un compiacimento: non può che aiutarci a franare meglio e più in fretta.
Noi e la comunicazione con l’esterno
Siamo certamente corresponsabili (come mi pare dicano anche i colleghi Cerqua e Moroni nel dibattito in corso) di tutto questo fatale conformismo, gentilissimo Augias compreso (Nella sua trasmissione televisiva “Visionari”, Rai 3, 21/4/2014).
Vogliamo essere presenti nei media?
Mauro Mancia, scienziato di statura e con una gran carriera, in una trasmissione di Lerner aveva ottenuto molto spazio per mettere in scena il suo antico odio viscerale per Berlusconi. Non svelo alcun segreto se sottolineo che Mancia era molto amico di Pirani, amicissimo di Lerner. Voglio dire che, per i circuiti mediatici relativamente o totalmente tradizionali, di moda (anche i belli, come nel caso di Lerner), bisogna forse coltivare fin da bambini alcune precise relazioni (oggi, una rete di relazioni!). Per altri ‘circuiti’, diversi, certamente non così popolari, ci vogliono, come sappiamo tutti, indipendenza, forza, coraggio. Con il rischio talvolta di essere espulsi dai giri giusti e perfino dai gruppi di appartenenza. Inoltre, l’Italiano come lingua strumentale, o istituzionale -nel nostro caso, della classe psicoanalitica)-, oppure parlata, nei rapporti più umili, più semplificati (mediatici), era un tema già caro a Pasolini.
Come fare a usare il grande ‘dialetto’ mediatico introducendo elementi colti, raffinati, una raffinatezza polemica contro la lingua banalizzante, elementi vivi, contro la fine del nostro engagement? Sapere usare la verve colta anti psicoanalitica di Galimberti? (E’ essere junghiani?)
Diventare oratori, con riferimenti forti e chiari alla tradizione perduta, come Recalcati? Credo che, per ritardare ancora un momento il fatto incontrovertibile che “Siamo a una svolta, forse a un tramonto”, bisognerà rassegnarsi ad abitare delle nicchie forti, dove si respira una buona intransigenza interiore mescolata a un lucido sentimento del tempo che viviamo, dove non si tradisce per le mode e/o le appartenenze di facciata…
E’ lui, il tempo, a scardinare noi così incerti e compromessi, non siamo noi a poterlo inseguire!!!
Comunque, anche lo stile e’ un privilegio, nel senso che richiede una forte libertà di ricerca, fonte di incertezza continua e assenza totale di garanzie.
Ma dobbiamo pur lavorare!
Certo, proprio per questo.
ANGELO MORONI
Il colloquio avuto tra Clauda Spadazzi e Corrado Augias a seguito della trasmissione “I Visionari” sembrerebbe l’impietoso giudizio di un’auctoritas mediatico-televisiva e giornalistica sulle difficoltà degli psicoanalisti Spi ad essere contattati (aspetto peraltro confermato dal commento del giornalista sulla pagina Facebook della Spi, riportato da Roberto Goisis recentemente in mailing list). Non credo sia un problema di malafede da parte di Augias, o di altri giornalisti che desiderano, non si sa poi perché, “oscurare” la Spi, quanto piuttosto vedrei nelle parole di Augias l’evidenziazione di un problema di timidezza se non di riluttanza da parte nostra a fare compromessi con uno stile mediatico-televisivo cui siamo distanti mille miglia, ma che consente ineluttabilmente una visibilità e un’incidenza di un certo tenore sul piano culturale. Non si tratta, credo, di “vendere un prodotto”, quanto di stabilire un equilibrio