Parole chiave: #adolescenza, #trauma, #fratellanza, #gravidanza
SALVARE LE OSSA
di Jesmyn Ward (NNE, 2018)
Recensione di Daniela Federici
Io vorrei, superato ogni tremore
giungere alla bellezza che mi incalza (…)
stamparmi nelle palme ogni vigore
in crescita perenne e modulare
un attento confine con le cose
ov’io possa con esse colloquiare
difesa sempre da incipienti caos.
Alda Merini
Yesmin Ward è l’unica donna che abbia vinto per due volte il National Book Award, il primo dei quali proprio per questo romanzo.
Esch, la protagonista e voce narrante, ha 15 anni e vive con i fratelli e il padre fra rottami, galline e boscaglia nel delta del Mississippi. Un agosto torrido e afoso. Di lì a 12 giorni arriverà l’uragano Katrina. I fratelli sono riuniti nella baracca di China, la splendida pitbull di Skeet, bianca e regale come una magnolia, che sta partorendo.
Il comportamento di China non assomiglia nemmeno un po’ a quello di mamma quando è nato il mio fratellino Junior. Mamma lo ha partorito nella stessa casa dove aveva partorito tutti noi, qui, in questo avvallamento tra i boschi che suo padre aveva ripulito per costruirci sopra una casa, il posto che adesso noi chiamiamo “Fossa”. (…) Junior era viola e azzurro come un’ortensia: l’ultimo fiore di mamma. Papà glielo aveva fatto vedere tenendolo sollevato sopra di lei, e lei lo aveva sfiorato con la punta delle dita, come se avesse paura di far cadere il polline, di rovinare il bocciolo. Diceva che non ci voleva andare all’ospedale. Papà allora l’aveva trascinata di peso dal letto al furgone, per terra era rimasta una scia del suo sangue, e noi non l’avevamo vista più.
Esch aveva 8 anni quando era morta la madre, e se Junior era stato il cucciolo svezzato troppo precocemente, lei aveva perso l’unica possibilità di misura diversa in quel mondo duro di maschi, dove il padre è ormai dedito all’alcool e i quattro figli sono lasciati a loro stessi.
Quando eravamo piccoli e mamma doveva farci alzare per andare a scuola, per prima cosa ci toccava la schiena. E quando ci sentiva contrarre sotto le sue mani e capiva che ci stavamo muovendo, ci diceva sottovoce di svegliarci: era ora di andare a scuola. Quando è morta ha dovuto cominciare a svegliarci papà, e lui non ci toccava mai. Picchiava sul muro di fianco alla nostra porta, forte. Sveglia, gridava.
Esch guarda Skeet, il secondogenito, un anno maggiore di lei, tutto concentrato su China, come un uomo si concentra su una donna quando sente che gli appartiene. Sono settimane che dorme nella baracca della pitbull, attaccato a lei come un’unghia alla carne, sono una persona sola. La veglia, ruba il cibo migliore per lei, le costruisce una casa per i cuccioli. Lui lo sa cos’è l’amore.
Anche Esch è innamorata: Manny per lei è il sole, risplende, e il suo cuore di femmina avvampa. Un cuore che, prima di Manny, ha lasciato che i ragazzi si prendessero perché lo volevano e non perché lei volesse darglielo. Era più facile lasciarli fare che chiedergli di smetterla, più facile stare zitta e sopportare, che dargli una risposta quando chiedevano: “Perché no?”
Glielo lasciavo prendere perché, per un attimo, ero Psiche, Euridice, Dafne. Ero amata. Ma con Manny cambiava tutto; lui, così bello, aveva scelto me, e continuava a farlo… mi amava…
Esch è un’appassionata degli amori mitici, legge vorace le loro vicende epiche, vorrebbe essere come quelle donne seducenti e combattive. Si identifica con Medea, che Giasone ripudia nonostante tutto quello che ha fatto per lui. Si sente così perché Manny la cerca solo per il sesso, senza neanche guardarla, senza baciarla. Quando lo vede con la fidanzata si chiede perché lei meriti i suoi baci avidi, se lei lo conosca altrettanto bene, se sia in grado di accorgersi che lui ritrae il braccio infortunato subito dopo un lancio. La guarda abbracciata a lui, tranquilla e padrona di sé come un gatto a casa propria. Sono così quelle che vivono un amore ricambiato, centrate, come se l’amore che il ragazzo prova per loro le ancorasse in profondità come le radici di un albero, le mantenesse stabili come le querce, che nemmeno l’uragano può sradicare. L’amore come certezza. Si chiede se sia così che si sente China, con Skeet che si occupa di lei…
Questo pensa Esch, nella sua solitudine desolata di femmina che non ha con chi confidarsi, da chi imparare a prendersi cura di sé, a farsi carico del reale e delle sue conseguenze, specie ora che il suo corpo le manda segnali ostinati che non riesce più a ignorare.
