Cover “Risvegli nel buio” di S. Nayman.
RISVEGLI NEL BUIO
di Shira Nayman (Einaudi, 2007)
a cura di Daniela Federici
Chi tra noi non è alle prese con qualche spettro
che reclama il cielo che gli è dovuto?
Aulagnier
Quattro racconti sorprendenti, intensi e struggenti, dall’ingegnosa struttura narrativa che fa affiorare risvegli dal buio dei segreti familiari scompaginando la vita delle protagoniste. Donne nate in tempo di guerra e cresciute fra silenzi e dinieghi delle atrocità, abitate da incubi e tormentose dissonanze negli affetti più profondi, alla ricerca penosa e tenace delle lacune della propria storia e del senso di sé o che si trovano davanti a epifanie improvvise e sconvolgenti, quando un lutto fa svuotare soffitte e bauli che custodivano l’inconfessato impensabile.
Shira Nayman, psicologa con una laurea in letteratura, pluripremiata per i suoi racconti, raffigura in modo magistrale gli inelaborati che sequestrano e condizionano la vita psichica, evidenziando la funzione soggettivizzante che passa attraverso il discorso genitoriale e i modi in cui assumiamo gli elementi più oscuri dei lasciti che legano fra loro le generazioni.
“Forse ci sono tombe che bisogna scavare perché i vivi possano continuare a vivere”.
Lutti sospesi, sepolture per fuggire l’inelaborabile che lasciano in eredità un passato frammentario, l’annebbiarsi della memoria intorno ai vuoti circa le proprie origini, franosi vissuti di perdita di integrità e sicurezza, fosche e misteriose incombenze di crolli e sottrazioni.
“Capii che i muri del mio lieto mondo erano crollati, che la mia infanzia se n’era andata: non mi sarei mai più sentita pienamente felice. Capii che, seppure il cielo fosse stato sereno per otto o dieci o dodici ore al giorno, la mia anima non avrebbe mai più, mai del tutto e senza riserve, rivisto la luce del sole.”
Domande covate per decenni, segreti che diventano ossessioni, la tensione inesausta degli inespressi.
“In fondo, in ogni vita c’è qualcosa che non germoglia, un piccolo, duro seme depositato da qualche parte, il cui destino è di restare dormiente.”
Storie che l’autrice lavora, con sensibile abilità, da entrambi i versanti, quello delle madri e dei padri e quello dei figli, ciò che ciascuno è riuscito a fare di quel testimone che passa, doloroso e amaro, guasto o intriso di speranza, di esistenze spezzate che si prova a redimere.
Le vite delle protagoniste sono profondamente segnate da una sofferenza familiare, vicende estreme che hanno trasferito una filiazione di traumi non elaborati organizzati come un legato (termine che in senso giuridico designa la delega a un incarico da svolgersi in base a un patto) inconscio, che le vincola in modo abusivo. Non una trasmissione trofica da genitori a figli, ma la predazione di suolo narcisistico nelle loro vite psichiche attraverso la dislocazione di elementi scissi e identificazioni alienanti. Gli ostacoli epistemici e alle capacità di sviluppo, risultanti dall’ingombro di questi non-detti e ancor più dal divieto di sapere, creano la cifra mentale di elementi inesistenti ma persistenti, proprio perché mancanti di una simbolizzazione. Ipoteche, che requisiscono la dimensione immaginaria nella sua fluidità elaborativa e prospettica entro una temporalità circolare inconscia che impedisce il divenire.
L’analisi conosce il lungo lavoro preliminare per tessere lo spazio scenico lacerato del narrabile sul quale si potranno rappresentare questi testi mutilati e i loro destini incompiuti.
L’ultimo dei racconti narra l’intenso e suggestivo incontro fra una giovane madre ricoverata nell’ospedale psichiatrico per una depressione psicotica post-partum e la sua psichiatra.
“Era come se mi stesse guardando da una sponda lontana e spaventosa, al di là di un vasto spartiacque.”