generativo tra visibilità e autorevolezza, operazione difficile, ma non impossibile da attuare. Sono anni che mi chiedo peraltro come sia possibile che le uniche voci psicoanalitiche presenti sui principali giornali italiani (e in prima pagina, ad una frequenza di pubblicazione cospicua), e nelle televisioni, siano Galimberti e Recalcati, quest’ultimo di scuola lacaniana, e che quindi non fa neppure parte dell’Ipa. Si tratta di questioni legate al mercato? Di dinamiche interne agli ambienti giornalistico-editoriali che vanno per la maggiore e che hanno più potere? Non lo so, ma credo occorra non “oscurare” noi quella parte di realtà. Ad esempio il già citato Recalcati è stato più volte ospite di Augias stesso nella sua trasmissione “Le storie” (nonchè poi alla trasmissione quotidiana in prima serata di Lilli Gruber su La7, tanto per parlare, più in generale, di “visibilità”). Quando Augias utilizza poi il verbo “comunicare”, credo si debba tradurre tale verbo come “essere dei comunicatori”, in termini televisivi ovviamente, perché quello è l’ambiente e la cultura che frequenta Augias, non certo i nostri gruppi di studio. E quindi perchè Augias non dovrebbe avere una “visione vecchia della psicoanalisi” se non lo aiutiamo noi a modificare la sua percezione? Lui fa il giornalista televisivo, non lo studioso delle trasformazioni del movimento psicoanalitico italiano. Insomma, io credo che i problemi relativi alla nostra peculiare identità, alla sua continua costruzione e trasformazione vitale, alla sua visibilità, alla sua autorevolezza, e alla sua interazione intersoggettiva con altre aree del mondo culturale che ci circonda, siano tutti e solo problemi nostri.
Ho infatti spesso l’impressione che siamo spesso vittime di un’illusione che è poi quella di poter mantenere una posizione di privilegio (quale, poi?) all’interno di un mondo che cambia alla velocità della luce. Parlando di “illusioni”, se non ricordo male credo sia Britton che descrivendo il rapporto tra “credenza” e “immaginazione”, raccontava un ricordo per lui emblematico relativo alla sua adolescenza, all’inizio della quale si trovò a pensare: “accidenti, non sarà come l’altra volta, come con la questione di Babbo Natale…”, riferendosi al crollo delle sue illusioni onnipotenti infantili, mentre si affacciava appunto all’adolescenza. Ecco io credo che stiamo vivendo una situazione simile a quella descritta da Britton, ma non so se ce ne rendiamo conto in modo davvero profondo, se sia presente un insight. Molti colleghi con cui ho discusso di questi temi, mettono a fuoco molto bene questa nostra lontananza (come SPI) dalla realtà mass-mediatica, una distanza che ci fa perdere terreno ed incidenza (di qualsiasi natura) all’interno della cultura italiana contemporanea, e questo è grave, anche sul piano etico a mio avviso. E’ per questi motivi che trovo incomprensibile che le uniche voci “psicoanalitiche” presenti in TV e sui giornali, siano all’oggi quelle che rappresentano la cultura junghiana (Galimberti) e lacaniana (Recalcati), mentre non siano affatto presenti (in modo incisivo, cioè per dirla in termini televisivi: in modo da “bucare il video”) voci psicoanalitiche freudiane, cioè di quel Freud che ha fondato l’IPA nel 1910, non Jung o Lacan, giustappunto (piccolo, ma forse non secondario particolare).
