Psicoanalisi e musica. Giornate di studio.
Felici Editore, pp. 110, (2010)
Recensione di Ambra Cusin
“Questi pezzi possono essere compresi solo da chi
crede che i suoni riescano a dire
cose che si possono esprimere
solo con i suoni.”
Arnold Schoenberg
Nel 2009 ho partecipato ad una delle due giornate di studio su Psicoanalisi e Musica organizzate da Gabriela Gabbriellini, Teresa Lorito, Arianna Luperini, Sandra Maestro, Matilde Monteleone, Simona Nissim, Raffaella Tancredi e Maria Grazia Vassallo del Centro Psicoanalitico di Firenze (Società Psicoanalitica Italiana) e la ricordo come una giornata molto appassionata e appassionante.
Poter rileggere ora con calma le relazioni, per preparare questa recensione, è stata un’opportunità veramente piacevole. Immergermi negli scritti, rievocando e riascoltando, magari su vecchi dischi ormai d’epoca, alcuni brani musicali ascoltati durante il convegno, mi ha permesso di lasciar emergere domande e intuizioni, rispetto alla musica dei suoni delle parole in analisi, su cui nel passato avevo già fatto delle timide riflessioni.
Nel testo si parla di “interpretazione”, dell’analista così come del musicista che utilizza il testo musicale per eseguirlo con lo strumento, e ancora di interpretazione di chi ascolta, il fruitore che “interpreta le interpretazioni”, così come, mi viene da aggiungere, avviene con i nostri pazienti che interpretano le nostre interpretazioni in un gioco di continui rimandi, conferme e dubbi, che fanno dell’analisi un processo vitale in continuo cambiamento.
Quello che desidererei ora è, in poche righe, stimolarvi alla lettura di questo bel libro che può divenire per ognuno di noi, appassionato di psicoanalisi e musica, un crogiuolo in cui trasformare molte delle nostre idee sulla quotidianità del nostro lavoro di psicoanalisti.
«Nell’area dell’indicibilità, la psicoanalisi trova affinità con il linguaggio musicale, che cerca di dare forma al sentire, inesprimibile attraverso il linguaggio verbale» dice Gabbriellini, nell’introduzione (5) per aggiungere subito la citazione di Heine sul fatto che «dove le parole finiscono inizia la musica», facendo risuonare le parti profonde della psiche e quell’area musicale del transfert (Mancia) come forma di comunicazione (6).
Molti contributi si soffermano su quella che potremmo chiamare, riprendendo l’intrigante articolo del musicista Proietti, l’ “interpretazione delle semicrome” ovvero di quelle note così piccole e brevi da richiedere attimi brevissimi per essere suonate.
Come ebbe a dire una volta in seduta un paziente musicista «l’aspetto temporale delle sedute psicoanalitiche mi ricorda la velocità di esecuzione di un brano: nelle sedute come nel brano musicale effettivamente si spazia “verbalmente” dall’ “Adagio mesto” all’ “Allegro vivace”… chissà, una specie di interpretazione musicale…».
Proietti sottolinea come le indicazioni di durata, altezza, intensità, timbro e tempo di un medesimo brano siano – sotto certi aspetti – aleatorie così da poter essere interpretate in modi molto diversi attraverso delle realizzazioni musicali veramente differenti tra loro.
Ciò può avvenire anche nella produzione emozionale e intellettiva delle storie che i pazienti ci portano e del nostro ascolto delle medesime. Direi che i nostri pazienti si esprimono spesso per semicrome… Parafrasando proprio una citazione di Baremboim, citato da Proietti (62) penso che lo stesso paziente nell’eseguire il suo brano musicale, il suo urtext – sono quegli spartiti privi delle indicazioni dei vari revisori e quindi dovrebbero, nel limite del possibile, rispecchiare l’autografo originale del compositore – la sua storia riscritta per noi, tenti, nell’«esprimere o interpretare la musica in quanto tale […] di puntare a divenirne parte» E’ come se la prima interpretazione di un testo, quella fornita dal paziente, costituisse di per sé un sottotesto che si sviluppa, «confermando, variando e contrastando il testo reale. Questo sottotesto è insito nello spartito ed è a sua volta illimitato; esso deriva da un dialogo tra l’interprete e lo spartito» (Baremboim, in Proietti, 62), tra il paziente e la sua storia, potremmo dire noi, aggiungendo che a sua volta questo racconto/interpretazione viene da noi reinterpretato, tenendo fede il più possibile al testo presentatoci dal paziente. Interpretato però con le nostre parole, con i nostri suoni, anch’essi portatori di una loro musica originale, intrecciata non solo alle nostre conoscenze, teoriche e tecniche, della psicoanalisi, ma alla nostra di storia, al racconto della nostra analisi, tutto compattato (oggi diremmo “zippato”) in poche e stringate parole, a volte in semplici suoni.
Infatti, come ci ricorda Antonio Di Benedetto (9) «ogni essere umano suona il suo strumento vocale, per trasmettere qualcosa che va oltre il testo verbale. Nel comunicare con la parola sviluppa un suo specifico linguaggio sonoro, suonando se stesso mediante lo strumento a fiato della propria voce […]» rivelando ” i moti dell’animo del parlante”. Ma questo vale anche per l’analista che con le sue parole fornisce al paziente una “musica” propria, una propria interpretazione di un’improvvisazione “a quattro mani” (Petrella) fatta in quel momento con il paziente, con tutti i distinguo interessantissimi che su questa metafora, della Nissim Momigliano, vengono fatti nell’articolo, sottolineando i punti di debolezza e criticità della suddetta metafora.
