“Nel silenzio delle nostre parole”
di Simona Sparaco (DeA Planeta, 2019)
Recensione a cura di Maria Pappa
“Il compito dell’arte è…
innanzitutto comprendere” e
“…se ascoltiamo bene,
udiremo un debole battito
di ali, il dolce fremito
della vita e della speranza”.
Camus
(1960, pag. 266 e pag. 272)
Dopo aver letto con coinvolgimento e interesse “Nel silenzio delle nostre parole”, l’ultimo romanzo di Simona Sparaco, vincitore del Premio DeA Planeta 2019, nel condividere l’entusiasmo con cui è stato apprezzato dai lettori e dalla critica, penso che si possa parlare di un’opera d’arte, nel senso inteso dall’exergo qui riportato. L’Autrice riesce a dischiudere il mondo interno di personaggi rappresentativi di aspetti dell’umanità contemporanea, con un’immediatezza emotiva e un potere evocativo assimilabili a quelli della poesia, della musica e delle arti figurative. Sin dall’inizio i personaggi rimangono scolpiti nella mente del lettore in maniera vivida, a partire dai loro sogni, dalle loro fantasie, dai loro pensieri e da tutto ciò che precede la parola. Freud affermava che i poeti con le loro testimonianze sono preziosi alleati degli psicoanalisti: “Probabilmente, noi e lui [il poeta], attingiamo alle stesse fonti, lavoriamo sopra lo stesso oggetto, ciascuno di noi con un metodo diverso, e la coincidenza dei risultati sembra costituire una garanzia che abbiamo entrambi lavorato in modo corretto” (Freud, 1906, 333). A mio parere quel che rende unico e straordinario questo romanzo è il suo rivolgersi costante al bambino che è in ciascuno di noi e al silenzio che spesso lo avvolge, al “bambino silenzioso” di cui parla Jeanne Magagna (2012), impedendo l’accesso alla parola, spezzando i ponti della comunicazione, o falsificando l’uso della parola. La pregnanza del titolo “Nel silenzio delle nostre parole” e del contenuto del romanzo, interamente centrato sul significato che assume il nostro linguaggio nelle relazioni intersoggettive, coglie in modo acuto e profondo quanto viene evidenziato da Bion (1970) sul possibile uso del linguaggio: “Viene troppo spesso dimenticato che il linguaggio, il cui impiego costituisce un fatto così centrale, è stato elaborato non meno al fine di nascondere il pensiero per mezzo della dissimulazione e della bugia che a quello di chiarirlo o di comunicarlo”.
L’ispirazione del romanzo è nata a partire dal tragico evento della notte del 14 giugno 2017: il rogo della Grenfell Tower di Londra, nel quale morirono 72 persone. In una nota finale del libro Simona Sparaco spiega come in quell’occasione abbia sentito di dare voce a quelle che lei definisce ‘scene madri’: “fatti realmente accaduti, ma anche momenti salienti in cui la vita e la morte si sfiorano fino a confondersi, restituendo alla genitorialità un ruolo centrale” (p. 279). Il romanzo indaga in maniera estesa e articolata la complessità e l’incapacità di relazione comunicativa tra genitori e figli e, più in generale, la solitudine del nostro tempo, sempre più multiculturale, ma ancorato a pregiudizi difficili da scardinare. Le vicende narrate nell’arco di una giornata, sono ambientate a Berlino, capitale europea, in cui personaggi europei di varie culture, lasciano intravedere le paure degli Europei a definirsi tali, a interagire tra loro, superando i pregiudizi. Non a caso più volte ricorrono il mito di Babele, la Porta di Babilonia ricostruita al Pergamonmuseum di Berlino, il Muro di Berlino raccontato dagli occhi dell’artista persiano contemporaneo Yadegar Asisi, nel Die Mauer Panorama, posti come simboli del conflitto umano.
“Il cielo è terso, traforato di stelle, ma nascosto sporadicamente da una nebbia sottile che accarezza la città.. Senza alcun segnale premonitore. Le fiamme, all’improvviso. Di lì a qualche minuto l’incendio raggiungerà lo strato esterno e altrettanto rapidamente si propagherà lungo i quattro piani dell’edificio” (pag. 7). Si scoprirà che a innescare l’incendio è stato il cortocircuito del frigorifero di un appartamento al secondo piano, orami da tempo disabitato. “Al momento l’interno 3B era vuoto, ma non inerte” (pag.101). Le fiamme si propagano lentamente nella notte e avvolgono le vite delle persone rinchiuse nei loro appartamenti. Sono persone che non si conoscono e che non hanno contatti tra loro, ma che dalla propria finestra sono tutte dominate dalla visione tetra e minacciosa dell’enorme mongolfiera che porta il nome del quotidiano ‘Die Welt’, ‘Il Mondo’, che dall’indomani della caduta del Muro è stata fissata nel cuore di Mitte e che fa pensare a un “mondo appeso a un filo.. Sempre sul punto di volare via e riconquistare la sua orbita intorno al sole, stanco di restarsene ancorato in un’immobilità forzata e innaturale” (pag. 47-48).
