PSICOANALISTI SCRITTORI
Intervista a Gemma Zontini: una riflessione fra psicoanalisi e letteratura
a cura di Daniela Federici
parole chiave: #psicoanalisi, #letteratura, #psicoanalisieletteratura
Mi sembra che scrivendo
io stia facendo una cosa che è di gran lunga
la più necessaria di tutte.
V. Wolf, Momenti di essere
Gemma Zontini è Membro Ordinario con Funzioni di Training della SPI. Ha diretto un Servizio Psichiatrico per Diagnosi e Cura a Napoli fino al pensionamento. È membro dell’EPF (European Psychoanalytic Federation) Work Group on Psychosis e oltre all’attività privata si occupa di psicopatologia del lavoro ed è membro del gruppo di Psychodynamique du Travail di Parigi riunitosi intorno al pensiero di C. Dejours.
Ha scritto numerosi articoli in riviste nazionali e internazionali, in volumi collettanei e curato alcune antologie. I suoi interessi prevalenti nel campo della psicoanalisi sono l’isteria e le relazioni corpo-psiche.
Ha scritto “Ago” (Guida Ed. 2017) e come scrittrice di narrativa ha vinto un premio letterario assegnato dal WWF con il racconto “Le tre comete” poi pubblicato nel libro “Gatti magici. 40 supergatti di nuovi scrittori” a cura di M. Alberghini edito da Mursia (1997). Nel 2021 ha vinto il premio IPA per analisti-scrittori con il racconto “Un assassinio senza pretese” pubblicato nel libro “The analyst as storyteller”.
D.F. Per riflettere sulla letteratura partirei dalla parola: da analisti ne conosciamo bene l’importanza come strumento per portare alla coscienza, per quel ‘farsi psichico’ che si appropria della realtà conferendole un senso, che costruisce il mondo interno facendone uno strumento di contenimento, elaborazione e comunicazione. La parola nasce nella carne, la sua magia e il suo potere evocativo scaturiscono dal linguaggio primordiale che l’ha vista prima di tutto un atto senso-motorio. Freud considerava poeti e scrittori alleati preziosi, spesso più avanti nella conoscenza dell’anima, perché attingendo a fonti profonde, scoprono e danno forma a quel che lo scienziato impiega un lavoro faticoso per portare alla luce. E suggeriva agli psicoanalisti di coltivare interessi umanistici per non trovarsi smarriti di fronte al narrarsi del paziente, perché il lavoro analitico è un dialogon, l’incontro di due testi che si intrecciano trasformandosi, estendendo lo psichico e il senso nella polisemia delle forme simboliche, in uno spazio intermedio che è comune all’opera creativa.
Come arriva alla scrittura di un testo letterario e quali scrittori l’hanno ispirata di più?
G.Z. Non saprei dire bene come arrivo alla scrittura letteraria. Credo, riflettendoci a posteriori, di aver fatto un lungo giro per giungervi e che la psicoanalisi abbia avuto un gran peso in questo poter scrivere “inventando”. Vengo da una famiglia di uomini e donne di scienza per i quali la parola orale o scritta serviva a definire con nettezza la realtà, interna o esterna che fosse. Per portarla alla coscienza con logica e chiarezza, come è compito della rappresentazione di parola cui lei stessa nella sua domanda si riferisce. Io credo di aver sentito il bisogno di circoscrivere delle realtà isolandole dalla realtà. Di costruire mediante la scrittura piccole zone di realtà (interna, esterna, ricavata da una fantasia, davvero vissuta) in cui dialogare con i miei oggetti interni e forse proporre, comunicare, questo dialogo agli altri. Zone in cui la mia parola scritta potesse mettere in luce, per me o per altri, quel dialogo con i significanti della lingua materna che, come dice Lacan sono precipitati nel/del corpo, e il loro rapporto con il linguaggio, la lingua, le molte lingue che si parlavano a casa mia.