Sono incinta. Mi siedo e mi abbraccio le gambe, strofino gli occhi contro le ginocchia. La terribile verità di ciò che sono divampa nel mio stomaco come l’incendio di un arido autunno, e divora tutti gli aghi di pino caduti dagli alberi. Lì dentro c’è qualcosa.
Ed è di Manny, perché da quando lui l’ha presa la prima volta, non si è più data ad altri.
Skeet ha intravisto la sua pancia, forse sospetta qualcosa. Non voglio che se ne accorga, ma non posso dirglielo perché mi mancano le parole per farlo. Non l’ho ancora detto nemmeno a me stessa, non sono riuscita a pronunciarle, quelle parole. (…) Non gli lascerò vedere niente finché nessuno di noi avrà più scelta, e allora nessuno potrà fingere di non vedere, nessuno potrà ignorare, e forse ciò che vedremo ci tramuterà in pietra.
Vorrebbe poterlo chiedere a China cosa significa essere madri.
Manca di appoggio Esch, qualcuno che l’aiuti a pensare quel che le sta accadendo, a trovare una risposta alle sue paure, alle sue mille domande.
… ho visto le uova di rana prima che si trasformino in girini… quando sembrano ancora centinaia di occhietti chiusi, quelle uova sono più leggere della luce, fresche come un alito di vento. Chissà se le uova interne, quelle che hanno bisogno del riparo di un corpo – le uova dei cavalli, dei maiali, degli esseri umani – sono così leggere. Saranno trasparenti come gelatina, con piccole lucciole al centro, o solide e silenziose come sassi? Lasceranno vedere il loro mistero, o lo nasconderanno come un segreto? Si lascerà vedere, un uovo umano?
Mentre il padre, bevuto e irascibile, prepara assi per la tempesta che incombe, i figli vivono i loro affanni: Randall, il maggiore, è tutto proiettato sulla partita che potrebbe fargli guadagnare la borsa di studio per andare al college, Skeep sulle sorti della cucciolata di China, Junior impara il mondo aggrappato a loro. Esch misura l’impatto del suo uragano bambino nel rifiuto sprezzante di Manny, trovando la protezione dei fratelli, perché loro sono come un manto caldo, un branco: c’è una linea che ci unisce tutti… ci lega.
Mamma l’aveva detto, di prendersi cura l’uno dell’altro. Come faceva la sua mano posandosi sulla loro nuca ogni volta che camminavano in mezzo a tante persone. Per Esch il pensiero della madre è come il dolore di un arto fantasma, che è sempre presente anche se non c’è più.
… se è una bambina la chiamerò come mia madre: Rose.
Il romanzo di Yesmyn Ward racconta la sete inestinguibile d’affetto, la necessità di un sogno da perseguire, il legame fraterno e l’amicizia che risplendono di una possibilità in quel panorama di durezza e miseria, come un antidoto alla mentalità impulsiva e cinica di rapportarsi col mondo.
Una scrittura limpida, poetica, di rara maestria a rappresentare l’altezza di sguardo di una ragazzina, con le sue ingenuità e i suoi stupori, ad avvicendare bellezza e violenza, a tessere spiazzanti cambi di ritmo nella narrazione, trafitture di ferocia e commozione.
La vita è difficile per tutti.
E Medea non è certo un riferimento a caso in questa terra selvaggia dove il materno è vita e morte, perfino nella natura matrigna, che insegna a prendere la vita per com’è.
L’uragano Katrina si ingrossa fino a raggiungere categoria 5, la più violenta.
C’è una specie di lenzuolo grigio-azzurro che copre il cielo, gli alberi si arcuano come lenze per poi spezzarsi scoppiettando come fuochi d’artificio, si sente il rumore del vento che sbanda e va a sbattere contro le montagne come un serpente grande abbastanza per inghiottire il mondo. L’acqua trascina ogni cosa.
Katrina, la madre che è entrata nel golfo come una regina per portare la morte… la madre assassina che ci ha feriti a morte e tuttavia ci ha lasciati vivi, nudi, stupefatti e raggrinziti come bimbi appena nati, come cuccioli ciechi, come serpentelli appena usciti dal guscio, affamati di sole. Ci ha lasciato un mare buio e una terra bruciata dal sale. Ci ha lasciati qui perché impariamo a camminare da soli. A salvare ciò che possiamo. Katrina è una madre che ricorderemo finché non arriverà un’altra madre dalle grandi mani spietate, sanguinaria.
All’improvviso c’è una spaccatura enorme tra prima e adesso, e mi chiedo dov’è andato a finire il mondo in cui è successo tutto questo, perché noi non viviamo più in quel mondo.
Quando l’acqua torbida si ritira dalle carcasse del disastro e dalle sue perdite, c’è da premere sulle ferite finché non smetterà di far male, come diceva mamma. E la speranza che Esch affida alla notte è l’invocazione a un materno comprensivo, che la riconosca e non la lasci da sola a diventare:
China abbaierà e mi chiamerà sorella. Nel cielo soffocato di stelle, c’è un grande silenzio d’attesa.
Lei lo saprà che sono madre.