Di Benedetto attrae la nostra attenzione sull’importanza di passare da un registro unicamente osservativo/visivo, centrato sui contenuti dell’immaginario visivo del discorso, alla percezione della “colonna sonora” delle verbalizzazioni attraverso una sorta di rêverie acustica (14).
Ma come dice Fausto Petrella “l’ascolto” da parte dell’analista «comporta […] processi di selezione, scelta, trasformazione o traduzione di un testo che viene prodotto qui ed ora; si sviluppa così un universo di discorso in movimento e in continua trasformazione» (29).
Nel testo troviamo anche accenni ai lavori di Sabine Spielrein, riportati da Rita Corsa, che già nei primi anni venti sottolineava “il potere comunicativo degli elementi melodico-ritmici” in quanto «Per gli esseri umani hanno un ruolo di gran lunga preminente, come mezzo per intendersi a livello cosciente, i linguaggi trasmessi per via acustica (melodia e, soprattutto parola) […] il vagito ad esempio è un sicuro mezzo di intesa fra il bimbo e la persona che lo accudisce» (95).
Ancora ricordo il lavoro clinico di Giuliana Marin in cui viene portato il caso di un ragazzo non vedente che “vedeva” attraverso il suono di una campana che spezzava il silenzio in cui veniva lasciato, regolandogli il tempo fino al ritorno della madre (103).
Ma il libro spazia anche sulle interessanti riflessioni, proposte da Antonio Di Benedetto, sulle differenze tra Ideale-dell’Io e Super-Io, quasi una lezione su questo tema, a proposito di un genio come Mozart con un intrigante quesito finale: «perché lo stesso processo, di mortificazione del Super-Io e di parallela esaltazione dell’Ideale-dell’Io, produce in certi casi deliri megalomanici e in altri (come in Mozart) comporti invece uno sviluppo geniale? Resta il mistero inesplicabile della loro creatività […] (che) non si può ridurre ad un meccanismo… psicopatologico» (44).
Ci sono poi osservazioni, quasi parallele, sebbene profondamente diverse, di Corrado De Agostini sull’apparente vitalità di Don Giovanni, che nel conquistare le sue 2065 donne, da catalogo, fa trasparire il «gelo che si annida nella veste di una sfrenata, incosciente allegria […] chiuso in un bozzolo che lo imprigiona» (83), o la profonda rilettura di Pietro Bria di alcuni scritti di Giuseppe Sinopoli sul tema del leitmotiv in Wagner. Per Sinopoli la musica è forma espressiva e non puro gioco di forme sonore. Grazie ad essa, parafrasando Mahler, le sensazioni nebulose aprono la strada all’altro mondo in cui le cose non hanno tempo e spazio. Con la musica, ci dice Mahler si dà forma ad esperienze interiori che non possono essere dette a parole (46). Bria cita Sinopoli che ci parla della natura e funzione del Leitmotiv in Wagner, cioè di quella «tecnica compositiva che è anche uno straordinario dispositivo conoscitivo e vero motore della drammaturgia wagneriana […] (che) attrae o trascina a sé motivi e tempi musicali stabilendo associazioni […] (e) tramite tali interazioni si accede […] a percorsi labirintici […] dove ai leitmotiv più evidenti si intrecciano altri nascosti […] pronti a segnalare aspetti inconsci» (47).
Ed è per questo che un artista come Vaccarone (pittore e scultore), dipinge con la musica attorno e dentro l’animo, così che i brani dei musicisti entrino “nel mio linguaggio” abitandolo «a tal punto da divenire progressivamente ‘miei’, prendendo vita nelle mie immagini secondo lo stesso percorso con cui nascono e si realizzano tutti i miei lavori, pur restando altro da me» (87).
È Marco Sarno, che riprende il pensiero di Fornari, a sostenere come nella musicalità dello scambio analitico dobbiamo avere il coraggio di andare avanti perché siamo di fronte a «quel codice vivente, dal quale siamo parlati e che unisce, in fondo come nello sviluppo embrionale, filogenesi e ontogenesi» (73).
Per tutti questi motivi penso che si dovrebbe dedicare un tempo anche a studiare gli effetti, sul paziente, delle parole dell’analista, dal punto di vista della musicalità collegata all’inconscio dell’analista, della sua storia, della storia della sua analisi e della sua formazione. Le parole dell’analista che, a volte, quando sono entrate nella mente del paziente grazie non solo al suono delle parole delle interpretazioni, ma di qualsivoglia suono noi emettiamo per il semplice fatto di essere concretamente presenti, ho ipotizzato possano assumere la forma concava del crogiuolo, parole concave, dunque, in cui il paziente può operare le proprie trasformazioni. Un crogiuolo che si attiva grazie alle interazioni che avvengono con i contenuti selezionati dal paziente stesso, delle parole e dei suoni, ma anche dei silenzi, detti dall’analista. Storie intrecciate che interagiscono tra loro e si mescolano trasformando reciprocamente i membri del processo analitico.
Se non è un’improvvisazione a quattro mani, senza spartito, mi sembra pur sempre utile la metafora, con tutti i suoi limiti, del suono d’insieme, dell’armonia, magari ricca di dissonanze originali, creata da due umanità che intrecciano l’intimità delle loro storie.
Gennaio 2011