A cura di Maria Pierri
“So chi sei – le dice Moses in ebraico. – Sei Dulcinea, l’incarnazione della fantasia che il cavaliere ha finalmente catturato.” E contro un seno enorme, rigato da una vena bluastra, incrocia le mani dietro la schiena (…) “Ho fame? Ho sete? – si domanda Moses.- Se Dulcinea potrà sfamarmi questo vorrà dire che ha dato un figlio al cavaliere e il suo amore non è rimasto pura fantasia. (…) Latte tiepido, Latte di neonati dal sapore sconosciuto (…) Allora questa è la fantasia. Il desiderio di immaginare che torna in me… Allora è questa la mia vera retrospettiva. Una retrospettiva destinata fin dall’inizio solo a me.”
Nell’ultimo romanzo di Abraham B. Yehoshua “La scena perduta”, un anziano regista è invitato ad una retrospettiva dei suoi film, durante la quale gli verrà attribuito un premio. Con sorpresa i film che vengono proiettati sono le sue prime prove cinematografiche e Moses si trova ad assistere alle scene che aveva girato allora, usando come set la casa della propria infanzia: è un ritorno alle origini. Il cuore di Moses accelera i battiti alla vista della madre, che aveva partecipato con entusiasmo alla prima opera del figlio, nei panni di una vecchia con i capelli bianchi. Mentre ritrova con commozione anche la voce materna, qualcuno gli fa notare un’ombra dietro una tenda: resa più chiara dal passaggio al digitale, la vecchia pellicola restaurata fa emergere la sagoma del padre di Moses, sgattaiolato lì ad assistere alle sequenze e a proteggere la madre.
La retrospettiva servirà a Moses per ricucire un’antica rottura, la fine della collaborazione con il suo creativo, ispirato, sceneggiatore, colui con cui aveva girato le opere più riuscite della sua carriera. Era successo che, al momento di riprendere la scena finale di un film, frutto della fantasia visionaria dello sceneggiatore, il regista avesse esitato, optando per un’altra conclusione, meno ardita e cruda, tradendo la fiducia nell’intuizione e nelle fonti generose della creatività del collega. Ma la rottura più dolorosa era stata interna, con quello sceneggiatore preconscio – il lavoro onirico – che traccia le trame dell’esistenza nel sogno, nel mito e nella creazione artistica. La scena non girata di quel finale dovrà essere ritrovata, perché il vecchio regista possa recuperare il dialogo con le origini e con la sua stessa capacità generativa.
Moses comincia ad accostarsi al mito e scopre che la scena ripudiata riprendeva il tema della Caritas Romana, e raffigura la leggenda meravigliosa di Pero e Cimone, messa per iscritto nel primo secolo d.C. da Valerio Massimo nei suoi Factorum et dictorum memorabilium libri IX . Vi si narra di una giovane donna che allatta il vecchio padre.
“Si chiama Cimone ed era stato condannato a morire di fame. Sua figlia andava a fargli visita in segreto e lo allattava perché non morisse. Alla fine i carcerieri la sorpresero in flagrante ma rimasero talmente colpiti dalla sua devozione, audacia e originalità che ebbero pietà del padre e lo lasciarono libero.”
Da Guido Reni a Caravaggio, a Rubens, a Murillo, la storia è stata rappresentata poi da innumerevoli pittori: l’impatto dei dipinti si rivela più forte di quello del racconto e ogni artista ha cercato di presentare la propria versione. Perfino a Pompei è riemerso un affresco con questo motivo; a Budapest esiste una statua in cui la donna che allatta il vecchio sorregge un bambino già sazio, col dito in bocca, quasi pronto per addormentarsi. Nel 1606 Caravaggio riuscì ad inserire la scena, così scandalosa nella sua carnalità, nella Pala d’altare della chiesa del Pio Monte della Misericordia di Napoli, sublimando la sua sensualità nella cornice delle opere di misericordia corporale, “dar da mangiare agli affamati e “visitare i carcerati”.
Allo psicoanalista la “retrospettiva” di Yehoshua evoca subito il termine freudiano di Nachträglickheit, che indica il lavoro psichico che torna a ritroso sul passato, per farlo rivivere in una rinnovata significazione affettiva, ricostruendo ogni volta, insieme al soggetto anche l’oggetto di desiderio. E’ quella ciclica e indispensabile modalità del soggetto di accostarsi alle proprie origini, alle fonti di sé, nel corso delle varie tappe della vita.
La storia di Pero, che col suo latte salva Cimone, incatenato e condannato a morire di fame, può rappresentare una delle diverse e inaspettate forme del ripresentarsi della configurazione edipica e del generoso dono d’amore, Caritas -Agape, all’origine dell’esistenza psichica. Quanto con l’età sarà simbolizzato e acquisterà limite e regola definendo il soggetto (il carcere e le catene di Edipo) all’inizio era unione carnale con la madre, senza confini definiti. Il quadro sconvolgente, che ci parla anche di realtà che a volte si rendono dolorosamente presenti nella crisi della coppia di oggi, mostra come nella figlia riviva la madre, nel vecchio il bambino che era stato.
Nel 1920 la psicoanalista Lou Andreas Salomé, a completamento del concetto di narcisismo primario, ci teneva a ricordare a Freud il valore dell’originario materno e gli proponeva: “Allo stato primario è presente un’identità tra mondo e Io, dove non esistono ricordi”, identità che nell’esperienza di godimento ripresenta “quel non-esser-ancora-Io, quell’esser-tu-e-Io che vigeva all’origine.”
Su questo sentimento di estasi, che Romain Rolland aveva chiamato “sentimento oceanico”, nel 1929 (Il disagio della civiltà) Freud si sarebbe fermato a riflettere, riconoscendo come il senso soggettivo dell’Io sia “soltanto un avvizzito residuo di un sentimento assai più inclusivo, anzi di un sentimento onnicomprensivo che corrispondeva a una comunione quanto mai intima dell’Io con l’ambiente”
Può essere doloroso per l’Io, soprattutto dopo essersi dovuto staccare da un’esperienza così appagante ed aver attraversato con fatica le difficili conquiste che portano alla maturità, alla costituzione dei limiti e della conoscenza, tornare a ripensare all’illimitato e al perturbante rapporto con il femminile originario, per andare nuovamente ad attingere alla fonte della saggezza.
Secondo Luce Irigaray (All’inizio, lei era, 2012), per capire qualcosa del “tra-noi”, sarebbe necessario tornare al mondo e alla filosofia dei presocratici. E’ toccante quello che scrive, e che sembra commentare la scena della Caritas Romana: “All’origine è una lei -natura, donna o Dea- che ispira la verità a un saggio… La totalità del discorso è ancora misteriosamente fondata a partire da lei – natura, donna o Dea – che rimane inaccessibile cosa dalla quale sorgono le parole e alla quale sono rivolte.”
Inoltratosi ormai nella vecchiaia, nel 1935, Freud scriveva a Lou Andreas Salomé: “Quanto buon carattere e umorismo ci vogliono per sopportare l’orribile avanzare dell’età! (…) Il giardino là fuori e i fiori della stanza sono belli, ma la primavera come noi diciamo a Vienna, è una presa in giro. Naturalmente sono sempre affidato alle cure di Anna, proprio come una volta ha osservato Mefistofele (Faust II, 7003): «E si finisce che si dipende dalle creature fatte da noi.»”
Mathias Meyvogel Caritas Romana
4 marzo 2014