Cultura e Società

La psicoanalisi è morta – P. Matrolilli, F. Sforza, E. Santolini per LA STAMPA 4 e11 marzo 2015

30/03/15

La Stampa –  4 marzo 2015

Paolo Matrolilli “Dio è morto, Marx è morto e anche la psicoanalisi sta poco bene”.

La Stampa –  4 marzo 2015

Francesca Sforza “Italia, crescono le terapie brevi ma il futuro guarda a Oriente”

La Stampa – 11 marzo 2015

Egle Santolini “Freud è un po’ invecchiato ma la sua cura aiuta ancora”

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LA STAMPA, 4 Marzo 2015
PAOLO MASTROLILLI – NEW YORK: Dio è morto, Marx è morto e anche la psicanalisi sta poco bene
Allarme da New York: è incalzata da surrogati come lo yoga e persino dall’iPhone
Woody Allen sul lettino dell’analista
04/03/2015

«Dio è morto, Marx pure, e anche io non mi sento molto bene». Se a questa battuta rubata a Eugene Ionescu ci aggiungiamo che la stessa psicanalisi se la passa piuttosto male, incalzata da surrogati più abbordabili tipo lo yoga, la meditazione e persino l’iPhone, è lecito supporre che Woody Allen sia disperato. Eppure i numeri non mentono. Secondo uno studio Usa citato dal New York Post, dal 2003 ad oggi l’età media dei 3.109 analisti membri dell’American Psychoanalytic Association è salita di 4 anni, arrivando a quota 66. Significa che stanno diventando più vecchi, perché diminuiscono i giovani interessati a seguire le loro orme professionali. Ciò accade per un motivo molto pratico: stanno sparendo i pazienti. Tra il 1950 e il 1960, infatti, ogni terapista americano vedeva in media fra 8 e 10 clienti al giorno. Ora sono scesi a 2,75, quando va bene, perché molti di loro non hanno neppure un paziente da seguire.

Le critiche
I motivi di questa crisi, e la sua stessa esistenza, sono molto dibattuti. Jacques Lacan ne discuteva già negli Anni 70, per negarla. Siccome si tratta della salute di parecchie persone, e le opinioni variano, dobbiamo riconoscere dal principio che per molti pazienti e molti analisti la critiche sono semplicemente infondate. Poi c’è da tenere presente che la disputa è anche ideologica, con gli intellettuali di destra più inclini di quelli di sinistra a demolire Freud. Nello stesso tempo, però, la letteratura che mette in discussione la credibilità della disciplina nata con Sigmund Freud è piuttosto vasta. Alcuni dicono che non ha vero fondamento scientifico; altri che ha cercato inutilmente di sostituirsi alla religione, in particolare al sacramento della confessione; altri ancora che non ha ottenuto risultati terapeutici dimostrabili.

La crisi
Lo studio citato dal Post sostiene che la crisi, almeno in America, è frutto di vari fattori. Da una parte, la psicanalisi non ha mantenuto le promesse sul piano della capacità di risolvere i problemi dei pazienti, spesso vincolati a cicli infiniti di sedute che non hanno mai un punto d’arrivo. Dall’altra, la nostra società sempre più individualistica è diventata difficile da trattare, e le alternative alla riflessione sul lettino si sono moltiplicate, valide o infodate che siano.
Di questi problemi ha parlato Sebastian Zimmermann, noto psichiatra dell’Upper West Side di Manhattan, che ha appena pubblicato un curioso libro fotografico intitolato Fifty Shrinks. Contiene le immagini di cinquanta famosi colleghi, a partire dal mito Martin Bergmann, perché «volevo catturare la vecchia guardia, prima che fosse troppo tardi». Secondo Zimmermann, «oggi viviamo nell’era del narcisismo. Pensiamo di essere così unici, speciali, di sapere tutto, ci scattiamo i selfie. Questo è un mondo molto diverso da quello con cui aveva a che fare Freud».

I narcisisti
L’emergenza è evidente: «I narcisisti sono le persone più difficili da trattare. Generalmente non vengono mai in cura di loro spontanea volontà. Tutti gli altri sono il problema, mai loro». Secondo Zimmermann, «la gente che oggi va alle classi di yoga, o ai ritiri di meditazione, era quella che un tempo veniva in analisi». Adesso invece persino l’iPhone è diventato una minaccia che allontana dal lettino, non perché offra la stessa possibilità di riflettere su se stessi, ma perché ci travolge con la sua continua richiesta di attenzione, e quindi ci distrae dai problemi che invece dovremmo discutere con uno «strizzacervelli».
Il dibattito è destinato a continuare e molte voci si alzeranno in difesa della psicanalisi. Vedere le foto della «vecchia guardia» di Zimmermann, però, fa pensare alla fine di un’epoca.

