Niente di vero
di Veronica Raimo (Einaudi, 2022)
a cura di Daniela Federici
Parole chiave: #memoria, #vergogna, #ironia, #noia
“Nell’umorismo non si tratta di pensare ad altro
ma di pensare in un altro modo”
Kamieniak Freud: figlio dell’umorismo?
Un libro folgorante, una scrittura caustica, affilata sul disincanto e che dissacra con un’ironia profonda ogni retorica sui buoni sentimenti.
Veronica Raimo racconta di un contesto familiare pieno di idiosincrasie e disfunzionalità: una madre impermeabile che anticipa sciagure, un padre ipocondriaco che chiude fra muri posticci l’affaccio all’esistenza, un fratello genio da tenere per mano per potersi addormentare, un nonno capace di cogliere l’intima sofferenza di una bambina prostrata dalla vita infondendole fiducia. Una traiettoria costellata di omissis la sua famiglia, un lancio di dadi che ha mancato l’incontro con affetti più solidi e caldi, in una casa che diventava una palude di vaporosa angoscia.
Come facciamo a uscire da questa cameretta? Come facciamo a liberarci?
Un memoir che potrebbe essere un diario di sedute d’analisi: una voce narrante che raccoglie l’emergere associativo di ricordi e pensieri sui propri inciampi, le epifanie, gli urti, i torti, le conquiste e le perdite, l’esserci e il dileguarsi di sé negli eventi, le strategie di fuga dal dolore.
Nella mia vita non vedo mai il bicchiere mezzo pieno. Nemmeno mezzo vuoto. Lo vedo sempre sul punto di rovesciarsi. Oppure non lo vedo proprio. Non c’è nessun bicchiere. Non c’è niente.
Non mi resta l’assenza ma la perplessità.
Non so dove trovare la risposta, perché a quel punto è svanita anche la domanda. A volte mi chiedo se l’indeterminatezza costante in cui vivo dipenda da una mia caratteristica innata: non mi riconosce nessuno.
I tanti nomi con cui la chiamano, il mistero di cosa veda in lei la madre quando va in cerca di sue versioni surrogate, il diario lasciato per depistarla, le maschere da adulta e le simulazioni.
È quello che ho sempre fatto nella mia vita. Ogni volta che mi sono sentita chiusa in una cameretta, dentro un gioco con delle regole, non ho provato a fuggire ma a inquinare il raziocinio della stanza e delle regole. A immaginare cose finte, a dirle, a provocarle, fino a crederci.
Niente di vero titola l’Autrice, niente di sé (Vero-nica).
La memoria come evanescenza impotente e processo fraudolento di cui non si sa più ristabilire il grado d’invenzione, uno scrivere che non intende imbonire i lettori alla propria storia né proiettare una particella di sé nel futuro, per conservare ciò che era sembrato luminoso come un cometa.
Che ne è del sogno da rockstar in un crescere che teme la verità più della morte?
Ci sono ferite a cuore incise nel nostro corpo.
L’anagramma del mio nome è ‘invocare amori’, scrive Veronica Raimo.
Lì il suo libro ti tocca, ti graffia, ti scava, lì si fa portale delle parti “mostrificate” in ciascuno, la vergogna, l’impotenza, il terrore di un rospo bullizzato da una natura matrigna.
Scrive Claudia Durastanti: “Leggere questo romanzo è una festa. Ma molte pagine sono ferite da medusa: bruciano alla distanza.” Metafora perfetta.
Una bambina angosciata dal “poi” e l’inedia di ciò che non viene alla luce. Una costipazione dell’anima.
Ho passato ore interminabili in quello stallo. Disperata.
Il bilico, l’indecisione sul definirsi per non trovarsi imprigionati nell’irreversibile, l’afflizione costante dell’irresolutezza fra abbandonare e riprendere, quel solido rimpianto che mi tiene in vita tutti i giorni.
Il pensiero della fuga è sempre elettrizzante, la sua gestione un po’ meno.
Il lento scivolare nella desolazione di un tempo vuoto, la noia, il desiderio di resa, il rimpianto di futuri non scelti ed eternamente sospesi. La vita nei panni degli altri, in cui infilarsi, riconoscersi e uscire da quei prestiti senza che nulla ti abbia definito e imprigionato davvero.
A volte scriviamo non per elaborare un lutto, ma per inventarlo.
Il dire di sé è sempre rivelazione e ri-velamento.
Sono sempre stata aliena al concetto di “lasciarsi andare” per un motivo molto banale: non so dov’è che dovrei andare. Ogni esperienza per me ha bisogno di una precisa spiegazione linguistica o empirica, di un sussidiario illustrato con tanto di esempi, altrimenti mi sfugge il fatto che la stia vivendo.
Perché nella mente accade proprio così: le cose vanno “vissute” per poterle elaborare e per poterne fare il lutto.