Alice è una giovane studentessa Italiana che si trova a Berlino per un Erasmus. Da qualche mese vive con Matthias, timido artista locale, con cui sta sperimentando la passione e l’amore, senza poterne far parola ai suoi genitori, soprattutto la madre, con la quale ha un “rapporto per quanto iroso e conflittuale, comunque forte” (pag. 234). C’è un filo invisibile a tenere unite Alice e sua madre, Silvana, permettendo di dare voce ai silenzi: è il quaderno che la madre le ha regalato prima della partenza. È un quaderno speciale, sul quale Silvana scriveva per confidarsi con il suo cane, potendo dire a lui cose che i genitori non avrebbero compreso. Oltre a leggere il quaderno della madre, nel tentativo di cercare un dialogo interno, Alice comincia a scrivervi, parlando di se stessa e delle sue emozioni liberamente. Alice non studia come dovrebbe e passa le sue giornate a ricercare una bellezza antica nel Museo di Pergamo, nutrendo il forte interesse per l’Arte, l’Archeologia e i Musei, trasmessole da suo padre. Nel vivere sentimenti di nostalgia per la perdita di uno stato interiore di perfetta intesa con la madre, risalente alla sua prima infanzia (M. Klein, 1959), Alice riesce a fare del “senso di solitudine” uno spazio di introspezione e di espressione della propria soggettività e creatività personale. Alice può così sviluppare la “capacità di essere sola”, così come viene descritta da Winnicott (1958) e scrivere a sua madre: “Credo di essermi sentita finora io stessa uno spazio vuoto. Per la prima volta nella mia vita mi sto sentendo piena…..Quante parole ci diciamo che sono solo silenzio? Perché vorremmo dirne altre ma non abbiamo il coraggio di dargli voce. Almeno a me è questo che succede, soprattutto con te. E qualche volta il silenzio delle nostre parole si fa così assordante che ho bisogno di una via di fuga. Da quando ho cominciato a scriverti, mi sembra di trovare un senso nelle cose che ho fatto e che non ti ho detto. Forse mi sto ingannando, ma mi sembra di aver trovato anche te” (pag. 132-133). Alice riesce peraltro a scuotere il suo compagno Matthias dai suoi pregiudizi verso gli Altri in generale e verso i vicini che a volte gli capita di incontrare e di cui dice, con una certa indifferenza: “Questo è un mistero che non mi interessa scoprire” (pag. 100).
Al piano di sotto rispetto a quello dove vive Alice, c’è Naima, un’anziana signora che da trentatre anni è affetta da una malattia neurologica che l’ha paralizzata in maniera progressiva, per cui ora è su una sedia a rotelle. È una donna Algerina, che in passato ha sposato un uomo a dispetto delle rivalità familiari: lei Algerina, di famiglia musulmana, lui cattolico e Francese. Insieme sono andati a vivere in Germania, dove hanno avuto un figlio, Bastien, che a partire dall’adolescenza è stato fonte di grosse preoccupazioni, infilandosi in questioni di droga e in risse. Naima è alle prese con l’elaborazione di una genitorialità difficile e di lutti particolarmente dolorosi, come quello legato alla recente morte del marito, che viene da lei negata. Naima rimpiange Bastien come il bellissimo bambino efebico a cui faceva il bagno la sera e che le diceva: “ Mamma, sei la più bella del mondo e io da grande ti voglio sposare” (pag. 23). Ora Bastien è un uomo di quasi 30 anni e viene vissuto da Naima come l’uomo cupo e ruvido che ha spodestato quel bambino. Prima dell’incendio Bastien ignorava la cultura e le credenze dei suoi genitori, il fatto che sua madre un tempo portava il velo, e questo creava in lui un diffuso senso di sradicamento. Sarà solo dopo l’incendio e grazie all’incendio, che la madre gli parlerà della sua infanzia e del suo proprio passato in Algeria: “Se non ti parlavamo del passato era anche perché volevamo proteggerti, donarti delle radici nuove, forse troppo sottili, ma almeno completamente tue.. Quanti errori, Bastien, si fanno quando non si comunica abbastanza. Io e tuo padre siamo cresciuti in famiglie dove il silenzio tra genitori e figli era una cosa scontata, come una cortina essenziale per la convivenza..” (pag. 247-248).
