“Gli altri ci urtano di continuo e noi facciamo lo stesso con loro. La nostra singolarità, la nostra unicità, la nostra identità si crepano senza sosta”
Elena Ferrante
Ritengo opportuna la costruzione di un piccolo inventario degli oggetti da salvare per rendere salde le necessarie spinte antientropiche nei confronti delle forze che sembrano spingerci alla dissoluzione dei legami. Ai diritti dell’uomo proposti da Silvia Amati Sas e all’amicizia che ama la differenza e non teme il conflitto di Sarantis Thanopulos, aggiungerei la speranza, che è altra cosa rispetto al banale e superficiale ottimismo. Sempre più mi capita di assistere (anche in seduta) ad atteggiamenti disperatamente distruttivi, quali “ormai non c’è più niente da fare”, “bisogna vivere alla giornata”, “la politica fa schifo”, ecc. Si tratta di atteggiamenti malignamente narcisistici che tendono a fare terra bruciata del lascito alle nuove generazioni da parte di chi, in parte più o meno grande, la sua vita l’ha già vissuta. L’amicizia proposta da Sarandis, la speranza sofferta proposta da me fanno il paio con la conclusione di Fuori, il bel lavoro letto da Laura Ambrosiano al Centro Milanese di Psicoanalisi e che trascrivo: “Forse si tratta di inventare-trovare “nuovi luoghi di umanità” (E. Donaggio, 2016, p. 144), vie per ridare vita a ciò che sembra scomparso nella mentalità diffusa: l’intimità, la pensosità, le pause […]. Inventare incontri di minoranze inedite, di piccoli gruppi estemporanei che possano cercare gesti, idee ed emozioni difformi ed estranei rispetto all’andamento dominante. Piccoli luoghi in cui, faccia a faccia, ci si incontra per fare altrimenti, per pescare idee nuove, per vedere nascere piccole utopie. Le piccole utopie sono prospettive di senso che non definiscono compiutamente il punto di arrivo, la meta, (la chiarezza della meta è caratteristica di grandi utopie come quella del potere al proletariato o della purezza della razza), ma che sono utopie itineranti, capaci di sostare per chiedersi come sta andando il percorso, cosa accade mentre ci si incammina”.
Mi pare che le parole di Laura Ambrosiano risuonino con quelle che spesso diciamo ai pazienti e che intendono valorizzare i piccoli cambiamenti, le piccole novità, come antidoto della velenosa idealizzazione-ideologizzazione che ci spinge verso l’irraggiungibile e ci fa vivere il raggiunto come scontato e deludente. Di questo veleno siamo impregnati o, all’opposto, di una delusa, ovattata e frustrante rassegnazione, che così frequentemente ci spinge verso la perdita di memoria del passato, la banalizzazione del presente e la nientificazione del futuro, in una sorta di esistenza alessitimica.
Riprendendo la domanda di Maurizio Balsamo nell’editoriale dell’ultimo numero di Psiche (in che modo riusciamo a istituire una zona protettiva?) Silvia Amati Sas propone che il movimento intrapsichico di preoccupazione per un oggetto da salvare possa trovare un equivalente in movimenti transoggettivi, nei termini di una preoccupazione condivisa che si basi su ideali etici comuni per evitare che l’inconscio sia troppo permeabile alla mentalità altrui e per proteggersi dal costituirsi di un’impregnazione e un’obnubilazione che non risultano perturbanti, che non sono segnalate dall’angoscia e che passano ad essere parte dell’ovvio, dell’implicito piattamente banale che ci abita (Amati Sas, 2010).
Anche Joyce McDougall (1990) ha segnalato il problema delle persone che ha definito normopatiche, o ipernormali, troppo-adattate-alla vita, la cui “normalità è una carenza che colpisce tutta la vita fantasmatica e allontana il soggetto da se stesso”.