D. F. Freud scrisse a Schnitzler che vedeva nella letteratura una sorta di doppio della psicoanalisi: condividendone fonti e oggetto, autore e psicoanalista utilizzano entrambi l’interpretazione, l’uno per creare, l’altro per penetrare la tramatura invisibile del racconto del paziente, slegando l’elaborazione secondarizzante. La psicoanalisi deve molto al rapporto con l’intelligenza letteraria, così come quest’ultima è stata influenzata dal sapere analitico sulle dinamiche del profondo.
Nel suo lavoro di scrittrice quanto ha attinto a modelli narrativi o strutture simboliche di matrice psicoanalitica? Quanto pensa che l’esercizio alla funzione maieutica accanto ai pazienti abbia inciso sulla sua scrittura nel costruire trama e personaggi?
G. Z. Come ho detto, la psicoanalisi per me è stata importantissima per giungere a scrivere romanzi e racconti. Mi ha dato la spinta a spostarmi dallo sguardo spassionato della scienza che ha caratterizzato i miei studi e il mio rapporto con l’esistenza (e ancora in parte lo caratterizza), allo sguardo passionale della relazione all’altro, del desiderio di capire e assolvere al debito di provenienza dall’altro che tutti contraiamo. I miei personaggi nascono dal bisogno non solo di osservare qualche aspetto della realtà umana e non, ma soprattutto dal desiderio di comprendere e fissare quelle turbolenze emotive che ogni incontro con il vivente genera. Un po’ come accade quando lavoriamo nel e sul transfert e controtransfert. Inoltre, in quanto scienza del sospetto (sospetto della presenza di un discorso inconscio che infiltra il discorso della coscienza), anche se non è solo questo, la psicoanalisi mi ha dato la spinta a presentare dei tratti della personalità dei miei protagonisti o degli aspetti della loro vita che potevano essere i loro “veri” perché, il “vero” perché di un atto, di uno stile di vita, di una rinuncia, di una pretesa.
D. F. Proust dice che ogni lettore legge se stesso, che un libro è uno strumento ottico che ci permette di comprendere quel che forse, senza di esso, non avremmo mai conosciuto di ciò che siamo. Scrivere, così come leggere una storia, è sempre l’occasione di un viaggio per farci carico dell’alterità di noi a noi stessi – come accade nei sogni – e della possibilità di farci trasformare da quell’incontro. Ogni personaggio offre l’opportunità di rappresentare degli aspetti della propria vita psichica, così nella tessitura di una storia si oscilla fra uno scrivere per la trama, per ciò che già si “conosce” e si vuole rappresentare, e l’esplorazione che il punto di vista di un altro ci permette, scavandolo da dentro e schiudendo traiettorie impreviste.
Quanto da scrittrice ha misurato la sorpresa dell’inconscio al lavoro, da inseguire per la curiosità di vedere fin dove va a finire? Le sono capitati riscontri di lettori che hanno colto sfumature che non aveva considerato? I pazienti fra i possibili lettori hanno influenzato la sua scrittura o leggerla ha creato effetti imprevisti nelle relazioni analitiche con loro?
