Marco Belpoliti (2015)
Primo Levi di fronte e di profilo
Editore Guanda
“Noi siamo ciò che gli avvenimenti traggono da noi.”
P. Valery Quaderni
Il libro di Belpoliti è frutto di una minuziosa e appassionata ricerca, un racconto partecipe che come onde di marea fluisce e rifluisce attraverso l’intreccio della vita e delle vicende personali e storiche di cui Primo Levi è stato protagonista e testimone. Ne esce il ritratto di un uomo sobrio, animato dall’impegno a portare una testimonianza nella sua più profonda veridicità, che si è fatta indagine intima sulla natura umana nell’assurdità della condizione concentrazionaria, perché “qualcosa che non si può capire costituisce un vuoto doloroso, una puntura, uno stimolo permanente che chiede di essere soddisfatto”. Divenuto scrittore per l’esperienza di Auschwitz, come ebbe spesso a dire, Levi insegue il tentativo “di nulla lasciare inesplorato, di tutto sollevare dal buio del sottosuolo alla luce della consapevolezza”, un comprendere che non è mai condanna né assoluzione, ma l’onestà intellettuale di chi si interroga sulla responsabilità individuale con uno spessore d’umanità che fa pensare al rovescio della banalità del male.
Belpoliti echeggia un’anima divisa a partire da quella doppia iscrizione di partigiano catturato dalla milizia fascista e deportato come ebreo per sottrarsi alla fucilazione, l’ibrido Levi, come amava definirsi, è preso fra il mestiere di chimico e la scrittura, tra la verità del testimone e la finzione del narrare in uno stile improntato della cultura classica eppure animato da tracce di postmodernismo.
Memorialista e narratore orale, traduttore, scrittore politico ed ebraico, poeta e romanziere, quello di Levi è un laboratorio di scrittura: appunti, dattiloscritti, copie diverse del medesimo testo.
Se questo è un uomo nasce dai racconti orali: “raccontavo con vertigine”, dal bisogno di fermare sulla carta le cose accadute: “il libro avevo incominciato a scriverlo là, in quel laboratorio tedesco pieno di gelo, di guerra e di sguardi indiscreti”. Deportato nel febbraio del ’44, è relegato a Monowitz, un Arbeitslager, un campo di lavori forzati all’interno del complesso di Auschwitz collegato all’industria chimica Buna-Werke che ha finanziato la costruzione del lager e sfrutta la manodopera dei deportati. Vi rimarrà un anno fino alla liberazione ad opera dei russi.
Al suo rientro a Torino, nell’ottobre del ’45, Levi prende a scrivere in una specie di stato di trance: “mi sentivo il bisogno di espellere”, “scrivevo disordinatamente dei ricordi che mi avvelenavano”, e la molla di quella necessità è “la pena del ricordarsi, il vecchio feroce struggimento di sentirsi uomo, che mi assalta come un cane all’istante in cui la coscienza esce dal buio”. È una scrittura di getto, quasi irriflessiva, che possiede la vocazione a persuadere più che a commuovere, intessuta di una forte fibra morale. Quel “bisogno di fare gli altri partecipi”, impulso immediato e violento che pare avere uno “scopo di liberazione interiore”, non vuole formulare capi d’accusa ma offrire strumenti per “uno studio pacato di alcuni aspetti dell’animo umano”.
Il suo è uno stile conciso e tendente all’esattezza, una lingua nuova, imparentata con il parlato, a tratti quasi corporea, la cui scelta dei tempi verbali – nei passaggi dal passato al presente – eternizza gli istanti ravvicinando il lettore a quel mondo infero. Quel che appare un libro lineare nella sua struttura, subisce invece numerose correzioni, aggiunte e riscritture per raggiungere la sua forma: “Ci vuole idoneità allo scopo. Bisogna togliere il superfluo. Bisogna che non manchi l’indispensabile”.
Un itinerario doloroso da convalescente che sfocia nella prima stesura, pubblicata dall’editore De Silva nel ’47 dopo il rifiuto di Einaudi.
Belpoliti approfondisce il contesto storico di quegli anni vissuti in una condizione inerziale propria dei periodi di transizione, uno stato di memoria divisa in cui forse si inserisce anche quel rifiuto, che Levi legge come un rigetto più ampio e collettivo: “uno sgarbo, una festa guastata” per chi desidera solo dimenticare. Einaudi lo pubblicherà nel ’58 con una nuova edizione rivista, in un clima decisamente diverso che ne decreterà il riconoscimento fino al successo.