Laura Ambrosiano e Eugenio Gaburri (2013, p. 127) scrivono: “Quando l’Ideale dell’Io si lascia piegare dal conformismo, finisce per ispirarsi all’Ideale dell’Io del gruppo senza mediazioni personali. […] In queste circostanze anche il Super-io si degrada, diventa dominante la sua parte arcaica e megalomanica che offre all’individuo regole mafiose indiscutibili, o ideologie rigide, o una visione del mondo satura”. Una carenza di rêverie è alla base del conformismo come identificazione al gruppo attraverso l’adesione a ideologie-rifugio (conformismo sociale). Il tema è affascinante, in quanto si va oltre le considerazioni di Freud espresse nel saggio Il disagio della civiltà del ‘29, in cui propugna come necessaria la limitazione individuale nella costruzione della civiltà, e, in tal modo, sembra volere proporre le basi per un’etica della collaborazione e della solidarietà, in cui ognuno rinuncia a qualcosa in nome del bene comune. Scrive Freud: “L’essenza della civiltà consiste nel fatto che i membri della comunità si limitano nella loro possibilità di soddisfacimento, mentre il singolo non conosceva restrizioni del genere” (p. 585). Scrive ancora (pp. 610-611): “La civiltà domina il pericoloso desiderio di aggressione dell’individuo, infiacchendolo, disarmandolo e facendolo sorvegliare da un’istanza nel suo interno, come da una guarnigione nella città conquistata”.
Riprendendo un dibattito degli anni ’70, la teoria della rinuncia pulsionale si contrappone a quanto già Marx sosteneva nei Manoscritti, che la socialità dei lavoratori non è strumentale al raggiungimento di un obiettivo politico, ma è piuttosto un bisogno immediato, “spontaneo”. Louis Althusser (1976) riprende le intuizioni marxiane e sostiene che esiste nell’uomo una certa esperienza padronale di se stesso. Articolando le relazioni tra inconscio e ideologico, descrive un’esperienza che porta a subordinare le pulsioni sociali ai desideri razionali ed egoistici dell’individuo. Ágnes Heller (1974) ha poi sostenuto che prima dei bisogni materiali vi sono nell’uomo i bisogni radicali, intendendo questi ultimi come le pulsioni sociali. D’altronde David Liberman (1970-1972) definisce metasetting l’ambiente sociale, culturale e economico che ci circonda e Puget e Vender (1982) parlano di mundos superpuestos per indicare la stretta interrelazione tra realtà esterna e realtà interna.
Ho avuto modo di rileggere recentemente un saggio di Ronald Laing del 1967 (La politica dell’esperienza, Einaudi, Torino, 1968, pp. 16-17) in cui riprende questi temi e scrive: “L’esperienza è invisibile agli altri, ma essa non è “soggettiva” più che “oggettiva”, “interiore” più che “esteriore”, non è processo più che prassi, ingresso più che uscita, psichica più che somatica, non consiste in incerti dati cavati fuori da una introspezione, più di quanto non consista in una estrospezione. Meno che mai l’esperienza è “processo intrapsichico”. Tali transazioni, relazioni obiettive, relazioni interpersonali, transfert, controtransfert, se si suppone di avere a che fare con la gente, non sono un semplice gioco reciproco di due oggetti nello spazio, entrambi forniti di ininterrotti processi psichici. La distinzione tra esteriore e interiore si rifà solitamente a quella tra comportamento ed esperienza, ma talvolta si riferisce ad alcune esperienze che vengono supposte “interiori” in contrapposizione ad altre “esteriori”. Più esattamente si tratta di una distinzione tra diversi modi di esperienza, cioè tra la percezione, considerata come esteriore, e la immaginazione, ecc., contrapposta come interiore. Ma la percezione, l’immaginazione, la fantasia, il fantasticare, i sogni, la memoria, altro non sono che modi di esperienza, nessuno dei quali è più “interiore” od “esteriore” degli altri”.
Concludo con la speranza che si tenga conto della brutalità delle cose, come ne scrive Lorena Preta (2015), di quell’esterno, di quel fuori che può infestare, appiattire i nostri inconsci, lavorando in continuazione per la costruzione di difese vigili, e costruttive e non passivamente reattive e patologiche come quelle fin qui segnalate.