G. Z. Ogni storia che scrivo è storia di me. E del resto i miei scritti sono sempre in prima persona. Ma poi è una prima persona che si moltiplica in altri conosciuti e sconosciuti, che sente voci e perde la voce, che la riprende da un altrove che talvolta è del tutto sconosciuto. Mi trovo a dialogare con un antico oggetto con cui ero certa di aver fatto ogni tipo di conto possibile, una mancanza che pensavo di aver sostituito metonimicamente o metaforicamente, con il desiderio di ritrovare la mia personale “bella ciclista bruna dagli occhi ridenti” di proustiana memoria, non importa a quale prezzo. Riprendere infinitamente ogni fine per cercare di riportarla ad un (nuovo) inizio. Ma si sa, l’après-coup non cessa mai di riprendere ciò che non c’è o non c’è più. Il vezzo implacabile dell’inconscio. Scrivere certamente mi ha posto di fronte ad un aspetto sconosciuto di me: l’imbarazzo del nome. Mi imbarazza dover dare nomi ai personaggi come se poi dovessi intrattenere con loro una relazione troppo intima. Allora li nomino solo en passant, ripiegando soprattutto sui nomignoli. Oppure metto loro i nomi veri di persone da cui ho preso per descrivere quei personaggi. Ma poi devo chiedere a queste persone se per loro va bene poiché potrebbero essere riconoscibili. Ogni volta che mi incontro con l’imbarazzo del nome forse mi incontro con l’imbarazzo di dovermi dichiarare, di dover dichiarare un’intenzione forse oscura anche a me. L’intenzione di amare, odiare, interpretare. Inconscia o cosciente, poco importa. E questo è anche un aspetto mio: mi imbarazza dichiarare quel marchio di fabbrica dell’essenza caduca che sono, marchio di fabbrica che è il mio nome proprio. Preferisco navigare nei regni delle astrazioni linguistiche. Ma questo in un romanzo non è del tutto possibile. Qualche mio lettore lo ha notato osservando l’uso dei nomignoli. Allo stesso modo qualche lettore ha notato una posizione manichea di fronte al male e al bene. In un giallo forse ci sta. Ma forse quel lettore ha notato un modo mio di essere, forse un po’ idealistico, che punta alla chiarezza della dimensione etica dell’umano. Forse solo un rifugio.
D. F. La finzione letteraria può essere una via d’accesso alla consapevolezza o ciò che ci permette di fuggire la realtà, può fungere da filtro e visione riflessa per poter scrutare verità altrimenti intollerabili. Nella sua esperienza di lettrice quanto considera che i buoni libri siano strumento elaborativo per il nostro mondo interno? E quanto lo è la scrittura?
G. Z. Un libro soprattutto se buono è sempre un filtro per l’intollerabile: la brutalità del reale, della vita come condizione biologica, degli unici atti assoluti che “realmente” la contraddistinguono: la nascita e la morte. In fondo, direbbe Lacan, la scrittura è ciò che ammansisce quel reale che non cessa di non scriversi. Che scorre, accade, immemore dell’uomo. La scrittura ne mitiga il peso, spezza il silenzio di un universo di cui siamo solo un evento. E lo stesso fa anche con quel reale interno che non tiene in alcun conto le nostre intenzioni: l’inconscio con la sua spinta a vivere ad ogni costo e a morire perché così è. Anche se poi ognuno, come dice Freud, vuole morire e persino pretende di morire a modo suo.
D. F. Com’è il misterioso salto da fruitore a creatore di un’opera letteraria? L’imponderabile esperienza estetica che si offre all’identificazione, che favorisce il dispiegarsi dell’immaginario e permette il godimento di fantasie e di risonanze con aree più o meno profonde del Sé, si dispiega alleviata dalla censura in una mescola ottimale fra rivelazione e travestimenti di quanto si muove nell’altra scena dell’inconscio. Così l’Autore deve trovare un equilibrio fra una scrittura che attinga a una verità del profondo per riuscire a coinvolgere il lettore e allo stesso tempo contenere una presenza di misurata astensione di sé per poterne fare una storia di tutti.
Quanto è stata naturale e quanto complessa una scrittura che riuscisse a rendere le intenzioni?
G. Z. Non saprei dire se per me si è trattato di affrontare un misterioso salto. Mi è rimasta impressa nel corso del tempo una frase che Joyce fa pronunciare al giovane protagonista dell’Ulisse: “Ineluttabile modalità del visibile: almeno questo se non altro, il pensiero attraverso i miei occhi.” E mi è rimasta impressa perché leggere significa “vedere” (sulla pagina scritta) il linguaggio e il pensiero di un altro. E in questa ineluttabilità del vedere si esprime la continuità tra pensiero proprio e altrui, tra lettura e scrittura, poiché ogni lettura è una riscrittura personale, agita o meno, del testo letto, tra concetto e materia del corpo che del concetto si imbeve e che il concetto genera. Perciò forse per me scrivere è accaduto come un evento in naturale continuità con il leggere. E certamente scrivere è anche rivelare qualcosa, ma forse quanto riveli di te non lo sai perché peschi nell’inconscio che sempre inconscio è e resta. E tuttavia la scelta stessa del travestimento (racconto breve, storia di animali, storia gialla, questo o quel tipo di personaggio) rivela una dimensione inconscia proprio perché prende dall’inconscio la sua consistenza (un antico oggetto o un tratto identitario).