Al piano di sotto vive Polina, una giovane ex ballerina classica, incapace di accettare il proprio corpo dopo la maternità, tantomeno il pianto incessante di Janis, il suo bambino di 2 mesi, e il pensiero del suicidio cova spesso in lei, come se fosse l’unica soluzione. Accanto a Polina c’è l’appartamento 3B, quello dal quale partirà l’incendio; sullo stesso piano c’è anche l’appartamento di un personaggio singolare, visto solo di sbieco, un uomo scambiato da molti per un barbone, che passa più tempo fuori a bere che a casa. Pur allattando e cambiando il bambino all’occorrenza, con la precisione che la contraddistingue, “Polina non lo sa tenere, in braccio. E non sa ritrovarsi nei pianti di suo figlio” (pag. 10). Ma con il propagarsi dell’incendio, il pianto si fa diverso e Polina riesce finalmente a decifrarlo: è un alfabeto Morse che piano piano svela il proprio significato. È un grido di aiuto disperato. Janis fa sentire così la sua potente competenza di neonato, attivando l’udito, lo sguardo e le funzioni genitoriali della madre. Polina comincia allora ad avvertire la necessità di pensare, anziché agire o aderire all’altro, come ha sempre fatto finora. Nell’osservare attentamente Janis, Polina si accorge che non somiglia a nessuno di conosciuto, che cambia faccia ogni giorno, pur rimanendo sempre lo stesso, che è “un intruso” (pag. 30). Irrompendo con la sua Alterità, Janis riesce a poco a poco ad aprire l’orizzonte di Polina al suo vero Sé: “La mente era libera, da qualunque aspettativa, da qualunque pregiudizio… Stava ballando per se stessa, e comprese in quel momento che la danza era stata una scelta sua, solo sua, il motivo per il quale era venuta al mondo” (pag. 219).
Il palazzo che sta per andare in fiamme viene guardato da lontano dalla vetrina dello späti di Hulya, giovane cassiera musulmana, che osserva il mondo da dietro il bancone e che conosce tutti di vista, attraverso le loro abitudini. Hulya, fidanzata da anni, con Mensur, è segretamente attratta da Polina, di cui cattura immagini con una videocamera. L’incendio la porterà a dichiarare la propria omosessualità ai genitori.
L’incendio arriva a stravolgere ogni prospettiva per tutti i personaggi, costringendoli a scelte estreme, per colmare i loro silenzi, per dare un nuovo significato alla vita e alla morte, per sciogliere i nodi di una soggettivazione travagliata.
“Nel silenzio delle nostre parole” è un romanzo che stimola interrogativi cruciali sul grave rischio di solitudine, isolamento e disumanizzazione che incombe sul mondo contemporaneo. La psicoanalisi ci aiuta a capire che lo ‘straniero’ espulso è parte di noi, perché l’essere è straniero a se stesso. L’uomo è “ignoto a se stesso”, scrive Camus ne “Il primo uomo” (1994). In un mondo così a rischio, Sarantis Thanopulos, nel suo ultimo libro “La città e le sue emozioni” (2019), suggerisce come rimedio per “restare sani” (pag. 78), quello di coltivare l’amicizia e la speranza. “La speranza è a rischio, la crisi sociale sta consumando le risorse collettive di speranza” (pag. 85).
Concludendo direi che il romanzo di Simona Sparaco è un romanzo corale, teso verso il desiderio di speranza, verso una vera apertura all’Altro e al dialogo e per questo di grande portata sociale, oltre che rilevante dal punto di vista psicologico.
BIBLIOGRAFIA
Bion, W.R. (1970) Attenzione e interpretazione. Una prospettiva scientifica sulla psicoanalisi e sui gruppi. Armando, Roma, 1973.
Camus, A. (1960) Creare pericolosamente, in Resistenza, Ribellione e morte, Bompiani, Milano, 1961.
Camus, A. (1994) Il primo uomo. Bompiani, Milano, 1995.
Freud, S. (1906) Il delirio e i sogni nella “Gradiva” di Wilhelm Jensen, in O.S.F. 5, Bollati Boringhieri, Torino, 1972.
Klein, M. (1959) Sul senso di solitudine, tr. it. In Il nostro mondo adulto, Martinelli, Firenze, 1974
Magagna, J. (2012) Il bambino silenzioso. Comunicare senza parole, Borla, Roma, 2015
Thanopulos, S. (2019) La città e le sue emozioni, Edizioni ETS
Winnicott, D.W. (1958) The Capacity to be Alone, Int. J. Psycho-Anal. 39, Tr. It in Sviluppo affettivo e ambiente, Armando, Roma, 1970