Perchè un giornalista dovrebbe poi rispettare il nostro “setting” (interno/esterno) (per un giornalista un’intervista ha un suo setting, che è più somigliante al concetto di “casting”, in verità) o parlare il nostro linguaggio? E perchè, poi, fare di tutte le erbe un fascio, quando si parla di “mondo massmediatico”? Pensiamo ad esempio alla trasmissione “L’Infedele” di Gad Lerner (non più ahimè in onda): mi ricordo che anni fa ci partecipò anche Mauro Mancia, invitato a parlare (a lungo e con tutto il tempo a disposizione) di Berlusconi. Si trattava, mi sembra, di una trasmissione dai toni pacati, fermo restando l’incontrovertibile realtà che i tempi televisivi sono quelli che sono. Pensiamo al magazine scientifico-culturale “Leonardo”, in onda su Raitre, nel quale sono spesso intervistati in modo molto attento filosofi e scienziati di varie discipline. Parlando poi della essenziale esigenza di unire rigore e autorevolezza a visibilità mass-mediatica, mi viene in mente Massimo Cacciari (spessissimo ospite sempre della stessa Gruber), che è indubitabilmente un pensatore molto fine e di grande cultura storico-filosofica (vedi il suo ultimo, interessantissimo libro di filosofia politica “Il potere che frena”, Adelphi, 2013), ma anche, sempre, capace di essere “divulgativo” e rigorosamente dialettico (anche con modalità a volte sanamente sanguigne e conflittuali) con i suoi interlocutori televisivi. Non credo, voglio dire, sia impossibile trovare canali di visibilità in cui rendere la presenza della nostra disciplina/arte più incisiva, pur rispettandone specificità, autorevolezza e rigore, a patto di voler accettare compromessi inevitabili con le seduzioni del piccolo schermo (seduzioni che sono intrinseche alle sue modalità costitutive, e che si basano poi sull’audience, cioè sugli introiti pubblicitari, suppongo). Tutto sta a volerci provare.
Alcuni colleghi affermano che all’interno della SPI abbiamo idee troppo diverse della psicoanalisi per trovarci d’accordo (quindi anche in tema di rapporti con l’orrido, “psicotico” mondo massmediatico). Ritengo che un conto sia il dibattito scientifico all’interno di una Società psicoanalitica, dibattito che può ovviamente essere molto acceso (come è peraltro sempre stato nella storia del movimento psicoanalitico) e vedere posizioni anche contrapposte, anche incompatibili; e un conto sia il rapporto che una istituzione psicoanalitica, nella sua pur multiforme e composita identità costitutiva e in divenire, intrattiene con canali massmediatici che possono renderla obiettivamente più “visibile” sul piano culturale nel presente che viviamo. Infatti i Recalcati ci vanno in televisione, eccome . Tuttavia anche le Società lacaniane (come quelle junghiane suppongo) sono attraversate da posizioni teoriche diverse, tanto è vero che Recalcati stesso ha per esempio guardato con un certo cipiglio critico (anche su Repubblica) il suo collega Di Ciaccia per aver preso parte al volume ecumenico “In difesa della psicoanalisi” (scritto con Bolognini, Argentieri e Zoja – Einaudi), in modo secondo lui troppo poco coraggioso. Non mi sembra quindi che il problema della “visibiltà” della nostra Società sui media italiani risieda nella conflittualità interna (sicuramente anche, ma non in quanto primum movens). Mi veniva piuttosto in mente una recente ricerca di Danah Boyd, citata anche da Federico Rampini in un suo articolo di questi giorni su Repubblica, sulla vita sociale degli adolescenti collegati in rete (la ricerca, frutto del lavoro di anni, si intitola, significativamente “It’s complicated. The Social Lives of Networked Teen”). In questo lavoro la Boyd sostiene in sintesi che i genitori guardano con sospetto all’uso della tecnologia che fanno i proprio figli, perché sono degli “immigrati digitali”, non dei “nativi digitali” come gli adolescenti di oggi. Un adolescente di oggi deve socializzare attraverso i media virtuali, semplicemente per mancanza di altri spazi (o contenitori sociali), il loro environment è diventato questo, cioè non è più quello della famiglia allargata. Più che gli adolescenti , il problema è costituito più dai genitori, che, a detta della Boyd, “si sono reinventati la propria infanzia, ricordandola come un luogo molto migliore, più ricco, più facile e più sicuro di quanto fosse in realtà”. Tornando a Britton, e al suo ricordo adolescenziale sulla “credenza” di Babbo Natale, credo che le nostre difficoltà ad avvicinarci ai massmedia risieda appunto nel fatto che anche noi siamo degli “immigrati digitali”, ci muoviamo con sospetto nel presente, facciamo fatica ad accettarne le regole, e preferiamo idealizzare l’idea di una “nicchia” (o “rifugio della mente”?) in cui “resistere”, o nella quale coltivare la rassicurante idea di un analista fantasmatico, invisibile (“freudiano”?).