Sembra il consueto confronto con il delirio, accolto nel curativo proposito di condurre l’altro a rientrare in sé, riportandolo nel mondo di qua. Ma la paziente scava risonanze inaspettate e là da dove la ragione cade e prende il largo, canta una sirena che si fa irresistibile. Novello Ulisse legato all’albero maestro, la psichiatra conosce i marosi della navigazione e il buio predatore, sa come porsi nelle tempeste: “ho imparato che questi sono i pazienti che posso aiutare di più, anche se a farne le spese è la mia tranquillità interiore.”
Flussi e riflussi di una marea interna, con cui sempre si lavora a partire da sé.
“Né io né lei possiamo fare nulla per cambiare ciò che è successo. Quello che dice contiene un indizio; lo intuisco, lo sento palpitare da qualche parte nelle sue parole. Ma non riesco a portarlo allo scoperto.”
L’impotenza e l’irreparabilità, insieme ai lunghi tempi del non comprendere e non trovare un senso.
Non solo le colpe dei padri ricadono sui figli, ma anche le loro sofferenze, rimarca la paziente.
La sua storia si va facendo ipnotica di una straniante rifrazione, tramutandola pian piano in un doppio, sollevando nella psichiatra il dubbio che la paziente conosca qualcosa che lei ignora di sé. Come se “nel luogo in cui si trovava – insidioso oltre ogni immaginazione – ci fossi stata anch’io, forse in un’altra vita, forse in sogno; che da quel luogo io fossi fuggita…”
L’affacciarsi a quelle tenebre con la vertigine di esserne risucchiata, risveglia le tessere da sempre mancanti del suo mosaico interiore, i demoni dell’altra incontrano i propri.
“Il confine fra ciò che è sensato e ciò che non lo è diventa ancora più difficile da distinguere. La follia sembra meno folle; e quando appare ragionevole, tutto ciò che dice è ambiguo, pieno di doppi sensi e intriso di premonizioni.”
La Nayman crea folgoranti giochi di specchi che ricordano la mise en scène di Remember (film di Atom Egoyan, Germania 2015), Il sesto senso (di M. Night Shyamalan, USA 1999) o la potenza delle rivelazioni dello splendido e terrifico La donna che canta (di Dennis Villeneuve, Canada-Francia, 2010), con tutta la complessità che la questione degli svelamenti dei segreti porta con sé.
La narrazione, attraverso le sue vicende estreme, raffigura a tinte accese i lasciti e i fantasmi che ci abitano tutti, quei tremuli riflessi persistenti che sospingono inconsciamente ognuno di noi, il travaglio quotidiano della lotta fra le tramature pretenziose della ragione e un senso che non si colma. Perché è nella relazione significativa fra il pensiero astratto e l’esperienza, che misuriamo le possibilità e il limite della conoscibilità al livello delle capacità dell’apparato psichico: è attraverso il continuo andirivieni in quel “tra due” che si svolge la nostra vita psichica, che conosciamo il mondo e ce lo rappresentiamo, che possiamo fantasticarlo e trascenderlo nella sua concretezza, ma al contempo è lì che facciamo i conti con la ferita narcisistica dello scarto con l’inconoscibile, a dispetto della nostra illusione di volerlo estinguere.
È un libro che ben raffigura le vicissitudini delle scissioni e i dubbi circa la ricerca di un senso che, mentre si spera porti una luce riparatrice, si teme conduca al sisma delle difese. E laddove si evidenzia l’importanza fondamentale di un rispecchiamento, la scrittura della Nayman sa trasformare il lettore in testimone, facendogli comprendere in modo quasi fisico il peso di ciò che si può desiderare di non aver saputo, per sottrarsi ai labirinti sghembi e tossici che scava la colpa e il bisogno di investire delle cause che possano arrestare la mise en abyme dello psichico.
Sono racconti che consegnano con realismo la profonda responsabilità sulle eclissi e sulle possibilità riparative dei sorprendenti ritorni a casa delle integrazioni.
Faimberg, H. (2006) Ascoltando tre generazioni. Legami narcisistici e identificazioni alienanti, F. Angeli
Freud, S. (1915) Pulsioni e loro destini, OSF v. 8, p.13, Boringhieri