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LA STAMPA, 4 marzo 2015
FRANCESCA SFORZA : Italia, crescono le terapie brevi ma il futuro guarda a Oriente.

Tempo di bilanci per la psicoanalisi italiana: domenica saranno presentati ufficialmente a Roma i dati di una ricerca che viene effettuata ogni 10 anni e che fa il punto sul numero di pazienti, sul tipo di sofferenze trattate, sui tempi e i modi delle terapie, chiamate a confrontarsi con le società che cambiano.

L’indagine è stata condotta dalla Società Psicoanalitica Italiana, la più antica d’Italia, che raccoglie oltre mille soci ed è presente in quasi tutto il territorio nazionale con 11 centri. Nel complesso sono stati inviati 505 questionari, pari al 57,5% di tutti i soci Spi. Il settore è in crisi? Come ha osservato, parafrasando Mark Twain, il dottor Giuseppe Sabucco, psicoanalista del centro milanese, tra i curatori sia della ricerca attuale sia di quella del 2004, «sembra di poter dire che la notizia della nostra morte appare un pochino esagerata».
Pazienti e terapie

Non si può parlare di un calo nel numero di pazienti, ma è scesa la media del numero di sedute che si è disposti ad affrontare. «Vi è una proporzionale riduzione delle ore di analisi effettuate individualmente – osservano Diego Buongiorno e Raffaele Russo, dei centri di Palermo e Napoli – ma non vi è un calo complessivo, soprattutto se si pensa che ci troviamo comunque in epoca di crisi economica». In definitiva ci sono sempre intorno ai 10 mila pazienti che in Italia in questo momento sono in analisi in senso classico (cioè con tre o quattro sedute la settimana) e un numero appena inferiore di persone che con gli stessi analisti fa una terapia più «leggera» di una o due sedute settimanali.

Dolori vecchi e nuovi

«In passato si registravano patologie più isteriche, erano diffusissimi gli attacchi di panico – dice il dottor Antonino Ferro, presidente Spi -: oggi invece si registrano più sofferenze legate all’identità». Guardando i numeri, si osserva che i disturbi della personalità sono passati dall’82% dei casi nel 2004 al 96% di oggi, mentre la percentuale degli analisti che hanno almeno un paziente con diagnosi di disturbo schizofrenico è passata dal 17% al 30,7%. Come dice la dottoressa Daniela Battaglia, del centro di Bologna, «mi sembra importante sottolineare che è aumentata la percentuale di soci che trattano disturbi considerati gravi ».

Identikit del paziente 2.0

Tra i dati interessanti c’è la dilatazione delle fasce d’età: si comincia molto prima e si finisce molto dopo. «Risultati molto buoni sono stati registrati dal modello svedese – dice la psicoterapeuta Jones De Luca – che prevede la psicoterapia per i neonati, così come è molto più frequente di un tempo che si inizi un’analisi a 60 anni e oltre».

Il futuro – sostiene il dottor Ferro – è nella prevenzione: «Quando si comincia un percorso terapeutico da bambini, è chiaro che durerà di meno, sarà più efficace ed eviterà sofferenze e spese future». In molti casi si tratta di vincere le resistenze dei genitori, «ma, se si supera la ferita narcisistica, i vantaggi per i figli sono enormi». Cresce poi il successo delle sedute via Skype e il responso è unanime: si adatta meglio ai ritmi delle vite viaggianti.

Guardando a Oriente

Come membro della Società psicoanalitica americana, il dottor Ferro invita a non trascurare gli spunti che arrivano da Oltreoceano: «Non fermiamoci ai numeri, la psicoanalisi europea è più lenta, sentiamo il peso delle nostre tradizioni. Gli americani invece sono più iconoclasti, amano conquistare nuove praterie. Adesso per esempio – dice ancora Ferro – bisogna seguire con attenzione il lavoro di Thomas Ogden, di San Francisco che sta dando delle svolte importanti».

Le sfide puntano verso Oriente: dalla Turchia alla Cina cresce il bisogno di accostarsi alla psicoanalisi e grazie alle tecnologie il contatto fra terapeuti lontani è diventato intenso come non mai.

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LA STAMPA – 11 marzo 2015
Egle Santolini – Freud è un po’ invecchiato ma la sua cura aiuta ancora

Secondo lo Psichiatra Maurilio Orbecchi “l’analisi è morta”.
Gli risponde Antonino Ferro, presidente della Società Psicoanalitica Italiana

Ogni tanto, ogni poco, ad Antonino Ferro tocca il compito di replicare a chi dà per spacciata la psicoanalisi. In Italia è probabilmente il meglio accreditato a farlo, come presidente della Società Psicoanalitica Italiana, considerata la freudianamente più ortodossa. Eppure, come scoprirete tra poco, le classificazioni troppo rigide non servono a una comprensione del tema.