Ma va considerato, riflette l’Autore, che anche le facili inclusioni e le santificazioni rappresentano un modo altrettanto rapido ed efficace per evitare di fare davvero i conti con le questioni.
Levi prende la parola in pubblico, fa pellegrinaggi nelle scuole, combatte contro l’indifferenza, la retorica, le imbalsamazioni dell’agiografia: “non è lecito dimenticare, non è lecito tacere”, “per la nostra generazione non c’è congedo”.
“Voi che vivete sicuri / nelle vostre tiepide case, / voi che trovate tornando a sera / il cibo caldo e visi amici: / Considerate se questo è un uomo / che lavora nel fango / che non conosce pace / che lotta per mezzo pane / che muore per un sì o per un no. / Considerate se questa è una donna, / senza capelli e senza nome / senza più forza di ricordare / vuoti gli occhi e freddo il grembo / come una rana d’inverno. / Meditate che questo è stato: / vi comando queste parole. / Scolpitele nel vostro cuore / stando in casa andando per via / Coricandovi alzandovi; / ripetetele ai vostri figli. / O vi si sfaccia la casa, / la malattia vi impedisca, / i vostri nati torcano il viso da voi.” (Shemà, 10 gennaio 1946)
La poesia è come una sorta di risonanza della sua vicenda interiore che fa da contrappeso alla narrazione memorialistica; Levi la descrive come una “curiosa infezione, una malattia esantematica, che da un rash”, folgorazioni che lo stupiscono, un fenomeno incontrollato che non sa teorizzare, forse sulla falsariga della memoria involontaria dei sogni che lo tormentano, dalle cui inquietudini sembrano scaturire direttamente alcuni racconti degli anni successivi.
Se la scrittura del lager è un fatto intimo, scrive Belpoliti, un atto di liberazione che è quasi una terapia, quella del ritorno, per quanto velata dal pudore, è una scrittura di denuncia: “la natura insanabile dell’offesa, che dilaga come un contagio. È stolto pensare che la giustizia umana la estingua. Essa è inesauribile fonte di male: spezza il corpo e l’anima dei sommersi, li spegne e li rende abietti; risale come infamia sugli oppressori, si perpetua come odio nei superstiti, e pullula in mille modi, contro la stessa volontà di tutti, come sete di vendetta, come cedimento morale, come negazione, come stanchezza, come rinuncia.”
La tregua è scritto fra il ’61 e il ‘62 su una traccia stesa all’inizio del ’46, è la storia del ritorno alla vita, il libro più deliberatamente letterario, che non si fa mancare un tono picaresco.
Il lager si dilata a significato universale, identificandosi con la morte cui nessuno si sottrae, morte implicita nel destino umano, inscritta nella vita che è una tregua, una proroga: “Sentiamo fluirci per le vene, insieme col sangue estenuato, il veleno di Auschwitz: dove avremmo attinto la forza per riprendere a vivere, per abbattere le barriere, le siepi che crescono spontanee durante tutte le assenze, intorno ad ogni casa deserta, ad ogni covile vuoto? Presto, domani stesso, avremmo dovuto dare battaglia, contro nemici ancora ignoti, dentro e fuori di noi: con quali armi, con quali energie, con quale volontà? Ci sentivamo vecchi di secoli, oppressi da un anno di ricordi feroci, svuotati e inermi. I mesi or ora trascorsi, pur duri, di vagabondaggio ai margini della civiltà, ci apparivano adesso come una tregua, una parentesi di illimitata disponibilità, un dono provvidenziale ma irripetibile del destino”.