D. F. In questo nostro tempo in cui languono le capacità simboliche e la nebulizzazione del senso del limite rende sempre più difficile avere a che fare con le angosce e con le perdite, coltivare dubbi e un senso di responsabilità, la parola che da forma al non detto dentro ognuno di noi (e che quando manca lascia preda di un agire acefalo) non è solo contenuto, è anche atto sociale e relazione, cura e cultura. Quanto pensa che la buona letteratura possa favorire le risorse del pensiero? Crede che gli psicoanalisti, al di fuori della stanza d’analisi, potrebbero contribuire a diffondere una cultura di maggiore consapevolezza?
G. Z. Certamente leggere o scrivere favorisce lo sviluppo delle risorse del pensiero, come del resto ogni forma di arte. In questo senso credo che l’apporto maggiore che può dare la psicoanalisi è non tanto quello di divulgare l’importanza della cultura o della letteratura, ma piuttosto porre interrogativi che possano spiegare il perché di questo sfilacciamento simbolico o cambiamento nell’espressione simbolica che caratterizza l’epoca attuale.
D. F. Nelle Lezioni americane Calvino richiamava il pericolo di perdere la funzione fondamentale dell’immaginazione, che la capacità di evocare immagini in assenza si atrofizzi in un’umanità sempre più inondata dal diluvio delle immagini prefabbricate. Invocava una pedagogia dell’immaginazione, per apprendere a elaborare le proprie visioni interiori, senza lasciarle soffocare sotto questa realtà aumentata in fruizione passiva né ammorbarle in un confuso fantasticare, perché quelle epifanie cariche di significati che spesso fondano l’immaginazione letteraria, animino una scrittura creativa che dia ordine e intenzione a quelle invenzioni. Immaginare ci serve a costruire le rappresentazioni con cui conosciamo noi stessi, gli altri, la realtà che ci circonda, con cui colmiamo i vuoti del pensiero razionale e pensiamo l’invisibile. “Il romanzo non indaga la realtà, ma l’esistenza. E l’esistenza non è ciò che è avvenuto, l’esistenza è il campo delle possibilità umane, di tutto quello che l’uomo può divenire, di tutto quello di cui è capace” (Kundera, L’arte del romanzo).
Pensa che la rivoluzione dei media, insieme alle enormi possibilità che ci ha aperto, destini al cambiamento i libri e gli spazi della lettura che nutrono l’immaginario e la funzione narrativa che fonda l’umano?
G. Z. Immaginare è certamente una funzione centrale della letteratura perché ripresenta ciò che è assente: una persona, un destino non ancora compiuto, una possibilità. Io, però, penso che evocare, esternare una voce, sia una dimensione altrettanto importante. Camus conclude il suo romanzo Lo straniero in un modo straordinariamente singolare: il protagonista alle soglie della sua esecuzione capitale si augura che “ci fossero molti spettatori il giorno della mia esecuzione, e che mi accogliessero con grida di odio”. Insomma, penso che uno scritto letterario debba osare il grido che richiami l’altro da una distanza o che dia all’altro una voce. I media forse rovesciano la prospettiva della scrittura come immaginazione ed evocazione: sono loro che chiamano o presentano esentandoci da tutto questo. Nel bene e nel male. E certamente, come dice Lacan, la partita del vivente dobbiamo giocarla nel campo dell’altro. Ma poi tocca sempre a noi giocarla.