Morire il 25 aprile
di Federico Bertoni (Frassinelli, 2017)
a cura di Daniela Federici
A partire da uno spunto autobiografico, Bertoni mette in pausa i saggi per il suo primo romanzo.
Il protagonista è un uomo di mezza età che alla morte del leggendario comandante partigiano che gli è stato mentore, gli trova in casa una lettera della propria madre in cui lei lo accusa di averle quasi ucciso il padre, simpatizzante fascista.
“Una delle persone più importanti della mia vita, un marchio sulla mia giovinezza. E adesso è morto e non so chi era.”
Il dubbio su quell’inspiegabile ferocia diventa un assillo che fa da fil rouge del racconto. I genitori sono morti, non c’è più a chi chiedere una testimonianza diretta, gli occorre cercare fra archivi e documenti della resistenza la storia non raccontata di quella brigata e del suo estroso leader.
Nel romanzo si articolano in filigrana due linee temporali: l’allora degli anni di guerra e il presente punteggiato di episodi di cronaca: lo scoppio della guerra in Afghanistan, le elezioni, il G8 di Genova.
Ripercorrere la storia diventa nel protagonista un percorso esistenziale, un modo di interrogare anche il proprio passato prossimo, chiedendosi cosa si è diventati: ed è un “rotolare veloci, fra madeleine di paccottiglia (…), noi cresciuti con il culo nel burro e gli occhi incollati alla tv.”
Bertoni anima il suo protagonista contro quegli anni ’80 che hanno rappresentato l’epoca di formazione della sua generazione, considerandoli portatori di un lassismo degli ideali e di una degenerazione culturale, una de-moralizzazione nei palinsesti dell’entertainment.
Eppure sono stati anche anni di stragi, attentati, terremoti, da Ustica a Cernobyl, dal referendum sull’aborto alla caduta del muro, dall’AIDS alla fine della guerra fredda: “queste cose enormi che ti scivolano addosso e il giorno dopo non te le ricordi più. E poi un pulviscolo che è l’aria stessa, che respiri e ti modifica da dentro e non te ne rendi conto.”
Forse si resta appannati nell’indifferenza perché tutto scorre troppo veloce e planetario per le nostre capacità di comprenderlo davvero nel profondo?
Viene da chiedersi come riscattiamo oggi l’angoscia di scomparsa e la dismisura della nostra insignificanza nel fluire vorticoso che condanna tutto all’oblio immediato. Se riusciamo a venire a patti con la nostra cifra mortale a condizione di guadagnarci una traccia relativamente duratura del nostro passaggio negli affetti e nella memoria di quel che siamo stati, che ne è di questo investimento di senso in un’epoca individualista? In un tempo dove la difficoltà di impugnare progettualità piene e direzionate ci lascia braccati e predatori su un presente da consumare senza resti?
Un passato che setaccia il presente, un romanzo che interpella come un editoriale. Il racconto si fa spunto per interrogarsi sullo stare nel proprio tempo, sul senso e la direzione.
“Quando parlavamo di politica continuava a dire che noi giovani dovevamo ribellarci, lottare, distruggere il sistema. E io gli rispondevo che era impossibile, non avevamo di fronte un tedesco con il mitra spianato. I nemici si erano mimetizzati, erano diventati invisibili, immateriali come i flussi elettronici o le transazioni finanziarie, ed erano diventati parte di noi.”
Uno scenario drammaticamente ambiguo quello della modernità.
Come dimostrare di non essere da meno di quel tempo carico di responsabilità e valori, di poter ancora scegliere e agire.
“Ma scegliere cosa? Fare che cosa se ci siamo dentro? È come segare il ramo su cui siamo seduti. È il nostro mondo, l’aria che respiriamo, la benzina che mettiamo nella macchina, questo mondo siamo noi. Abbiamo il coraggio di metterlo davvero in discussione, a parte gli slogan? Possiamo negoziare il nostro tenore di vita? Dov’è la linea del fronte?”
Con la sua ricerca di senso nella storia – quella maiuscola che comprende tutti e quella minuscola della singola vicenda – Bertoni sembra esplorare le ragioni e lo spirito della Resistenza intrecciandolo con ciò che la rende ancora attuale: una resistenza, minuscola ma non meno vitale, alle derive del presente.
Bollas descrive lo stato mentale fascista che ordina i fatti per sostenere l’assioma ideologico, obliterando i dubbi, congelando l’ordine simbolico, precludendo la libertà rappresentativa nella sua polisemia: “Il simbolico è la vera sovversione dell’ideologia. La certezza ideologica, nonostante leghi il Sé con la semplificazione e l’esilio degli altri punti di vista, è minacciata dall’improvvisa irruzione dei pensieri” (da “Essere un carattere”, Borla 1995).
Smette forse di essere attuale questa insidia in assenza di una manutenzione del pensiero?
“Ho una gran paura che questa storia ci riguardi tutti, noi italiani brava gente.”
“Nessuno è innocente dopo 20 anni di dittatura.”
Nel racconto, la dittatura di allora e quella insinuante del presente, sfumano spesso in un rimando reciproco.
“In fondo le eredità sono fatte anche di debiti e ipoteche.”
“In questo paese dobbiamo smetterla di dire che siamo tutti un po’ mascalzoni, che in fondo anche i migliori sono sporchi di fango. È un alibi schifoso, un pretesto per non uscire mail dal porcile.”
La morte dell’ultimo testimone, del depositario delle risposte, in un tempo che diluisce la memoria storica, scarnifica il lutto e la chiamata del suo passaggio di testimone.
Affrontare i fantasmi e interrogarsi attraverso l’altro, comprendere il presente alla luce del passato e definire cosa chiedere al proprio domani. Questo il messaggio.
“Non raccontarti che ti hanno tolto ogni spazio d’azione.”
Molto nel romanzo risuona dell’importanza dell’impegno nella ricerca di un senso: “grappoli di dubbi e un indagare laborioso, qualcosa di simile al lavoro del detective e del paleontologo”, “consapevole che non esiste conoscenza oggettiva ma che c’è comunque un equilibrio, un gioco di prospettive e di tensioni tra il tuo sguardo e il mondo.”
Mi ha fatto ripensare a “L’ora di tutti”: Maria Corti che raccontava la resistenza otrantina ai Turchi e l’ora destinata a ognuno per rivelarsi nel proprio valore.