Ma in quella non sperata primavera di libertà alberga una stretta d’angoscia e un’immedicabile tristezza: “Quando giunsero ai reticolati, sostarono a guardare, scambiandosi parole brevi e timide, e volgendo sguardi legati da uno strano imbarazzo sui cadaveri scomposti, sulle baracche sconquassate, e su noi pochi vivi. (…) apparivano oppressi, oltre che da pietà, da un confuso ritegno, che sigillava le loro bocche, e avvinceva i loro occhi allo scenario funereo. Era la stessa vergogna a noi ben nota, quella che ci sommergeva dopo le selezioni, ed ogni volta che ci toccava assistere o sottostare a un oltraggio: la vergogna che i tedeschi non conobbero, quella che il giusto prova davanti alla colpa commessa da altrui, e gli rimorde che esista, che sia stata introdotta irrevocabilmente nel mondo delle cose che esistono, e che la sua volontà buona sia stata nulla o scarsa, e non abbia valso a difesa. Così per noi anche l’ora della libertà suonò grave e chiusa, e ci riempì gli animi, ad un tempo, di gioia e di un doloroso senso di pudore, per cui avremmo voluto lavare le nostre coscienze e le nostre memorie della bruttura che vi giaceva: e di pena, perché sentivamo che questo non poteva avvenire, che nulla mai più sarebbe potuto avvenire di così buono e puro da cancellare il nostro passato, e che i segni dell’offesa sarebbero rimasti in noi per sempre, e nei ricordi di chi vi ha assistito, e nei luoghi dove avvenne, e nei racconti che avremmo fatti.”
“Vorrei credere qualcosa oltre, / oltre che morte ti ha disfatta. / Vorrei poter dire la forza / con cui desiderammo allora, / noi già sommersi, / di potere ancora una volta insieme / camminare liberi sotto il sole.” (25 febbraio 1944)
“Conclusa La tregua, mi è parso di aver finito, di aver dato fondo a una scorta di esperienze uniche, tragiche eppure per me paradossalmente preziose; mi è parso di essermi compiutamente bruciato come testimone come narratore e interprete di una certa realtà”.
Molta critica, rimarca Belpoliti, sostiene che il Levi dei racconti sia quello più pacificato, ma alcune sembrano fantasie che danno forma a parti oscure, suscitando un effetto perturbante, inquietano quanto fanno divertire, una ‘malinconia umanistica’ l’ha definita Cases. Levi definisce i suoi racconti “la percezione di una smagliatura nel mondo in cui viviamo, di una falla piccola o grossa, di un ‘vizio di forma’ che vanifica uno od un altro aspetto della nostra civiltà o del nostro universo morale” e ne descrive il linguaggio come stridulo, sbieco, antipoetico, disumano. Non è difficile trovarvi la traccia del lager.
Nella lettera A un giovane lettore scrive: “Non abbia paura di fare un torto al suo Es imbavagliandolo, non c’è pericolo, ‘l’inquilino del piano di sotto’ troverà comunque il modo di manifestarsi, perché scrivere è denudarsi”. Infatti, scritti i racconti sotto lo pseudonimo di Damiano Malabaila, solo successivamente arriva a considerarla una scelta non casuale: mala-baila (cattiva balia): “mi pare che da molti dei miei racconti spiri un vago odore di latte girato a male, di nutrimento che non è più tale, insomma di sofisticazione, di contaminazione e di maleficio. Veleno in luogo dell’alimento”. Così gli appariva il lager: un mondo alla rovescia.
Ricorda Celan in “Fuga di morte”: “Negro latte dell’alba noi lo beviamo la sera / noi lo beviamo al meriggio come al mattino lo beviamo la notte / noi beviamo e beviamo (…) la morte è un maestro tedesco”, dove il poeta evoca la disperazione nei campi attraverso l’immagine di una madre che avvelena il figlio neonato.
È l’effetto psicotizzante di cui parlò anche Bettelheim in Sopravvivere coniando l’espressione “situazione estrema” per indicare l’essere precipitati in una condizione in cui tanto le fonti di protezione individuale quanto quelle sociali su cui possiamo fare affidamento per la nostra integrazione si sgretolano.
Bleger (1967) ha concettualizzato un’organizzazione primitiva dell’Io e il permanere, anche in età adulta, di nuclei di indifferenziazione primaria (agglutinati) che hanno la particolarità di non poter essere contenuti dalla personalità ma di venire proiettati nel setting esterno: famiglia, gruppi di appartenenza, abitudini, valori, che costituiscono uno sfondo di sicurezza per l’individuo. Questa depositazione inconscia avviene attraverso un legame simbiotico che conferisce un carattere di familiarità e sostiene l’aspettativa di una benevola complementarità del soggetto con il mondo che lo circonda. In situazioni critiche di perdita di questi riferimenti, l’individuo è costretto a reintroiettare questi nuclei indifferenziati con effetti di angoscia panica (Simbiosi e ambiguità, Ed. Lauretana, 1972). Amati Sas (Riv. Psicoanal. 1977/3) impiega le concezioni blegeriane per leggere lo stato obnubilato e l’inerzia dei torturati: la regressione all’ambiguità, con la qualità proteiforme e mimetica della sua non-integrazione, consente un adeguamento regressivo alle circostanze esterne di violenza e orrore, attraverso un’anestesia affettiva e la lesione delle capacità di discriminazione e di pensiero fino al mutamento della personalità.
