La lettura dell’articolo su “L’afasia dell’orrore” nel Manifesto e la visione di un film sulla prima guerra mondiale mi portano oggi a scrivere perché ne sento la necessità.
L’interessante film di von Trotta su “Rosa Luxemburg “ riguarda la sua vita e la sua lotta, nel primo 900, contro i preparativi politici che precedevano la prima guerra mondiale. Sono stata scossa dall’inutilità del suo sforzo e della evidente facile manipolazione delle masse da parte dei poteri interessati nella guerra. Leggerò perciò con molto interesse sull’argomento, proposto da Balsamo, nel numero di Psiche in uscita.
Penso che, da un punto di vista psicoanalitico, “l’Afasia dell’Orrore”, fatta di silenzio e apparente indifferenza, può essere considerata come una “difesa attraverso l’ambiguità” e all’estremo un “adattamento a qualsiasi cosa” come reazione inconscia alla violenza estrema traumatica d’origine umana. In diversi gradi anche tutta la situazione di violenza quotidiana direttamente subita o ricevuta come notizia va a costituire un ambiente comune a tutti, un ambiente “depositario” “smantellante” che incide sulla possibilità soggettiva di organizzare pensiero e strutturare gli affetti, perché comporta equivoco, incertezza, insicurezza.
Ci troviamo nello spazio intrapsichico della “transoggettività” tanto difficile da concettualizzare. In questo spazio soggettivo interno qualsiasi “depositario” esterno delle angosce primarie (o divenute tali), anche fosse il più perverso, può diventare “ovvio”, banalizzato, normalizzato, perché la difesa attraverso “l’ambiguità” implica aconflittualità.
L’idea di un “inquadramento” o di un “depositario” ( Bleger) è particolarmente utile per concepire l’estremo bisogno di contenitori esterni “non alienanti”(in senso di Winnicott) per la nostra umana necessità di certezza .
Oggi, infatti, i “depositari” sociali sono in totale crisi, più che mai facilmente manipolabili dai poteri più diversi, finanziari, ideologici, mafiosi…
Nella mia esperienza di lavoro psicoanalitico con reduci da situazioni estreme (tortura, campi di concentramento) ho avuto bisogno di trovare il “dove” o il “come “ si era espressa la “resistenza” alla distruzione psichica nel periodo dei maltrattamenti. Ho capito che questa resistenza, che considero una sfida soggettiva inconscia, è collegata con la sollecitudine o preoccupazione per il destino, l’esistenza e la dignità di un altro che esiste (o è esistito ) nella vita relazionale di quel paziente; questa preoccupazione (”concern”) riguarda “un oggetto da salvare”, che, scoperto nel lavoro terapeutico, serve per aiutare il paziente a prendere “insight “ della coerenza e continuità di se stesso durante il periodo traumatico.
Oggi in rapporto alla domanda posta da Maurizio Balsamo, (in che modo riusciamo a istituire una zona protettiva?), mi chiedo se questo movimento intrapsichico di preoccupazione per un oggetto da salvare, che poggia su una esperienza di relazione affettiva, non lo si potrebbe più propriamente considerare, nella transoggettività, come una preoccupazione condivisa che appartiene a ideali etici comuni.
E allora mi domando quale parola comune e condivisa socialmente sarebbe portatrice di questa utopia, non certamente la iper-usata parola “libertà”, neanche forse la parola “democrazia? o piuttosto “diritti dell’uomo “? Sarebbe necessario insomma un concetto condiviso, organizzante di un comune conflitto con il perturbante e abusante sociale. Potrebbe così essere riconosciuta, (qualunque sia il nome sotto il quale si nasconde), la sua attività psicopatica di suscitare orrore e terrorizzare allo scopo di far sì che l’ altro divenga indifferente, ambiguo, accomodante nei confronti di tutto quello che succede intorno a lui, adattato a qualunque situazione ed a qualsiasi strada le sia offerta.