Ferro, ci risiamo. Nella sua Biologia dell’Anima, e in un’intervista a La Stampa di ieri, Maurilio Orbecchi mette una croce sopra alla cura freudiana.

«Mi verrebbe da dire che dev’essere ben viva e che deve continuare a dare un gran fastidio, la psicoanalisi, se in tanti si ostinano a voler vederla morta. Invece è in ottima salute, serve e continua a far star meglio le persone: il che è l’elemento decisivo. Le pare che continuerei a esercitarla se non funzionasse? Il problema, semmai, mi sembra un altro. E cioè: di quale psicoanalisi stiamo parlando?»

Di quella, immagino, nata a Vienna un centinaio di anni fa.

«Appunto. Che Freud ci ha lasciato come un organismo vivo, in continua evoluzione, e che nel giro di un secolo ha saputo adattarsi ai cambiamenti. Secondo lei avrebbe senso che un infettivologo del 2015 si dicesse pasteuriano? È la medesima cosa. Il rito classico, come uno se l’immagina, sopravvive soltanto in certe roccaforti lefreviane. Pensi per esempio allo stereotipo dell’analista neutro, che resta muto per decine di sedute».

Quello da barzelletta, da vignetta del New Yorker.

«Appunto. Una figura che non esiste più, se si escludono quelle famose enclave tradizionaliste. L’analisi è fondamentalmente la storia di una relazione, di un lavoro a due in cui si costruisce e si narra insieme. Ed è la relazione a guarire».

Ma non è sempre stato così?

«In teoria. Però agli albori della disciplina quello che prevaleva era una forte asimmetria fra paziente e terapeuta, con un’accentuazione dell’aspetto interpretativo e l’analista un po’ in veste sacerdotale. L’inconscio era considerato come un’isola inespugnabile, una specie di Alcatraz. E il sogno come un apriscatole».

Questa deve spiegarcela meglio.

«Ha presente quegli apriscatole antiquati, con cui facevi un buco nella lattina finendo sempre per tagliarti? Ecco: il sogno, “la via regia all’inconscio”, secondo la vecchia definizione, veniva usato un po’ in questo modo. Oggi si è capito che il male, la sofferenza, vengono da ciò che nei sogni non è nemmeno contemplato: elementi non espressi, non pensati, non elaborati».

Non la usate più l’interpretazione dei sogni?

«Può capitare. Succede che qualche volta un sogno lo si ri-narri assieme, lo si dipani come un racconto, lavorandoci insieme. Ma abbiamo tanti altri strumenti a disposizione, e lo scopo non è tanto quello di “interpretare”, quanto quello di instaurare un assetto affettivo con il paziente, di mantenersi sulla sua lunghezza d’onda. Quello che cura è l’aspetto emotivo della faccenda: in psicoanalisi, conta più la pancia della testa».

Il che tra l’altro leva alla terapia viennese quell’aura punitiva, da rigido collegio mitteleuropeo, che ogni tanto ancora la circonda. A proposito di vecchio armamentario, Orbecchi è particolarmente tranchant con il complesso di Edipo. Che, secondo lui, non esiste…

«Si tenga forte: quando sono con un paziente, penso a quello che mi sta dicendo e non a Edipo».

…e rifiuta il concetto di pulsione di morte, sostenendo che non ve n’è traccia nei primati non umani.

«Si tenga ancora più forte: nella mia esperienza professionale, non ho mai avuto il piacere di essere presentato alla pulsione di morte. So che molti miei colleghi ci lavorano a fondo, ma non è il mio caso. Crede che per questo sia passibile di espulsione dalla Spi? ».

Un caso interessante, visto che ne è, ancora per due anni, il presidente.

«Forse con quell’espressione si intende un insieme di sofferenze non trasformate, non elaborate, che sono appunto ciò che fa soffrire il paziente e con cui, quelle sì, facciamo i conti tutti i giorni. Ma non sono le vecchie formule ad aiutare a guarire».

Veniamo a un altro argomento di Orbecchi, il più deciso. La nemesi della psicoanalisi arriverebbe dalle neuroscienze, che fornirebbero tutte le spiegazioni sfuggite a Freud e ai suoi eredi.

«Considero le neuroscienze come universi meravigliosi, e tenga conto che io nasco come neurochimico. Resta il fatto che tra le neuroscienze e la sofferenza delle persone si apre una distanza siderale. Quello che può aiutare, piuttosto, è la neuropsicofarmacologia. Soprattutto da quando la psicoanalisi si occupa di patologie particolarmente severe: è frequente che, in una prima fase, ci si affidi a due terapeuti diversi, uno che cura con le parole e l’altro con i farmaci, fino a quando il paziente non sia in grado di fare a meno delle medicine. Gliel’ho detto: è un mondo che progredisce ogni giorno. Non confondiamo un vecchio carretto con un’astronave».

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