Pare di trovare tutto questo nel racconto di Levi: “Tutti soffrivano di un disagio incessante, che inquinava il sonno e che non ha nome (…) un’angoscia atavica (…) dell’universo deserto e vuoto, (…) da cui lo spirito dell’uomo è assente: non ancora nato o già spento”; “non era rassegnazione cosciente, ma il torpore opaco delle bestie domate con le percosse”; “il non soffrirne, l’accettare l’eclissi della parola, era un sintomo infausto: segnalava l’approssimarsi dell’indifferenza definitiva.”
Ha una visione lucida e acuta su mezzi e moventi di quella “demolizione” di umanità del termitaio di Auschwitz, della macchina per vilipendere, con la fanfara e la marcia, la confusione delle lingue, la sottrazione di solidarietà: “ci vedono ignobilmente asserviti, senza capelli, senza onore e senza nome, ogni giorno percossi, ogni giorno più abietti, e mai leggono nei nostri occhi una luce di ribellione, o di pace, o di fede. Ci conoscono ladri e malfidi, fangosi cenciosi e affamati, e, confondendo l’effetto con la causa, ci giudicano degni della nostra abiezione”.
“Dovremo trovare in noi la forza di fare si che dietro al nome, qualcosa ancora di noi, di noi quali eravamo, rimanga”. Conservare l’unica facoltà rimasta: “la facoltà di negare il nostro consenso”.
Levi ha sempre tenuto a dire che “l’abitudine a penetrare la materia, il desiderio costante di non fermarsi alla superficie delle cose” gli viene dalla chimica, “arte di pesare e distinguere”. Sembra diffidare della psicoanalisi senza esserne digiuno, un’anima interrogante che ha uno sguardo da etologo sull’essere umano: “La facoltà umana di scavarsi una nicchia, di secernere un guscio, di erigersi intorno una tenue barriera di difesa, anche in circostanze apparentemente disperate, è stupefacente, e meriterebbe uno studio approfondito. Si tratta di un prezioso lavorio di adattamento, in parte passivo e inconscio, e in parte attivo.”
Uno dei brani del quadernetto su cui scrive, recita: “Contro l’ingiustizia non c’è difesa. Se cedi cadrai senza gloria, come una bestia al macello, se resisti, potrai morire o vivere, ma non troverai altre armi per la lotta che ancora, anche per te, la violenza e la frode; se fuggi fino ai confini della terra ti seguirà la tua coscienza di uomo, e ti peserà in petto il rimorso del disertore insieme con quello del complice.”
La ricerca della verità nutre la morale (T. Todorov Di fronte all’estremo, Garzanti) e la scrittura di Levi è tessuta degli spasmi inesausti della lotta contro un naufragio.
“Sognavamo nelle notti feroci / sogni densi e violenti / sognati con anima e corpo: / tornare; mangiare; raccontare. / Finché suonava breve sommesso / il comando dell’alba: / ‘Wstawać’: / e si spezzava in petto il cuore. / Ora abbiamo ritrovato la casa, / il nostro ventre è sazio, / abbiamo finito di raccontare. / È tempo. Presto udremo ancora / il comando straniero: / ‘Wstawać’ ” (Alzarsi, 11 gennaio 1946)
Nell’82 l’Einaudi gli chiede la traduzione del Processo di Kafka: “da questa traduzione sono uscito come da una malattia.”
Non stupisce. Kafka è capace come pochi nelle “tecniche per far emergere l’abisso, per girare intorno all’innominabile, (…) rendere la lingua perfettamente trasparente alla luce che consuma ciò che attraversa”. Steiner rimarca la sorprendente chiaroveggenza del Processo: l’inferno burocratico e il gioco “sull’insetto immondo”, i tribunali incomprensibili di Joseph K, la tortura e l’anonimato della morte bestiale saranno l’alfabeto dei regimi totalitari del Novecento (G. Steiner Nessuna passione spenta Garzanti, 1996).
Belpoliti definisce quella di Levi una morale conradiana, per cui l’uomo è il risultato dello scontro con le forze avverse e di una ricognizione profonda dei propri confini. Todorov legge in quel mare di dolore cui giunge attraverso quanto c’è di più alto in lui – la volontà di capire – qualcosa che alla fine lo sommerge, una vergogna per la propria umanità cui non ci si può sottrarre. Certo dopo il suicidio dell’Autore, è facile leggere I sommersi e i salvati come il suo libro testamento. È un ritorno al punto di partenza, scrive Belpoliti, con cui Levi si distanzia in uno strappo improvviso dalla figura del narratore e diventa scrittore della propria testimonianza, eliminando per quanto possibile ogni elemento strettamente narrativo.
Il progetto lo annuncia come “uno studio sociologico, già tentato da altri forse, ma su cui credo di avere qualche cosa di mio personale da dire. Guardare a quella macchia del secolo attraverso la decantazione di qualche decennio grazie alla quale i fatti storici acquistano il loro chiaroscuro e la loro prospettiva. Cioè, una presa di posizione nei confronti dell’ambiguità.” E sullo sfondo, il richiamo a guardarsi dal giudicare epoche e luoghi lontani con il metro del presente.
“Pare che sia giunto il tempo di esplorare lo spazio che separa le vittime dai persecutori, e di farlo con mano più leggera, e con spirito meno torbido (…). Solo una retorica schematica può sostenere che quello spazio sia vuoto: non lo è mai, è costellato di figure turpi e patetiche, che è indispensabile conoscere se vogliamo conoscere la specie umana, se vogliamo saper difendere le nostre anime quando una simile prova si dovesse nuovamente prospettare.”
Lo spirito torbido cui Levi allude è quello del film Il portiere di notte della Cavani, con cui polemizzerà, perché rappresentare il tema della mimesi con gli oppressori inducendo a confondere vittime e carnefici la considera una malattia morale e un sinistro segnale di complicità.
Libero dalle semplificazioni tanto delle spinte all’indifferenziato quanto della logica manichea, è di ben altro spessore il suo pensiero sulla zona grigia, una realtà “dai contorni mal definiti, che insieme separa e congiunge i due campi dei padroni e dei servi”.
L’area forse più inquietante della collaborazione è quella dei Sonderkommandos, le squadre speciali che, occupandosi della parte più sporca, potevano alleggerire qualche coscienza spostando sulle vittime il peso della colpa: “chiedo che la storia dei ‘corvi del crematorio’ venga meditata con pietà e rigore, ma che il giudizio su di loro resti sospeso”. Forse in quell’abisso di malvagità c’era anche un’altra posta: “vi abbiamo corrotti, trascinati sul fondo con noi. Siete come noi, voi orgogliosi: sporchi del vostro sangue come noi. Anche voi, come noi e come Caino, avete ucciso il fratello.”
Levi, sempre interessato al tema della responsabilità individuale, mette l’accento sul potere di pervertimento dei malvagi: “I lager sono stati, oltre che luoghi di tormento e di morte, luoghi di perdizione. Mai la coscienza umana è stata violentata, offesa, distorta come nei lager: in nessun luogo è stata più clamorosa la dimostrazione di quanto sia labile ogni coscienza, di quanto sia agevole sovvertirla e sommergerla.” Prenderà a prestito una citazione di Manzoni: “I provocatori, i soverchiatori, tutti coloro che, in qualunque modo, fanno torto altrui, sono rei, non solo del male che commettono, ma del pervertimento ancora a cui portano l’animo degli offesi.”
L’idea di un’opposizione attiva non sfiorava che poche coscienze: “in questo il fascismo era stato operante: a conquistare le coscienze non era riuscito, ma era riuscito ad addormentarle.” “È un gioco da bambini trovare traditori e farne dei satrapi, corrompere le coscienze, creare o restaurare quell’atmosfera di consenso ambiguo, o di terrore aperto, che era necessario per tradurre in atto i loro disegni.” Una relazione verticale che pretende l’obbedienza è efficace per anestetizzare ogni giudizio critico, limita la responsabilità alla conformità al comando, una delle linee di difesa più impiegate dagli imputati nazisti. Anche nel profilo tracciato dalla Arendt, la coscienza di Eichmann è come un contenitore vuoto che articola la lingua della società rispettabile.
La riflessione di Levi sull’umanità dei carnefici non è una teologia del male, ma un’interrogazione sul senso del male senza apoditticità di risposta. “Salvo eccezioni”, scrive riprendendo Langbein, lo storico di Auschwitz, “non sono mostri sadici, sono gente come noi, irretiti dal regime per la loro pochezza, ignoranza o ambizione”.