Quando nella nostra vita irrompe il reale possiamo non sapere subito come pensarlo; Winnicott sottolinea che una temporanea perdita di pensiero è ‘necessaria’, soprattutto ai bambini, perché occorre del tempo per rimettersi dagli eventi. Quando poi si torna mentalmente alle scene vissute, quella cesura diventa la materia potenziale di un’elaborazione psichica.
‘Fare la storia’ rivisitando il passato per trasformarlo, collegando i fatti del presente con gli avvenimenti trascorsi, è una funzione psichica che stratifica e riorganizza i ricordi in modi differenti per trasmettere una trama autorappresentativa dell’esperienza del Sé e fornire una struttura alla ricerca di significati. Il passato è quindi aperto a continui atti di storicizzazione, una rimemorazione che ritrascrive e si rinnova in tragitti inesausti.
Ma il normale impulso a elaborare e articolare una comprensione delle forme, che costituisce la sensibilità peculiare di ognuno, è una facoltà che può essere danneggiata o preclusa dall’intrusione di eventi percepiti con una qualità traumatica. Questi possono darsi come segnavia dell’esistenza, condizionando una diversa forma di conoscenza ed esercitando una sorta di attrazione gravitazionale sui processi rielaborativi: il normale dispiegamento disseminativo del linguaggio del Sé viene sequestrato, bloccato, perdendo le sue potenzialità polisemiche. I colori con cui si legge l’esistenza si restringono, i copioni suonano ripetitivi.
L’esperienza dell’analisi, attraverso il riaccadere del transfert, riapre il passato cristallizzato nelle sue ‘necessità’ alla possibilità di un divenire che recuperi più liberi gradienti di trasformazione; le libere associazioni disaggregano il testo, decentrando l’egemonia di certe costruzioni per aprire all’inatteso che può sovrascriversi.
Questa processualità richiama la scrittura con le sue invenzioni creative.
Il libro della Raimo ha la freschezza liberassociativa di una mente che vaga più nel rielaborare continuamente l’immagine di sé che per l’intento di ordinare la coesione narrativa di una ‘trama’ da offrire al lettore. L’atmosfera delle sue pagine è un manifesto della rivitalizzazione che scaturisce dal riportare alla luce le tracce del passato, fra smarrimenti e solitudini, burle e cicatrici, sogni e promesse in giacenza. L’interrogarsi dell’Autrice sulla memoria come custode del vero e dell’identità, ma al contempo con le sue infedeltà, i suoi poteri d’inganno e manipolazione, sono un efficace spaccato del gioco dinamico della realtà psichica, che in quel continuo lavorìo di messa in forma è sempre testimonianza di sé, perché in ogni formazione psichica c’è un nocciolo di verità e nello stesso tempo la memoria è vicina alla mitopoiesi e al sogno, falsifica e deforma per definizione un reale che rimarrà per sempre “inconoscibile” (Freud, Compendio di psicoanalisi).
Anche l’ironia è una risorsa strategica e potente del pensiero, che gioca nel bilico fra l’apparenza del vero e un ‘intravisto’ che ristruttura il campo nell’imprevisto di una diversa visione, che riqualifica elementi o attenua il reale per renderlo dicibile. Nel comico Freud vede la sfida di un Io che si rifiuta di lasciarsi affliggere dalla realtà e trova una terza via fra la disperazione e la sua negazione, un modo per dire altrimenti ciò che, preda della vergogna – o della paura di essere intrusi – potrebbe restare confinato.
C’era una spiga che era cresciuta in un bosco.
– E com’è successo? – mi chiedeva mio nonno.
– Non ne ho idea.
La storia finiva lì. A mio nonno stava bene. A me pure.
Mi ha fatto ripensare alla nota di Winnicott dove scrive che il senso di sé si determina sulla base di uno stato che va perduto se non viene rispecchiato da qualcuno cui viene concessa fiducia e che non viene meno a tale fiducia. Leggere questo libro della Raimo è come guardare il gioco del nascondino, con il suo dilemma fra il bisogno di celarsi e la paura di non essere trovati, una commovente raffigurazione di come il procedere psichico, in certi passaggi, ha necessità di non restare da soli.
Il narrativo è un ottimo strumento di esplorazione della realtà, specie quella interna, e di opportunità trasformative. E questa è una storia che, se la si lascia entrare, fa risuonare molti sé profondi. L’evoluzione psichica si da proprio in quel continuo generarsi e rigenerarsi, nello spazio e nel lavoro dell’immaginario e del simbolico sul reale per creare il nuovo nei significati, per nuove letture della propria storia e l’espandersi di futuri possibili.
Bibliografia
Balsamo (2021), in: Storia, memoria, deformazioni. Frontiere della psicoanalisi, 1, Il Mulino
Bollas (1995), Cracking up, Cortina (1996)
Winnicott (1971), Gioco e realtà, Armando Ed. (1974)
Vedi anche: