Parole chiave: #abbandono, #origini, #perturbante
Nel profondo
di Daisy Johnson (Fazi Ed., 2019)
Recensione di Daniela Federici
Non c’è nostalgia più dolorosa
di quella delle cose che non sono mai state.
Pessoa, Libro dell’inquietudine
Un romanzo suggestivo e ammaliante, un intreccio dalle atmosfere tenebrose che attinge al mito.
Gretel è una lessicografa e quel lavoro per dare nuovi significati alle parole risuona come un’impronta della sua storia. L’infanzia su una chiatta ancorata nei canali dell’Oxfordshire, una madre inquieta che inventa espressioni per la loro vita isolata e selvatica, e che a 16 anni l’abbandona senza una spiegazione. Gretel precipita in una mancanza senza rimedio e la sua vita diviene una ricerca delle ragioni e delle proprie origini, in compagnia dei fantasmi che disseminano le loro tracce, braccandola, seducendola come un canto di sirena.
… perché la memoria non è una linea retta, ma una serie di giri tortuosi, che vanno avanti e indietro nel tempo… I ricordi brillano nel buio come bicchieri in frantumi, e poi svaniscono.
Ho sempre saputo che per cancellare il passato non basta volerlo. Il passato ci lancia dei segnali … Il passato non è un filo che ci lasciamo alle spalle, ma un’ancora.
Gretel cerca per anni la madre fra ospedali e obitori, un’adolescenza smarrita che cresce aggrappata al poco che resta di quella presenza perduta. Una forza d’attrazione che Freud attribuiva al rimosso, all’infantile, alla madre-calamita della faccia notturna dell’esistenza.
I luoghi dove siamo nati ritornano. Si travestono da emicranie, mal di stomaco, insonnia. Sono la sensazione di cadere con cui a volte ci svegliamo, brancolando in cerca della luce, certi che tutto ciò che abbiamo costruito sia scomparso nella notte. I luoghi dove siamo nati ci diventano estranei. Non ci riconoscono più, anche se noi li riconosceremo per sempre. Ci sono cresciuti dentro, sono il nostro midollo. Se ci rovesciassero come un guanto, troverebbero delle mappe incise dietro la pelle. Servono proprio per ritrovare la strada di casa. Solo che dietro la mia pelle non ci sono canali, binari ferroviari e una barca, ma sempre e solo tu.
Sono infiniti i nonnulla attraverso i quali si manca la possibilità di costruire il senso di un mondo sicuro cui potersi affidare.
Ormai adulta e prossima alla rinuncia, Gretel ritrova una madre divenuta l’ombra di se stessa, compromessa dall’Alzheimer. Il male della memoria, delle parole che si disfano.
Dimenticare, immagino, è una forma di difesa.
Per Gretel è l’occasione di riprendere possesso del senso della propria storia, colmando le lacune, sbrogliando la presa intrusiva di ciò che, dei vuoti, si ripete.
Una storia in cui l’ordito del tempo si dipana ipnotico, fra ricordi e segreti che riemergono come creature misteriose dal fondo limaccioso del canale, personaggi che intrecciano le loro vite con quelle delle protagoniste componendo la mappa degli accaduti, dei non detti, degli inganni.
È folgorante lo svelarsi del passato celato in quello sguardo materno che Gretel tanto necessitava catturare, tanto più vi scorgeva riflesso un altrove, un’estraneità sfuggente.
Quei geni che si portava dietro, quel disastro che nascondeva dentro. Le persone trasmettono molte cose ai figli…
Daisy Johnson, la più giovane finalista nella storia del Man Book Prize, intesse con un linguaggio di raffinata grazia le rappresentazioni di come l’esperienza traumatica può invadere la psiche e ciò che è muto al significato plasmare angosce e ossessioni nei profondi recessi della nostra mente.
Si travestono da parole, vuoti di memoria, incubi. Sono il senso di oppressione quasi animalesco che sentiamo certe volte in petto, quando ci svegliamo; sono una persona cara che credevamo di aver perso da tempo e che invece se ne sta lì in piedi a guardarci quando accendiamo la luce.
Una toccante narrazione della nostalgia come affetto della mancanza e dolore del ritorno, un insopprimibile sguardo all’indietro che può limitare la possibilità di espandersi e di proiettarsi nel futuro. I vissuti di non riuscire a sentirsi al centro della propria esistenza, pienamente coinvolti nel vivere, abitati da un’allerta e da un’attitudine di controllo sul fuori che lascia il presente costantemente incompiuto e difettoso.
Più mi torna la memoria e più vedo solo delle schegge, dei frammenti di cose, che a quel tempo dovevano avere un’enorme importanza. Ci credevamo davvero in certe cose.
Come adagiato su uno spazio-tempo di frontiera, questo romanzo è un sogno vivido e torvo che trascina nello sfocarsi fra realtà e allucinatorio dove tutto si trasfigura, dove ogni diabolo che non riesce a essere metabolizzato in simbolo viene a prendersi la sua libbra di carne.
Mi dicesti del Bonak. Siamo state noi, continuavi a ripetere, non capisci che siamo state noi a farlo diventare così.
Il Bonak è una presenza ancestrale, una creatura selvaggia incisa nell’immaginario della madre che assilla di ombre la vita fantasmatica della figlia, un perturbante compendio di terrore, alienità e familiarità capace di sfociare nelle forme del reale.
Dare un nome a qualcosa è un gesto molto potente.
… le parole sono come briciole di pane…
Una storia magnetica che intreccia esche e costruzioni come in un viaggio analitico, una lenta emersione delle parti scisse che mostra l’importanza di recuperarle al narrabile per poterle contenere, articolando la trama di significati che, sola, può smagare i poteri delle reminiscenze e degli inespressi.
Ti guardai e – per un momento – mi parve che ti stessi trasformando in lui. Come se fossi sempre stata tu, il Bonak.
L’indispensabile di dare parole al dolore, come nell’appello di Malcolm nel Macbeth: “Fatevi cuore quanto più potete: è notte lunga solo quella che mai non trova il suo mattino”.
Questo affascinante romanzo d’esordio si destreggia con maestria fra i temi del doppio, del perturbante e di un sorprendente scenario edipico. Un avvincente labirinto che mostra il nostro asservimento ai fantasmi e il percorso che occorre al profondo per sconfiggere i propri mostri e trasformare il fato in destino.