L’obbedienza e la passiva sottomissione che non paiono intaccare la struttura morale, gli si pongono davanti in modo particolarmente vivido quando il suo lavoro lo mette in contatto con un chimico tedesco con il quale lavorò nel campo di Monowitz, dove i deportati si trovavano fianco a fianco con i civili impiegati nel laboratorio della Buna. È una “eccitazione violenta” quella che lo assale: “fare i conti con uno degli ‘altri’ era stato il mio desiderio più vivo e permanente del dopo-Lager”. Meyer è un uomo che gli rivolse una frase di “compassione distratta e momentanea”, che ebbe nei suoi confronti “un rudimento di solidarietà professionale” facendogli avere un paio di scarpe, chissà se più per andargli in aiuto o perché non onorava il decoro di quel luogo.
Ritrovatolo, Levi gli scrive una lettera che cerca di comprendere l’uomo e il suo rapporto con la responsabilità. La risposta che riceve non è una lettera umile e redenta, né manifesta la glaciale superbia del nazista: la realtà risulta sempre “più ruvida, meno rotonda. È raro che giaccia in un piano.” Il tedesco non è “né infame né eroe”, è un “esemplare umano tipicamente grigio, uno dei non pochi monocoli nel regno dei ciechi” e in buona sostanza non si assume nessuna responsabilità, orbato da una “florida ottusità”. “Non era un ignavo né un sordo né un cinico, non si era adattato, faceva i conti col passato e i conti non tornavano bene, cercava di farli tornare, magari barando un poco. Si poteva chiedere molto di più a un ex SA?”
Levi si sente intruso quando il chimico tedesco gli annuncia una sua visita, come fosse desideroso di raccontargli il “passato di comodo” che si era costruito senza rendersi conto che lui era l’unica persona che non avrebbe potuto crederci. “Paura” è ciò che Levi racconta di provare davanti alla prospettiva di quell’incontro: “non mi sentivo capace di rappresentare i morti di Auschwitz, e neppure mi pareva sensato ravvisare in M. il rappresentante dei carnefici. Mi conosco: non posseggo prontezza polemica, l’avversario mi distrae, mi interessa più come uomo che come avversario, lo sto a sentire e rischio di credergli; lo sdegno e il giusto giudizio mi tornano dopo, sulle scale, quando non servono più. Mi stava bene continuare per lettera”. Si appresta a rispondergli con un’altra lettera in cui lo ringrazia di quel che ha fatto per lui, accennando a chi, alla Buna, aveva fatto gesti più concreti e coraggiosi, ma che non tutti nascono eroi e che ciò è tollerabile in un mondo in cui tutti fossero come lui, onesti e inermi: ma nel mondo reale in cui gli armati costruiscono Auschwitz “gli onesti e inermi spianano loro la strada”. Qualche giorno dopo l’annuncio di quella visita la moglie di Meyer lo chiama al telefono annunciandogli la morte improvvisa del chimico a 60 anni.
Questo episodio ricorda quello raccontato da Gitta Sereny nel libro In quelle tenebre (Adelphi, 1975) che raccoglie i lunghi colloqui che la scrittrice ha avuto in carcere con Franz Stangl, comandante di Treblinka, e la meticolosa ricerca svolta per verificare tutte le sue dichiarazioni e quelle degli altri testimoni. Anche nel suo racconto emerge un burocrate ossequioso, che ha colto l’occasione di fare carriera. I fatti raccontati dall’ufficiale nazista sembrano adattati alla necessità di razionalizzare ed evitare di affrontare una coscienza di colpa. Rispondendo alle domande, ciò da cui più si preoccupa di difendersi sono le innocue manifestazioni di corruzione morale, come se la responsabilità si misurasse più su quel che un uomo fa che su quello che è, scrive la Sereny, che riscontra la medesima cecità volontaria anche nella moglie, che preferisce credere a ciò che è comodo e non a ciò che si vede. Durante l’ultimo dei loro colloqui, in Stangl sembra squarciarsi un intravisto: “la mia colpa… solo adesso… ora che ho parlato… ora che per la prima volta ho detto tutto…”. Ma più delle parole, scrive la Sereny, è l’afflosciarsi del corpo e il volto cadente nel silenzio che ne segue. Poi tutto si richiude e lui torna allegro, salutandola. Qualche ora dopo muore per un attacco di cuore: “credo sia morto allora perché alla fine, sia pure per un momento, s’era messo di fronte a se stesso e aveva detto la verità; era stato uno sforzo ciclopico, per raggiungere quel momento fuggevole in cui era divenuto l’uomo che avrebbe dovuto essere”.
In filigrana, il pensiero di quanta realtà può essere tollerata è riscontrabile attraverso l’esplorazione tanto degli aguzzini quanto le vittime. Se per gli uni concerne “l’edificarsi di una verità confortevole che consente di vivere in pace”, per gli altri interroga il baratro che si apre fra sopravvivenza e testimonianza: i Mussulmani: “non siamo noi i superstiti, i testimoni veri. (…) Noi sopravvissuti siamo una minoranza anomala oltre che esigua: siamo quelli che, per loro prevaricazione o abilità o fortuna, non hanno toccato il fondo. Chi lo ha fatto, chi ha visto la Gorgone, non è tornato per raccontare, o è tornato muto; ma sono loro, i “mussulmani”, i sommersi, i testimoni integrali, coloro la cui deposizione avrebbe avuto significato generale”; “la demolizione condotta a termine, l’opera compiuta, non l’ha raccontata nessuno, come nessuno è mai tornato a raccontare la sua morte (…) perché la loro morte era cominciata prima di quella corporale. Settimane e mesi prima di spegnersi, avevano già perduto la virtù di osservare, ricordare, commisurare ed esprimersi. Parliamo noi in loro vece, per delega.”
La vergogna è il grande tormento, il paesaggio spettrale di molte delle sue pagine, la vergogna per ciò che si è subito e per ciò che non si è potuto fare per combattere quell’abiezione, per il pensiero di poter essere vivi al posto di un altro, alla ricerca di una giustificazione alla propria sopravvivenza: “il pensiero che questo mio testimoniare abbia potuto fruttarmi da solo il privilegio di sopravvivere, mi inquieta, perché non vedo proporzione fra il privilegio e il risultato”. La vergogna dell’essere uomini: “apparteniamo alla stessa famiglia umana a cui appartennero i nostri carnefici. Davanti all’enormità della loro colpa, ci sentiamo anche noi cittadini di Sodoma e Gomorra; non riusciamo a sentirci estranei all’accusa che un giudice axtraterreno, sulla scorta della nostra stessa testimonianza, eleverebbe contro l’umanità intera. Siamo figli di quell’Europa dove è Auschwitz: siamo vissuti in quel secolo in cui la scienza è stata curvata, ed ha partorito il codice razziale e le camere a gas. Chi può dirsi sicuro di essere immune dall’infezione?”
Conosciamo la piega difensiva nell’ambiguità in situazioni estreme e la minaccia al proprio senso di integrazione, come la vergogna segnali la minaccia nel rapporto con l’Ideale e la necessità dell’Io di mantenere posizioni di discriminazione, del lavoro psichico atto a sostenere il conflitto (Amati Sas, Int. J. Psychoanal. 1992/73, 329).
“Se potessi racchiudere in un’immagine tutto il male del nostro tempo, sceglierei questa immagine, che mi è familiare, un uomo scarno, dalla fronte china e dalle spalle curve, sul cui volto e nei cui occhi non si possa leggere traccia di pensiero.” “Si esita a chiamarli vivi”, scrive. Ma come non pensare al motto della milizia: “l’obbedienza dei cadaveri”. Non sono forse entrambi esiti di una venefica desoggettivazione?
“All’uscita dal buio, si soffriva per la riacquistata consapevolezza di essere stati menomati.” La normalità del bene della sua testimonianza: “tenere distinte la buona e la mala fede è costoso: richiede una profonda sincerità con se stesso, esige uno sforzo continuo, intellettuale e morale”. Quell’inesausto lavorìo per la consapevolezza, per il pensiero come attività etica è la sua eredità.
“Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario, perché ciò che è accaduto può ritornare, le coscienze possono nuovamente essere sedotte ed oscurate: anche le nostre”.
“Il mio talento è la vita;
la sua dignità quella di saperla narrare fino in fondo.
Il narratore è l’uomo che potrebbe lasciar consumare fino in fondo
il lucignolo della propria vita
alla fiamma misurata del suo racconto.”
W. Benjamin
Daniela Federici
Gennaio 2016